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Alla deriva
04 feb 2015
04 feb 2015
Le ragioni economiche della distanza tra le squadre italiane e le grandi d'Europa. Cosa si può fare?
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A fine gennaio la società di consulenza Deloitte ha pubblicato il suo report annuale sulle principali squadre del calcio europeo. Il documento costruisce una classifica dei primi venti club sulla base dei loro fatturati, ne mette in evidenza la composizione per categoria (ricavi da stadio, commerciali, televisivi) e commenta brevemente i risultati di ciascuna. Il report fornisce uno spaccato dei rapporti di forza nel mondo del calcio e, da qualche anno a questa parte, sta certificando il declino della Serie A: nell’edizione 2015 ci sono quattro squadre italiane presenti, ma la Juventus, con i suoi 279 milioni di euro, è soltanto al decimo posto; seguono il Milan (12.esimo posto, 249 mln), il Napoli (16.esimo posto, 165 mln) e l’Inter (17.esimo posto, 164 mln). Ciò che colpisce non è soltanto la distanza crescente dalle prime (Real Madrid e Manchester Utd superano i 500 milioni di fatturato, ma ci sono altre quattro squadre ben sopra i 400 milioni), quanto un confronto con la stessa fotografia fatta 10 anni fa. Nel 2005 le squadre italiane in classifica erano cinque, ma la loro posizione era molto diversa: il Milan occupava la terza posizione, con 222 milioni di euro, seguito da Juventus (5°, 215 mln), Inter (8°, 166 mln), Roma (12°, 109 mln) e Lazio (15°, 99 mln). Non solo, quindi, avevamo due squadre nelle prime dieci e tutte entro il 15° posto, ma soprattutto la distanza del Milan dalle prime era molto contenuta: il Manchester Utd aveva un fatturato di 259 milioni di euro e Real Madrid di 236 milioni. Che cosa è successo in questo decennio? Perché le squadre italiane sono rimaste indietro, ancorate al loro giro d’affari tradizionale, mentre le altre sono state capaci di far registrare incrementi annuali costanti, fino a raddoppiare i propri ricavi?

Ivan Aivazovsky, "Tempesta di costa rocciosa", 1875, olio su tela.

Il rovescio della medaglia dei diritti televisivi Uno dei temi centrali risiede nell’incapacità della nostra Serie A di andare oltre il “tesoretto” dei diritti televisivi. La Serie A rimane, nonostante tutto, la seconda competizione più redditizia: se la Premier League ha un contratto monstre (circa 2 miliardi di euro annui) noi dal 2015/16 supereremo il miliardo, lasciando a distanza Spagna, Germania e Francia. La differenza sta nell’utilizzo che è stato fatto di questi soldi: gli altri campionati li hanno considerati una base su cui costruire una strategia di medio periodo tesa a diversificare e incrementare i ricavi, noi ci siamo adagiati. Negli ultimi cinque anni, nonostante un giro d’affari medio superiore ai 2 miliardi di euro, la Serie A è riuscita ad accumulare perdite per oltre 1,1 miliardi. E il dato, se non si tenesse conto della voce “plusvalenze”, sarebbe drammatico: 3 miliardi di euro di perdite, il 30% dei ricavi. La crisi economica ha certamente modificato la politica dei Presidenti “mecenati” italiani, tra l’altro proprio mentre in altri Paesi europei arrivavano nuovi soggetti capaci di spendere molto e occupare spazi di mercato disponibili, acquisendo un posizionamento oggi difficile da scalzare (per fare i nomi più eclatanti: Manchester City, Chelsea e Paris Saint-Germain). Ma la differenza è anche e soprattutto da ricercarsi in un’assenza di pianificazione di medio periodo. Con il passare del tempo gli altri si sono parzialmente affrancati dai diritti televisivi, riducendone l’impatto sui risultati economici e rendendosene maggiormente indipendenti. Noi no: in Serie A la lotta per la qualificazione alla Champions League, con i suoi 30/50 milioni di ricavi addizionali, sembra quasi avere più motivazioni economiche che sportive. Qualificarsi o meno al girone è uno spartiacque fra un risultato di bilancio accettabile e una pesante perdita, lo stiamo