Il 9 luglio scorso Víctor Barrio (Grajera, Segovia, 1987) è morto nella plaza de toros di Teruel dopo essere stato colpito al cuore dal corno di un toro di nome Lorenzo (nato a aprile 2012, allevamento Los Maños, Saragozza, 529 chili). Cresciuto nella scuola taurina di El Espinar, Barrio si era laureato matador de toros, ricevendo la cerimoniale alternativa a Madrid nel 2012 dalle mani dell’esperto torero El Fundi. Era dal 30 agosto 1985 che non moriva un matador de toros in Spagna. Il racconto che segue ripercorre tre famose ultime corride di altrettanti matadores che hanno perso la vita di fronte al loro toro. La storia dell’ultima tarde di Barrio verrà scritta e riscritta. Quel che per ora sappiamo, oltre alla dinamica dell’incidente (facilmente reperibile nelle immagini conservate in rete), è che il giorno prima di toreare Barrio aveva sentenziato: “Domani a Teruel vita o morte”. Poche erano le occasioni di dimostrare il proprio valore per un ragazzo che ancora non aveva avuto il successo che meritava. Sugli spalti la moglie, Raquel Sanz Lobo, aspettava il trionfo assieme al padre di Barrio. Per l’occasione il torero indossava un “vestito di luci” speciale: sul dorso che avrebbe costituito il bersaglio della cornata fatale, erano ricamati piccoli cuori.
Victor Barrio, 29 maggio 1987-9 luglio 2016
La mattina del 16 maggio 1920 a Talavera de la Reina l’aria era mite, il sole ancora obliquo e i giardini El Prado profumavano di gelsomino. Nelle stalle della Plaza de Toros La Caprichosa, Bailador sembrava il più piccolo fra i tori. Era accucciato in un angolo e sonnecchiava, mentre Blanquete, il fido banderillero di Joselito, attraversava il giardino per assistere al sorteggio dei tori. Il suo Maestro dormiva ancora. Dicono che non sognò nulla, quella notte, Joselito.
La mattina dell’11 agosto 1934, Manzanares affondava in una pozza di sole. Le terre bruciate di Castiglia sembravano lande desertiche. Due bambini succhiavano limonate fredde mentre il padre si voltava sorpreso verso l’ingresso della plaza de toros. Mormorò qualcosa e i bambini lo guardarono. “È Sànchez Mejìas, quello” disse l’uomo sovrappensiero “Chissà perché è venuto di persona al sorteggio. Non vengono mai, i toreri, al sorteggio”. E infatti era annoiato dall’incombenza, il torero intellettuale. E non diede che un’occhiata veloce ai suoi tori e non si ricordò affatto, più tardi, che uno dei due si chiamava Granadino.
La mattina del 30 agosto 1985 a Colmenar Viejo l’umidità aveva schiuso odori che preannunciavano settembre. Attorno alla plaza de toros, già tutto era in movimento. Nelle stalle un toro di nome Burlero si era liberato dei compagni dimostrando chi fosse a dominare là in mezzo. Gli altri animali si erano ritratti immediatamente. La giovane promessa di Spagna, invece, El Yiyo, dormiva ancora nella stanza 103 dell’Hotel Palmi a Miraflores. Era andato a letto tardi, lo avevano raggiunto le guardie civili mentre guidava fra Cahorra e Madrid, per avvertirlo che l’indomani avrebbe toreato a Colmenar Viejo. Doveva riposare, adesso. Un buon torero deve saper riposare.
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La plaza ha ancora le stesse dimensioni a Talavera de la Reina e la cupola della Basilica Nuestra Señora del Prado svetta molto al di sopra delle sue mura. La chiamano “la cappella Sistina della ceramica”. È decorata dentro e fuori da azulejos che raccontano scene del Vecchio Testamento. Sul lato posteriore della Basilica, si apre l’ingresso alla Plaza de Toros La Caprichosa. È una plaza bella e antica ma da dentro non si può resistere alla tentazione di guardare altrove, ossia in alto, dove la cupola della Basilica rompe il cielo. Soltanto gli spettatori seduti nelle tribune del tendido 3 non possono vederla. Anche dall’arena, i toreri che lavorano accanto al tendido 3, se si distraessero a guardare il cielo, non la vedrebbero. Non la vide Joselito, il 16 maggio 1920 quando fu scaraventato verso l’alto, l’ultimo volo dell’angelo sivigliano che Bergamìn avrebbe definito “un Lucifero adolescente”.
