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15 anni dopo tra Allegri e il Milan è cambiato tutto
03 giu 2025
Non sarà facile, ma il Milan e Allegri potrebbero aver bisogno l'uno dell'altro.
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9 min
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IMAGO / Insidefoto
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Sembra assurdo a pensarci oggi, ma quando nell’estate del 2010 il Milan puntò su Massimiliano Allegri come nuovo allenatore, lo fece non solo nella speranza di aver scelto un tecnico promettente, ma anche di aver trovato qualcuno che praticasse un calcio fresco e divertente.

«Le vittorie vogliamo conseguirle attraverso un gioco spettacolare, che faccia godere non soltanto i nostri tifosi ma tutto il mondo del calcio», aveva detto Silvio Berlusconi nel giorno della sua presentazione, in una conferenza abbastanza stravagante, che l’allora presidente del consiglio aveva aperto vantandosi dei «6600 mafiosi assicurati alla giustizia» dal Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, anch’egli presente in sala stampa in qualità di tifoso.

Se qualcuno avesse nostalgia del Governo Berlusconi IV e degli anni in cui veniva brevettata la tessera del tifoso…

Aveva «le physique du rôle per allenare il Milan» diceva Adriano Galliani di Massimiliano Allegri, che nei suoi primi due anni da allenatore in Serie A si era costruito la fama di allenatore che faceva giocare bene le sue squadre. In effetti, nel biennio precedente, il Cagliari era stato una delle squadre migliori del campionato, in relazione ai mezzi a disposizione.

Partito con cinque sconfitte di fila in campionato nella stagione 2008/09, e rimasto in sella nonostante il presidente fosse un mangia allenatori come Cellino, da allora i rossoblù con il loro 4-3-1-2 avevano iniziato a giocare un calcio davvero godibile, che gli aveva permesso di salvarsi con tranquillità e di issarsi addirittura al nono posto, ancora oggi miglior piazzamento per il club negli ultimi 30 anni.

Sorretto dall’affidabilità di Marchetti tra i pali, di Astori al centro della difesa e di Daniele Conti a presidio della metà campo, quel Cagliari riusciva ad esprimersi al meglio in velocità, grazie a due punte mobili come Acquafresca e Jeda, agli inserimenti delle mezzali Lazzari e Biondini e, soprattutto, al genio di Andrea Cossu, convertito da Allegri da ala in trequartista e diventato uno dei migliori giocatori di quella Serie A, tanto da attirare l’interesse del Barcellona di Guardiola. «Giocate a memoria, non avete paura, non sprecate la palla», si era congratulato il bordocampista di Sky Marco Nosotti con capitan Daniele Conti subito dopo la storica vittoria per 2-3 in casa della Juventus, forse il risultato più prestigioso del biennio di Allegri a Cagliari. Quella stagione sarebbe valsa ad Allegri la prima delle sue quattro Panchine d’Oro.

L’anno successivo sembrava promettere ancora di più: in inverno, addirittura, il Cagliari era arrivato a lambire la zona Champions, e avrebbe potuto scavalcare la Juventus al quarto posto, se avesse battuto l’Udinese in una partita di fine febbraio. Invece, quel giorno per i rossoblù arrivò una sconfitta e qualcosa si ruppe. Da lì in avanti i sardi non avrebbero quasi più vinto, probabilmente sazi per la quota salvezza raggiunta con largo anticipo e per il fatto che il Sant’Elia non aveva le carte in regola per ospitare coppe europee. Le 7 sconfitte nelle successive 9 partite furono inaccettabili per Cellino, che decise di esonerare Allegri.

A infastidire il presidente non solo il periodo di magra, ma anche le voci secondo cui il tecnico fosse già in parola con altre squadre, Milan in particolare. «Sono arrabbiato con lui, perché ha mollato, costringendoci a un finale di campionato mediocre». Era deluso Cellino, che minacciava di far saltare il suo passaggio in rossonero con provvedimenti ai limiti del mobbing: «Ci sono rimasto male, non nascondo che voglio prendermi una rivincita. Potrei tenerlo fermo un anno fino alla fine del contratto, è un'ipotesi che mi stuzzica, non da escludere». C’era voluta tutta la diplomazia di Adriano Galliani per trovare un accordo e svincolare Allegri. Il contesto è stato ricostruito in questi giorni dalla Gazzetta dello Sport, secondo cui Cellino lo avrebbe liberato per sdebitarsi con l’AD rossonero, che lo aveva salvato dal coma etilico a capodanno del 2006, dopo aver bevuto un Martini-gin particolarmente forte a Miami.