vedendo con Milan ed Inter, ad esempio, ma anche il Napoli di quest’anno ne è stato condizionato. Altrove è diverso. Proviamo a guardare i dati del Manchester United: nel 2005 aveva un fatturato di 259 milioni di euro, composto per il 36% dallo stadio, per il 36% dai diritti televisivi e per la restante quota, 28%, dall’area commerciale. Nel 2015 siamo a 518 milioni di euro di fatturato: la componente stadio è salita a 108 mln, con un impatto però ridotto al 25% delle entrate totali; i diritti televisivi sono 136 mln e pesano per il 31% dei ricavi totali; infine i ricavi commerciali hanno raggiunto la cifra di 226 milioni di euro, aumentando la propria importanza fino a rappresentare il 44% delle entrate del club. I 44 milioni ricevuti dalla UEFA per la partecipazione alla CL sono stati ancora necessari a raggiungere l’utile di esercizio; ma nei prossimi due anni, grazie alle sponsorizzazioni con Chevrolet (circa 60 mln di euro all’anno) e con Adidas (93 mln all’anno), di fatto potrebbero non essere indispensabili. Certo, il Manchester non vince sul campo da parecchio e i suoi tifosi non saranno poi così entusiasti. Però il percorso che ha portato la famiglia Glazer a rilevare la squadra e a trasformarla nel tempo in un brand mondiale potrebbe avere presto effetto anche sui risultati: sono fra i pochi che, nel pieno rispetto delle regole del Fair Play Finanziario, potranno permettersi nei prossimi anni campagne acquisti praticamente “senza limiti”. Parliamo di un caso limite. Ma se osserviamo i numeri prodotti da Real Madrid, Barcellona e Bayern Monaco vedremo che l’impatto della componente UEFA è importante, ma non fondamentale come lo è per i club italiani. Da noi, se la Juventus non va in Champions, chiude il bilancio con una perdita di 30/40 mln. E non è quella messa peggio. L'importanza del brand Le modalità attraverso le quali le altre squadre hanno ottenuto il doppio obiettivo della crescita e della diversificazione sono molteplici. Alla base per tutti, però, c’è la costruzione di un “brand” da commercializzare. La squadra di calcio diventa cioè una “base mediatica” per costruire, affermare e vendere un marchio. E con i ricavi ottenuti si può continuare la crescita, mettere in piedi squadre competitive, attrarre i giocatori migliori. E fare soldi. In Inghilterra un processo di questo tipo è in atto da tempo; sono stati tra i primi, ad esempio, ad andare in tournée in Asia. E chi prima arriva vince, come dimostra la capacità di penetrazione della Premier League nell’area, con i numerosi accordi di sponsorizzazione regionale siglati dalle squadre, il merchandising e i ricavi televisivi quando si tratta di vendere il “prodotto Premier League”. In Italia possiamo fare l'esempio dell'AS Roma. Uno dei primi atti della proprietà americana è stata quella di cambiare il logo, per cercare una maggiore identificazione con la Città Eterna. E poi, in contemporanea, sono partiti gli accordi con la Disney, le tournée negli Stati Uniti (dove l’attenzione commerciale per il calcio sta crescendo), il cambio di sponsor a favore della Nike. È il classico caso di strategia glocal: partire dal contesto locale (peraltro con un nome che è fra i più conosciuti al mondo) ma proiettarne i contenuti (il brand) a livello internazionale, per moltiplicare i ritorni economici. Piaccia o no quello del PSG è un esempio importante. Pur in un contesto completamente differente, guidato da un proprietario mecenate vecchio stile, capace di versare nelle casse 200 mln l’anno attraverso un accordo di sponsorizzazione senza ripianare le perdite, anche il club francese si è mosso in maniera simile alla Roma, con un logo che mette in primo piano la scritta ‘Paris’ e mette ai margini il riferimento ‘Saint Germain’.

Non è l’oggetto del nostro studio ma va notato come, in entrambi i casi, le ragioni del business si sono scontrate con quelle dei tifosi. Sia i supporters della Roma che quelli del PSG hanno lanciato petizioni online per reintrodurre il vecchio logo.