La plaza è bianca. È una piccola città, Manzanares, e la sua plaza de toros è un monumento di bellezza. Inaugurata nel 1900, sulla facciata che nel sole sembra panna, si aprono tre finestre in forma d’arco coperte da grate di ferro battuto, mentre, tutto intorno, il muro è coperto da tegole. Ogni cosa è perfettamente in stile con le distese immense tipiche della Castiglia la Mancha, le terre di don Chisciotte. Non pensava a Cervantes, Ignacio Sànchez Mejìas l’11 agosto 1934. Era un intellettuale, sì, era stato il mecenate della generazione del ‘27*, quella di Garcìa Lorca e Bergamìn, eppoi era stato già tutto: aviatore, pilota automobilistico, presidente della Croce Rossa e del Betis Sevilla, attore di cinema, romanziere, drammaturgo. Ma quando entrò nella plaza quel giorno non pensava a Cervantes, perché Sànchez Mejìas era soprattutto torero.
La plaza si vede fin dall’orizzonte. Dalla carretera de Burgos, la strada che esce da Madrid in direzione nord, Colmenar Viejo scivola sul fianco sinistro e le estremità più alte della plaza sembrano listate a lutto. Percorrendo la strada che sale verso l’arena, si attraversa una rotonda in cui un giovane torero saluta alzando la muleta nella destra. Non era nato qui, El Yiyo, ma è come se fosse l’eroe di tutti, ormai. Perché quando arrivò quel mattino, aveva soltanto 21 anni e la sua carriera sembrava destinata verso chissà quali trionfi. E perché tutti lo hanno visto nelle immagini televisive di Colmenar. Sono un po’ sgranate a recuperarle oggi su internet, ma si segue ogni cosa e nulla è affidato all’immaginazione.
José Gómez Ortega, 8 maggio 1895-16 maggio 1920
Dicono che Bailador fosse un toro privo di casta. Certo, l’allevamento da cui proveniva era ben poco conosciuto. Oggi, chiunque senta nominare la Viuda de Ortega sa di cosa si parli. Aveva cinque anni, Bailador. Era piccolo e di corna piccole e suo padre, Canastillo, era del temibile encaste Santa Coloma, mentre la madre, Bailadora, era stata comprata dall’allevamento del Duque de Veragua. Tra le tante qualità mitiche attribuite a Joselito c’è una conoscenza totalizzante di ogni toro semental di Spagna e ogni vacca da riproduzione, tanto da riconoscerne i figli che si trovava a sfidare. Impossibile, ovvio. Anche se è certo che Joselito conoscesse molto bene i tori di ogni allevamento. Tuttavia la ganaderia della Viuda de Ortega l’aveva a malapena sentita nominare.
Granadino apparteneva alla ganaderia di don Demetrio e don Ricardo Ayala. Era un toro piccolo, manso e astifino, aveva cioè corna molto appuntite. Procurò qualche difficoltà durante il tercio de banderillas ma Ignacio Sànchez-Mejìas ostentò disinteresse e si andò a sedere sull’estribo per cominciare la faena. Su quella listarella di legno che percorre tutta la barrera e consente a chi voglia saltare nel callejon un punto d’appoggio sicuro, sull’estribo aveva l’abitudine di sedersi, Sànchez-Mejìas, per sfidare il toro e il pubblico. Non erano affatto le “cinco en punto de la tarde” come avrebbe scritto Garcìa Lorca.