Quindici anni dopo, la situazione per Allegri e per il Milan si è ribaltata. Allegri, oggi, è l’allenatore che arriva perché l’ambiente è stufo di sperimentare, e la dirigenza deve assolutamente allontanarsi da ogni tentazione di pensare al fantomatico “bel gioco”. Soprattutto, sono cambiate la reputazione di Allegri e le dinamiche societarie all'interno del Milan. Nel 2010 il livornese era un giovane allenatore in rampa di lancio che, anche in caso di cattivi risultati, sarebbe stato sorretto da una società presente e con dei riferimenti chiari (unico pregio nella gestione di quel Milan decadente), stavolta Allegri arriva come l’allenatore dalle spalle larghe chiamato a riempire i vuoti di una società assente.

Per certi versi, Allegri dovrà assumersi responsabilità simili a quelle dei suoi ultimi due anni alla Juventus, in cui dapprima era rimasto ultimo baluardo di una società in disgregazione per la vicenda plusvalenze, e poi aveva dovuto guidare la squadra nell’anno di transizione con la nuova dirigenza, che sarebbe culminato con il suo esonero. Nonostante tutto, Allegri aveva mantenuto una base di rendimento stabile – aveva conquistato la qualificazione in Champions in entrambe le stagioni – e aveva saputo fare da parafulmine per l’ambiente, motivo per cui è facile comprendere l’affetto dello zoccolo duro del tifo bianconero nei suoi confronti.

Così come la Juventus si era pentita dei suoi peccati ed era tornata da lui dopo aver abiurato i progetti di Sarri e Pirlo, allo stesso modo Allegri è il nome scelto dal Milan per redimersi, depurarsi di tutti gli esotismi che avevano portato a scegliere dapprima Fonseca e poi Conceiçao. Si ritorna alle certezze di una volta, ad un nome che, nella percezione comune, dovrebbe essere garanzia di risultati. Perché la percezione, visto il livello di insofferenza del tifo milanista, ha giocato un ruolo importante in questa scelta, almeno tanto quanto le considerazioni manageriali e di campo.

Da quando il dibattito si è inasprito, Allegri ha cavalcato una narrazione diventata poi solidissima, accettata come una verità inconfutabile, quella dell’uomo dal forte senso pratico, sempre un po’ più furbo degli altri, che a differenza sua non hanno capito che il calcio è semplice. Ne aveva già scritto Emanuele Atturo qui su Ultimo Uomo in un pezzo pubblicato poco dopo il suo esonero.

Allegri di sicuro non avrebbe subito certi gol, Allegri di sicuro non avrebbe perso certe partite, Allegri di sicuro avrebbe saputo come vincere. Non importa se la realtà della sua ultima esperienza alla Juventus abbia confermato o smentito tutto ciò, la percezione ormai è questa ed è quasi più importante della realtà. E poiché i tifosi hanno bisogno di abbracciare una narrazione, soprattutto nei periodi cupi e soprattutto a giugno, quando ancora mancano tre mesi all’inizio della nuova stagione, Allegri è stato un ottimo nome per provare a temperare gli animi, l’uomo dietro cui nascondere, per un attimo, i responsabili della disastrosa stagione appena trascorsa.

Senza dubbio Allegri ha il polso per sopperire ad alcune carenze strutturali del Milan attuale. E poi, Tare è un DS che lavora molto per occasioni, e il tecnico livornese ha il pregio di non essere troppo dogmatico nella scelta dei giocatori (motivo per cui era stato l’allenatore perfetto nella Juventus di Marotta).

Sul campo, però, Allegri dovrà dimostrare qualcosa di diverso rispetto agli ultimi anni a Torino, dove la squadra sicuramente aveva dei limiti, ma lui non è mai riuscito a tirarne fuori tutto il potenziale.

Sono stati strani, gli ultimi tre anni di Allegri alla Juventus. Sembrava quasi essere tornato per risolvere dei conti in sospeso, dopo l’esonero del 2019 e la scelta della Juventus di sostituirlo con Sarri, l’allenatore a cui inizialmente è stato contrapposto nell’assurdo dibattito tra risultati e bel gioco.