Un risultato cercato anche attraverso operazioni che abbinano contenuto mediatico forte alla parte sportiva. Un esempio noto è quello di David Beckham. Senza nulla togliere al valore del calciatore, è verosimile pensare che il suo acquisto fosse dettato più da un ritorno indiretto di immagine, che non da una programmazione sportiva. I piani ormai sono quasi del tutto sovrapposti ed è difficile capire esattamente dove si ferma il ragionamento economico e comincia quello sportivo, ormai anche squadre meno ambiziose sembrano influenzate da calcoli del genere. Ad esempio viene da chiedersi se lo stesso discorso vale per la recente operazione Eto’o fatta dalla Sampdoria. Il valore del calciatore non si discute, ma è probabile che la dirigenza blucerchiata abbia anche (o soprattutto?) puntato sui vantaggi in termini di visibilità, che nel breve possono tradursi in sponsorizzazioni e incremento del traffico sui social network. Elemento, ricordiamolo, di cui si tiene conto per assegnare una quota dei diritti televisivi. Il modello tedesco Non è detto però che si debba però che si debba prendere per forza di cose questa strada. In Germania è stato fatto un percorso diverso: nel 2000 hanno deciso che andava pianificato un percorso decennale (sic!) per rifondare il calcio tedesco, basato sul rigore di bilancio ma con un pilastro fondamentale rappresentato dallo sviluppo dei settori giovanili. Le squadre (inizialmente solo quelle della massima divisione, ma poi si è scesi rapidamente anche nelle serie inferiori) dovevano investire parte dei propri ricavi nella creazione di settori giovanili; la Federazione, dal canto suo, ha messo a disposizione risorse per facilitare la creazione di infrastrutture per le scuole calcio non appartenenti alle società professionistiche. La Germania ha un ulteriore vantaggio in termini di fidelizzazione delle proprie tifoserie: grazie alla legge “50+1” vieta con alcune eccezioni che una sola persona possa essere proprietaria della maggioranza di un Club. In questo modo il tifoso è anche socio e viene coinvolto negli aspetti non direttamente sportivi della propria squadra. Non stupisce che ogni anno compri la maglia e, in termini economici, la passione si traduce in ricavi commerciali e da merchandising. Secondo l’ultima edizione del Bundesliga report le entrate commerciali incidono per il 45% tra le squadre della massima serie.

Rembrandt, "Cristo nella tempesta sul mare di Galilea", 1633, olio su tela, Gardner Museum, Boston.

Il brand italiano Un modello difficilmente replicabile in Italia per via di una situazione giuridica (la partecipazione ai tifosi) e comportamentale (l’abitudine ad acquistare prodotti della propria squadra) molto diversa. Al momento la Serie A ottiene solo il 15% dei propri ricavi dall'area commerciale, un dato che si può certamente migliorare: le squadre si stanno muovendo in questa direzione sia iniziando finalmente ad utilizzare in maniera mirata i social network, sia cercando di promuovere i prodotti a proprio marchio. Non è semplice, però. Cambiare le abitudini di una o più generazioni di tifosi richiede tempo e, specialmente quando questo non va di pari passo con i successi sportivi, significa intraprendere un cammino in salita. Se a questo uniamo la diffusione superiore alla media di prodotti contraffatti e la scarsa attenzione posta dalla società di calcio e dalle autorità preposte a combattere questo fenomeno, il quadro è completo. Nel 2013 un’indagine di Passionemaglie.it ha verificato il funzionamento dei negozi online delle squadre di Serie A. Il sito ha inviato una mail di richiesta di informazione a cui solo alcuni club (Atalanta, Chievo, Fiorentina, Genoa, Parma, Roma, Sampdoria, Sassuolo e Torino) hanno risposto entro 48 ore; altre società - come Inter, Juventus, Lazio, Milan e Napoli - non hanno addirittura mai risposto. In queste condizioni, si fa veramente fatica, anche costruito l’ipotetico brand, a venderlo. Senza contare che i prezzi medi delle nostre maglie di gara sono nella fascia alta del mercato in Europa. Gli stadi: non è tutto oro quello che luccica Un’altra area nella