Burlero è un nome pericoloso. Nessuno si burla di nulla durante una corrida. Neppure gli uomini nascosti dietro il burladero dovrebbero, perché la burla umana nella corrida è in realtà piena di rispetto. E infatti, uscì nobile e bravo il sesto toro della tarde a Colmenar Viejo. Era nero berrendo, ossia macchie nere su fondo chiaro, apparteneva alla ganaderia di Marcos Nùñez e fu ammirato in tutti e tre i tercios della corrida. El Yiyo era riuscito a tirar fuori il meglio dell’animale e, quando lo uccise, la stoccata fu precisa. Morendo, Burlero, diede ancora due cornate. Con una fece cadere El Yiyo, con l’altra lo sollevò da terra, da dietro, per l’ultima volta.
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Gregorio Corrochano fu critico taurino tra i più importanti del Novecento. A Talavera de la Reina si riconciliava con Joselito dopo un periodo di incomprensioni. Quando cominciò la faena disse al torero di fare attenzione. Secondo lui il toro era burriciego de cerca cioè vedeva male da vicino. Ma Joselito non tenne in conto l’avvertimento. Pare che Blanquet il suo peòn de confianza non ebbe il tempo di dare altri consigli perché il toro aveva stabilito come proprio terreno elettivo lo spazio accanto a un cavallo appena morto e Blanquet non riusciva a portarlo lontano da lì. Joselito entrò nella querencia del toro. Agitò la muleta e il toro si avventò. Ma era troppo vicino. Bailador non vide l’inganno, non vide la muleta, diede una cornata alla coscia del giovane torero e lo sollevò in aria, poi mentre l’angelo ricadeva lo prese con l’altro corno perforandogli il ventre e l’intestino. Sanchez-Mejìas, che toreava quel giorno in un mano a mano con Joselito, suo cognato, entrò in pista distraendo con un quite perfetto Bailador. I subalterni intanto raccolsero il corpo del torero e lo portarono correndo verso l’infermeria della plaza: “Mi ha fatto uscire gli intestini” disse Joselito a Blanquet, poi svenne.
Granadino passò una prima volta sotto la muleta sfiorando il petto di Sànchez Mejìas e la folla urlò mentre il torero rimaneva impassibile. L’animale si voltò e caricò di nuovo e, con il quarto posteriore, investì l’uomo che cadde dall’estribo e restò disteso in terra mentre l’animale si voltava ancora. Antonio Garrigues che era in barrera assieme a José Bergamìn, racconta che Sànchez Mejìas quel giorno era stanco e annoiato e tutto sembrava gli fosse estraneo, tanto che quando fu a terra “Ignacio non fece nulla per evitare la cornata. Nulla”. Granadino incornò Sànchez Mejìas nel muscolo della coscia destra e portò il torero su di sé fino al centro dell’arena mentre Alfredo Corrochano (figlio di Gregorio), che toreava con lui, correva a dare un quite al toro. Sànchez Mejìas tenne le braccia sulle corna mentre il toro lo portava con sé e rimase con gli occhi aperti tutto il tempo. Garcìa Lorca avrebbe scritto: “Non si chiusero i suoi occhi”. Fu raccolto dai subalterni che lo portarono nell’infermeria. Bergamìn e Garrigues accorsero. Il chirurgo era pronto a operare ma Sànchez Mejìas chiese che fosse chiamato il Dott. Segovia, luminare di Madrid, chirurgo taurino per eccellenza, e pregò di essere operato nella capitale. Secondo Garrigues mantenne una serenità stoica. La ferita era della grandezza di un pugno.
Il corno di Burlero lasciò José Cubero detto El Yiyo in piedi. Per un attimo, nelle immagini televisive, sembra come un attaccapanni. Solo che il panno è il cuore di Yiyo. Fece tre passi, il ragazzo, e già era bianco in volto. Burlero cadde fulminato dalla spada. Il torero si afflosciò, venne raccolto da El Pali suo banderillero, a cui disse “Questo toro mi ha ucciso”, poi la testa gli scivolò nel vuoto mentre veniva trasportato all’infermeria.