Allegri, nella sua seconda esperienza in bianconero, si è arroccato sulle proprie posizioni fino a diventare lui stesso un teorico, un allenatore estremamente ideologico, seppur di segno opposto rispetto ai principi che combatte. E così, indistintamente dalle caratteristiche dei giocatori, quasi solo per dimostrare di avere ragione, si era ridotto a proporre sempre lo stesso menù, a base di difesa bassa e passiva, e attacchi in campo lungo. Un allenatore distante dal miglior Allegri, quello del Cagliari, del Milan e del primo ciclo di successi alla Juventus, che pur mantenendo come fondamenta la solidità difensiva, era capace di disegnare attacchi calibrati sulle caratteristiche dei suoi migliori giocatori, basati su associazioni spontanee e situazioni puntuali.

Giova ricordare che il famoso gol di Higuaín al Monaco propiziato dal tacco di Dybala non era un contropiede, ma un'azione orchestrata partendo dal basso contro il pressing avversario.

La nuova esperienza in rossonero, allora, potrebbe essere un’occasione per lavorare con maggior serenità. Allegri al Milan non avrà guerre partigiane da vincere. Certo, al microfono potrà continuare la sua battaglia mediatica contro i teorici, i filosofi, il tiki-taka, eccetera eccetera, e in parte dovrà occuparsi anche della direzione sportiva. Sul campo, però, potrà lavorare con la mente più libera e chissà, provare a proporre un calcio magari non offensivo, ma congeniale alle caratteristiche dei giocatori. Del resto, il fantomatico bel gioco non esiste, mentre invece sarebbe giusto pensare a cosa voglia dire davvero “giocare bene”: esaltare le potenzialità dei propri giocatori, creare le condizioni per arrivare al gol e ridurre le possibilità di subirlo. Di modi per pervenire a questi tre obiettivi ce ne sono a decine.

Difficile, comunque, fare considerazioni da oggi su cosa potrà proporre il nuovo allenatore. Di mezzo ci sarà il calciomercato e l’estate per il Milan si prospetta movimentata. Già da ora, però, è facile pensare che con Allegri le cessioni di Reijnders e Theo sarebbero meno dolorose, almeno in teoria, visto che l'allenatore predilige terzini solidi in difesa e mezzali con grande senso tattico senza palla e che accettino anche di toccare pochi palloni. Certo, è vero che due giocatori così abili a in conduzione gli farebbero piacere, visto che Allegri ama chi sa portare palla per lunghi metri. Da questo punto di vista, comunque, i nomi non mancano nella rosa del Milan, a partire da Leão - sempre a patto di non mortificarlo troppo lontano dalla porta e troppo isolato dal resto della squadra. Sarà interessante anche vedere il modo in cui si sposerà con Allegri un investimento importante come Gimenez, che avrebbe sofferto con allenatori più esigenti in termini di partecipazione al gioco: il messicano non è adatto se gli si richiede di fare da raccordo, mentre è più a suo agio in campo aperto (riguardare Feyenoord-Bayern Monaco 3-0 per crederci, col baricentro olandese estremamente basso) e non si fa problemi a sacrificarsi.

Dopo una stagione chiusa all’ottavo posto, la speranza minima di tifosi e dirigenti è che Allegri garantisca una base di prestazione più elevata: nella routine della Serie A, anche negli ultimi anni alla Juventus Allegri ha dimostrato di conoscere la formula per macinare punti, almeno contro squadre di livello più basso, cioè la maggior parte delle avversarie. Riuscirà a fare lo stesso al Milan e, a differenza che alla Juve, a plasmare una squadra che torni a infondere ottimismo nei suoi tifosi in vista del futuro?

«Sono un pratico, la mia ambizione sarebbe quella di arrivare più in alto possibile. Io ce la metto tutta, poi si vedrà», aveva detto in un’intervista al Tirreno, giornale di Livorno, quando era ancora allenatore del Cagliari. Ritrovare quello spirito pratico - senza pensare che ci sia solo un unico modo di giocare - per massimizzare davvero il rendimento di una rosa che, per nomi, resta comunque una delle migliori del campionato, sarebbe già un primo passo.

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