quale esiste un divario importante rispetto alle altre realtà europee è quella degli stadi. Anche in questo caso il fenomeno risente di una componente culturale: all’estero (Inghilterra su tutti, ma anche in Germania), andare allo stadio non vuol dire solo assistere alla partita. La tradizione di vedersi ore prima dell’incontro, magari nel bar dello stadio, porta ad un modo diverso di partecipare all’evento, sul piano culturale quanto finanziario. Un’idea di calcio economicamente molto più redditizia per le squadre: se, in media, il tifoso italiano spende allo stadio poco più di 3 euro a partita (ovviamente biglietti esclusi), in molte nazioni europee questa cifra raggiunge facilmente i 10/12 euro. Proviamo a moltiplicare questa differenza per 40.000 posti a sedere e per ciascuna delle 19 partite del solo campionato giocate in casa: stiamo parlando di una cifra superiore ai 5 milioni solo per quota relativa alla ristorazione (la cosiddetta beer and pie). Il merchandising (attraverso i negozi interni), le visite al museo della squadra e tutto il corollario di possibili iniziative, fanno si che l’impianto, biglietteria a parte, possa divenire una fonte di reddito importante. Qui arriviamo al nodo della questione: tutto ciò, di fatto, avviene a spese del tifoso, perché avere uno stadio nuovo comporta in media un aumento di biglietti ed abbonamenti del 40%. Se a questo aggiungiamo le spese di cui parlavamo prima si inizia a delineare un profilo di tifoso che deve avere una capacità di spesa forse non troppo coerente con l’attuale situazione economica nazionale. Eppure all’estero ha funzionato e funziona!, si dirà. Vero, ma va detto anche che il sistema inizia a dare qualche segnale di insofferenza. L’anno scorso in Premier League ci sono state molteplici iniziative delle tifoserie organizzate per contestare il continuo rincaro dei biglietti, colpevole di allontanare le fasce più “popolari” dagli stadi. Al punto che il Bayern Monaco (in Germania i prezzi dei biglietti sono nettamente sotto la media europea) ha deciso di intervenire per pagare una quota del costo richiesto ai propri tifosi in occasione della partita con l’Arsenal. Di certo non può diventare una scusa per tutte quelle squadre di Serie A (ad eccezione, forse, delle più piccole) che potrebbero e dovrebbero prendere in considerazione quanto meno la ristrutturazione degli impianti dove giocano. Rispetto alla costruzione di uno stadio nuovo (come, ad esempio, nel progetto della Roma) la rivisitazione dell’esistente potrebbe consentire di contenere i costi (mediamente di un 40-50%) e, quindi, di poter ampliare l’offerta di servizi anche alle utenze ricche (Sky box, VIP seats, ecc.), senza doversi fare carico di debiti bancari eccessivi, con il vantaggio di poter contenere l’aumento dei prezzi da scaricare sui tifosi. Utopia? Da un certo punto di vista, considerata l’apparente incapacità dei nostri presidenti di concepire progetti che non vedano lo stadio solo come elemento trainante di operazioni immobiliari molto più estese, verrebbe da dire di sì. Vero è che buona parte dei nostri impianti hanno comunque necessità di interventi di manutenzione straordinaria e, quindi, nell’arco dei prossimi 5-10 anni qualcosa andrà comunque fatto. Non tutto è perduto Nonostante tutte queste osservazioni non propriamente positive, non è ancora il momento di cantare il de profundis della Serie A. Uno degli elementi paradossalmente positivi di un periodo di crisi economica, è che la stessa costringe a intraprendere percorsi virtuosi per sopravvivere. Purtroppo abbiamo aspettato di arrivare sull’orlo del precipizio per prendere i provvedimenti e tirare all’improvviso il freno a mano non è mai il migliore modo per frenare. Tutte le squadre sono intervenute per effettuare dei tagli, talvolta drastici. Il primo impatto è stato la migrazione dei campioni che eravamo abituati a veder calcare i campi della Serie A: qualcuno è rimasto, ma a livello internazionale la capacità di attrazione (leggi: gli stipendi concessi, la competitività sportiva che ne deriva) non ci vede fra gli attori primari. La decisione di abolire