Ignacio Sánchez Mejías, 6 giugno 1891-13 agosto 1934
Il 16 maggio del 1920 Joselito non avrebbe dovuto toreare a Talavera. Nel programma originario, il compromiso era nella capitale. Ma Madrid gli era contro. Capitava quel che nel mondo dei tori accade ai grandissimi. La perfezione del giovane in tutte le fasi della corrida aveva portato il pubblico a credere che il torero stesse ingannando. Aveva ragione di fuggire Madrid, Joselito. Il 15 maggio, nella capitale era stato fischiato, insultato e qualcuno gli aveva tirato contro un cuscino. L’idea di rinunciare alla seconda tarde dunque si rivelava ottima. Il programma di Talavera lo aveva fatto cambiare suo cognato Sànchez Mejìas. Non si sarebbero esibiti più Larita, Rafael El Gallo (fratello di Joselito) e lo stesso Sànchez Mejìas, ma quest’ultimo e Joselito, in un mano a mano. Nel viaggio in treno, però i segni premonitori furono evidenti e sono diventati celebri. Prima, ci fu un alterco tra un uomo e Fernando, l’altro suo fratello. Sentì le grida, Joselito, accorse, prese le difese del fratello facendo valere la prestanza del fisico e della notorietà, tanto che l’uomo se ne andò gridandogli “Voglia dio che un toro ti uccida stasera a Talavera”. Poco più tardi, poi, arrivando in stazione, la brocca dell’acqua su cui era inciso il vecchio apodo di José (ossia Gallito) si ruppe, e Joselito esclamò tetro: “È ormai finita per il piccolo Gallo”.
L’11 agosto del 1934 Ignacio Sànchez Mejìas non avrebbe dovuto toreare a Manzanares. Si trovò a dover sostituire Domingo Ortega e le casualità che portarono alla sostituzione furono parecchie e strane. Ortega era rimasto lievemente ferito in un incidente automobilistico e, per raggiungere Madrid, prese un treno su cui incontrò Sànchez Mejìas. Tornato alle corride dopo sei stagioni di lontananza, quarantatré anni, Sànchez Mejìas era stanco e pare che non avesse davvero voglia di toreare l’11 a Manzanares, visto che il 10 era impegnato a Huesca e il 12 a Pontevedra. Tre corride di seguito era roba da ragazzetti. In treno rimandò la decisione. Ma quando a Madrid incontrò, di nuovo casualmente, l’apoderado di Ortega, decise di accettare. “Sono tornato a toreare e toreo quel che c’è da toreare. Eppoi si tratta di fare un favore a un amico” disse. Il suo mozo de espada, Antonio Conde, racconta però della noia e del nervosismo che presero il Maestro: fino all’ultimo, il giorno prima a Huesca, Sànchez Mejìas fu tentato dall’idea di evitare Manzanares. Rompere il compromiso per un uomo di parola come lui era difficile. Dunque partì. Preferì licenziare la cuadrilla di Ortega che lo aspettava a Manzanares, pur di toreare con i suoi fidi subalterni, ma durante il viaggio per Madrid, da cui avrebbe raggiunto Manzanares, l’automobile si fermò, dunque il matador raggiunse la stazione di Saragozza lasciando libera la propria cuadrilla e da Saragozza spedì un telegramma ai subalterni di Ortega: che lo aspettassero a Manzanares. Il telegramma arrivò tardi. A Madrid Sànchez Mejìas seppe di dover toreare con una cuadrilla improvvisata. Era stanco e rassegnato. Fra Madrid e Ciudad Real guardò il paesaggio attraverso il finestrino e arrivando a Manzanares chiese soltanto una cosa: che venisse ispezionata l’infermeria. “Mi preoccupano le infermerie di queste piccole plazas” disse. Poi arrivò in albergo e fu sorpreso quando gli venne assegnata la camera numero 13. Ma non ebbe il tempo per pensarci troppo. Anche perché fu costretto lui stesso, per la prima volta nella vita, a presenziare al sorteo. È il peòn de confianza che sbriga in genere la vicenda ma Sànchez Mejìas non ne aveva, quel giorno a Manzanares. Aprì con le sue dita di scrittore il bigliettino accuratamente ripiegato che aveva pescato sotto un cappellaccio da vaccaro: c’erano dentro i due tori da affrontare nella tarde. Uno dei due si chiamava Granadino.