le comproprietà, strumento che era nato con un fine anche nobile (consentire alle squadre medie e piccole di agire come palestra per i calciatori avendone un ritorno economico) ma che si è spesso trasformato in elemento per costruire una politica di bilancio, sta portando una vera e propria rivoluzione nella modalità di fare calciomercato, mediante prestiti di calciatori della durata anche di 18 mesi. Per chi volesse divertirsi, sul sito della Lega di Serie A sono pubblicate tutte le operazioni della sessione invernale 2015: andate a vedere quante operazioni sono state formalizzate a titolo definitivo e quante, invece, a titolo temporaneo. Questa tendenza era già emersa in maniera prepotente l’estate scorsa, al termine della quale la Serie A aveva imbastito operazioni che comportavano un saldo negativo fra incassi e vendite di 40 milioni ma un beneficio netto per i bilanci (stipendi ed ammortamenti) di ben 130 milioni: con la sola eccezione di Roma, Milan e Fiorentina (che avevano appesantito i loro costi fissi di circa 10/12 milioni all’anno), quasi tutte le altre squadre hanno infatti impostato le loro politiche di mercato all’alleggerimento di queste voci. Anche chi non è un manager, però, capisce che la struttura dei costi fissi richiede tempo per essere rivisitata. La capacità di mantenere la squadra a livelli competitivi in questo contesto sarà l’elemento che potrà farci dare un giudizio sulla bontà del management dei nostri club. L'ultima parola, cioè, spetta al campo.

William Turner, "Tempesta di neve", 1842, olio su tela, Tate Gallery, Londra. Non è facile procedere ad interventi di tagli e, contemporaneamente, puntare su politiche di incremento dei ricavi commerciali. I tifosi, anche quelli appassionati, sono evidentemente condizionati dai risultati sportivi. Così come tutto il circo delle sponsorizzazioni e del merchandising. Sarà certamente dura e probabilmente il tempo per riprendersi non sarà breve, soprattutto perché abbiamo lasciato un vantaggio competitivo agli altri campionati difficile da colmare. Ma, operando bene, potremmo pur sempre porci come obiettivo di lungo periodo quello raggiunto dalla Premier League. Allargando l’analisi della classifica Deloitte fino alla trentesima posizione il numero di squadre inglesi presenti sale a quattordici. Gli inglesi sono riusciti, cioè, a creare un modello che consente loro di avere punte di eccellenza (cinque delle prime 10 classificate) in un contesto strutturalmente forte. Se c’è un motivo per essere scettici è che, osservando le nostre squadre, sembra mancare la consapevolezza che una società di Serie A, per piccola che sia, è comunque un’azienda che fattura almeno 30/40 milioni di euro e come tale dovrebbe attrezzarsi con risorse per gestire le componenti non sportive della vita quotidiana. La dipendenza ancora molto forte dal presidente/padrone, molte volte imprenditore di prima generazione e quindi abituato a gestire direttamente anche gli aspetti meno significativi, comporta che in alcune realtà non si sia andati a cercare dei professionisti abituati alla vita e alle dinamiche di aziende “vere”, quanto degli uomini di fiducia. I numeri per riprendersi ci sono. Il calcio è comunque lo sport più seguito in Italia, e la base di tifosi esiste. Se riusciremo a fare tesoro dell’esperienza passata, se il modello di gestione delle squadre si avvicinerà a quello di un’azienda normale che deve stare sul mercato senza dover ricorrere costantemente all’azionista per il ripianamento delle perdite; se torneremo a puntare sui settori giovanili (e, magari, anche sui nostri ragazzi, a costo di fare meno intrallazzi con trasferimenti internazionali a volte dubbi), le possibilità di rivedere la Serie A di nuovo in crescita nell’ambito del calcio internazionale aumenteranno. E noi tifosi? Beh, intanto potremmo riprendere ad andare allo stadio, anziché starcene comodamente seduti in poltrona davanti alla televisione. Dove certamente si sta più comodi ma si perde quel senso di partecipazione ed appartenenza che è comunque la base di tutto.

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