Il 30 agosto del 1985 José Cubero Sànchez detto El Yiyo non avrebbe dovuto toreare a Colmenar Viejo. In cartel, assieme a Antoñete e José Luis Palomar, era previsto il leggendario Curro Romero. Ma un infortunio impedì a Curro Romero di rispettare il compromiso e all’ultimo momento fu chiamato El Yiyo. Aveva ventun anni e la sua temporada era stata magnifica e tutti concordavano sul futuro di questo straordinario torero madrileno nato a Bordeaux e uscito dalla “Marcial Lalanda”, la scuola taurina della capitale. Il futuro era nelle sue mani. Un anno prima, a Pozoblanco si era trovato a uccidere il toro che aveva ferito mortalmente Paquirri, maestro indiscusso delle arene. Sulle sue spalle si addensavano le speranze nebulose di molti aficionados. Non ci pensò due volte El Yiyo, ad accettare il compromiso, mentre la temporada si apprestava a entrare nel suo ultimo mese. Viaggiò verso Colmenàr Viejo pieno della sacra ilusiòn torera.
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La fotografia del volto di Joselito carezzato dalla mano destra di Sànchez Mejìas è celebre. Il torero venticinquenne è morto subito, pochi minuti dopo il suo ingresso nell’infermeria. Adesso sembra avere un’espressione di tranquillità, niente a che vedere con gli occhi stralunati attraverso cui ha gridato ai medici “lasciatemi che soffoco”. Sànchez Mejìas lo guarda poggiando la fronte sulla mano sinistra aperta. Ha un cappotto grigio, la camicia bianca, una cravatta sottile, Sànchez Mejìas. Joselito dev’essere nudo sotto il lenzuolo. Il suo rivale e amico, Juan Belmonte, sta piangendo disperato a Madrid, dove la notizia lo ha raggiunto mentre giocava a poker e non ha voluto crederci, finché non gli è stata ripetuta più volte e da più persone. Rafaèl Gòmez detto El Gallo, invece, fratello maggiore di Joselito, preda dei suoi fantasmi, gironzola nel parco del Prado di Talavera e non trova il coraggio di vedere in faccia il fratello morto. Piange tutte le lacrime che ha in corpo ma non riesce a entrare. Finché non vede uscire il cognato Sànchez Mejìas che stringe qualcosa in mano e glielo offre. È il codino di Joselito, il ciuffo di capelli intrecciato da un coiffeur che ha il suo negozio a Siviglia sull’Alameda de Hercules. È il ciuffo lungo di capelli che Joselito non taglia da quando aveva nove anni. El Gallo prende il ciuffo in mano e esplode in un muggito che tutta Talavera sembra sentirlo mentre Sànchez Mejìas gli dice che l’ha tagliato Antonio Marìn detto Farnesio, uno dei subalterni di Joselito. L’ha tagliato singhiozzando con le mani che gli tremavano sulle forbici quando Joselito sul gelido letto dell’infermeria ha smesso per sempre di essere torero.
“¡Que no quiero verla!” “¡¡Yo no quiero verla!!”
Con questi versi si apre e comincia a chiudersi il Llanto por Ignacio Sànchez Mejìas scritto dal suo amico Federico Garcìa Lorca, da molti ricordato per l’ossessivo ritornello “a las cinco de la tarde”. Quello a cui il poeta si riferisce qui è “la sangre”. È il sangue che il poeta non vuole vedere, “la sangre derramada”, il sangue versato nell’arena di Manzanares. È noto però che Garcìa Lorca non solo non volle vedere il sangue, ma non riuscì più a far visita all’amico a Madrid, quando l’ambulanza arrivò dopo un viaggio lungo e faticoso, oltre il ritardo accumulato già in partenza, con la gamba del torero che già dava brutti segni e il dottor Segovia che operava scuro in volto, avvertendo tutti che la situazione era molto grave. Non riuscì a visitare l’amico che, svegliandosi dopo l’operazione, chiamò la figlia e la rassicurò eppoi fu preso da dolori sempre più forti, mentre da Siviglia arrivava Lola, sua moglie, sorella di Joselito e il dottor Segovia annunciava complicazioni infettive gravi e dietro quella parola tutti sapevano quel che il poeta – ancora assente – avrebbe scritto senza cercare metafore: “A lo lejos ya viene la gangrena / a las cinco de la tarde”. Non ci riuscì. Andava oltre la sua capacità. Non volle vedere l’amico che moriva. Chi non smise di guardare Ignacio fu invece José Bergamìn. Era accanto a lui nell’infermeria di Manzanares, e restò lì aspettando l’ambulanza fino all’alba, poi fu nell’ambulanza e nella stanza di ospedale madrilena. Restò per quaranta ore di cui avrebbe scritto quarant’anni dopo in quattro pagine intitolate Morte pigra e lunga. “La morte silente. La morte si nasconde e la morte si tace. Soprattutto se è “pigra e lunga”, se è un transito mortale di agonia”. La morte colse Ignacio Sànchez Mejìas la mattina del 13 agosto. Nel delirio, Antonio Garrigues l’aveva sentito parlare di “tori, di un paesaggio di campo, di una ganaderia e, chissà perché, di ulivi”.
El Yiyo arrivò morto nell’infermeria. Probabilmente fu proprio nel momento in cui “gli si spezzarono le ginocchia”, come dicevano gli antichi, e cadde in terra dopo i tre ultimi passi che Burlero gli lasciò compiere in una specie di cammino inerziale. Così, negli schermi televisivi tutti lo hanno potuto vedere e la statua che è eretta di fronte a Las Ventas lo ritrae proprio in quella posa, che lo scultore – Luis Sanguino – ha immaginato come un trionfale ingresso nel paradiso dei toreri. C’è El Yiyo con la destra in cielo a salutare e la sinistra che tiene bassa la muleta e c’è Burlero sulla sua schiena, come si è visto centinaia di volte in video. Tutti dunque videro il torero morto e tutti poterono accarezzarlo ché Madrid è a due passi da Colmenar Viejo. E siccome ancora tutti possono vederlo in video nella rete mondiale, anche nel traje de luces con cui fu sepolto, ci sono associazioni animaliste che gli rendono l’ultimo omaggio coerenti al loro umanesimo. In uno dei casi più eclatanti, sotto l’immagine del ventunenne disteso nella bara, hanno disposto in caratteri cubitali un’esclamazione poetica che recita: “Jodete”. Ossia: “Fottiti”.
José Cubero Sánchez, detto «El Yiyo», 16 aprile 1964-30 agosto 1985
Alle cinque della tarde del 17 maggio 1920, su calle Arrieta dove aveva casa Joselito tutto era pronto per il più straordinario corteo funebre che la storia di Spagna abbia conosciuto. Si dice che davvero tutta Madrid, una volta e per sempre, seguì il feretro o lo applaudì dalle finestre aperte listate a lutto. Alla stazione di Atocha, il feretro fu trasportato su un treno che partì per Siviglia. C’è addirittura un film d’epoca, curato dall’Università di Siviglia, a raccontare quei giorni di lutto. S’intitola Tragica Muerte de Joselito El Gallo. È accompagnato dai più classici fra i pasodobles e ritrae la folla imponente che tenta di ricomporsi invano attorno alle infinite corone di fiori e allo strazio, l’emozione, il dolore che seguirono Joselito fino al cimitero di San Fernando, dove Mariano Benlliure avrebbe scolpito la tomba mausoleo. C’è un corpo di marmo bianco trasportato sulle spalle di uomini e donne scolpiti nella pietra nera. È come la salma candida di un bambino nell’oscurità del mondo adulto.
Alle cinque in punto della tarde del 14 agosto 1934, un corteo si dirige dall’ospedale alla stazione di Atocha. Migliaia le persone scese in strada. Il treno parte alle dieci. Salgono assieme alla bara, tra gli altri, Gregorio Corrochano e suo figlio Alfredo, inconsolabile. A Siviglia, nella stazione di plaza de Armas, la folla è immensa. Gli amici del Betis Sevilla, i medici e gli esperti di aeronautica che con Sànchez Mejìas hanno condiviso la passione per aerei e dirigibili, i mille toreri, i maletillas e gli intellettuali. Il feretro passa lentamente attraverso le vie della città trasportato da quattro cavalli neri, seguito da sei automobili piene di corone di fiori. Una, enorme, recita soltanto “¡A Ignacio!” e secondo molti è stata commissionata dalla Argentinita, la donna che non può presenziare alla fine del suo amante, la ballerina innovatrice, la flamenchista più importante di Spagna che era stata l’amore impossibile di Joselito. Nel cimitero di San Fernando, a stento la bara raggiunge il mausoleo di Joselito dove c’è posto per il torero intellettuale. Quattordici anni dopo la tarde di Talavera, Sànchez Mejìas ha raggiunto l’amico.
Alle cinque in punto della tarde del 31 agosto 1985, la porta de cuadrillas di Las Ventas fu aperta. Circa venticinquemila persone riempivano ogni spazio. El Yiyo fu portato sulle spalle dai suoi fratelli, dai membri della cuadrilla, dai toreri amici, dai sostenitori più vicini. Fece un giro della plaza, la bara, l’ultimo giro d’onore. Le lacrime e gli applausi la accompagnarono assieme al grido “torero, torero”. Sotto al palco presidenziale, l’estremo brindisi fu un minuto di silenzio, poi una preghiera e infine l’uscita dalla Puerta Grande. Uno dei quotidiani spagnoli da sempre più attenti alla fiesta nacional, ABC, aprì l’indomani, domenica primo settembre, con la fotografia della finale despedida: l’addio nel cimitero della Almudena. Tra migliaia di appassionati, toreri, e curiosi, la bara fu scoperchiata l’ultima volta. Sembra un dipinto, la fotografia, sembra che un pittore che ha unito in sé la luce di Caravaggio e l’oscurità di Goya dipinga in bianco e nero la madre che sviene, la disperazione delle donne, la serietà di un vecchio che controlla ogni cosa, il distacco della polizia sullo sfondo e l’urlo di un uomo in camicia bianca che pare rivolto al viso del giovane torero, perfettamente vestito nel suo ultimo traje de luces.
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Alle cinque della tarde raramente comincia una corrida, quasi mai muore un torero. Alle cinque della tarde comincia la vera despedida, quella che porta gli uomini al cammino finale.
Orson Welles sosteneva che patria di ogni uomo è il luogo dove al termine della propria vita questi sceglie di restare per sempre. Da grande aficionado, Welles decise di far spargere le proprie ceneri nel pozzo della finca “Recreo de San Cayetano”, la fattoria di proprietà del torero più amato: Antonio Ordoñez. La patria di Orson Welles, dal 7 maggio 1987, quasi due anni dopo la sua morte, si trova a pochi passi da Ronda in direzione Campillos, più o meno al centro del pentagono formato da Siviglia, Cordoba, Granada, Malaga e Cadice, nel cuore dell’Andalusia torera. Sul pozzo c’è scritto: “Ronda. Al Maestro de Maestros”.
¡Qué gran torero en la plaza! Che gran torero nell’arena!
¡Qué buen serrano en la sierra! Che buon montanaro in montagna!
¡Qué blando con las espigas! Che tenero con le spighe!
¡Qué duro con las espuelas! Che duro con gli speroni!
¡Qué tierno con el rocìo! Che dolce con la rugiada!
¡Qué deslumbrante en la feria! Che sfolgorante alla feria!
¡Qué tremendo con las ultimas Che tremendo con le ultime
Banderillas de tiniebla! Banderillas di tenebra!
Pero ya duerme sin fin. Ma adesso dorme per sempre.
Ya los musgos y la hierba Adesso le erbe e i muschi
abren con dedos seguro s'aprono con dita esperte
la flor de su calavera. la corolla del suo teschio.
Y su sangre ya viene cantando: E il suo sangue adesso sta cantando:
cantando por marismas y praderas, cantando per maremme e praterie
resbalando por cuernos ateridos, scivolando su corna raggelate
vacilando sin alma por la niebla, vacillando nella nebbia senz’anima
tropezando con miles de pezuñas, inciampando su zoccoli a migliaia
como una larga, oscura, triste lengua, come una lunga, oscura, triste lingua,
para formar un charco de agonìa per formare una pozza di agonia
junto al Guadalquivir de las estrellas. vicino al Guadalquivir delle stelle*.