L’All-Star Weekend nel 2020 è diventato un appuntamento strano. È inutile negare come negli ultimi anni l’interesse per la gara delle stelle sia andato scemando, cristallizzato dentro un format che fatica a incontrare i gusti del pubblico. Quello generalista non si riconosce in uno spettacolo che ormai viene stereotipizzato come fine a se stesso, dove la competizione scarseggia e abbondano invece i sorrisi e i selfie; quello più competente si annoia dentro un gioco casuale, troppo sfilacciato e con troppo poco basket dentro per essere divertente. O almeno così sembrava prima di questa notte.
L’All-Star Game – come i New York Knicks – non è più un brand che tira, si diceva: ha subìto la flessione che caratterizza ogni manifestazione dedicata all’autocelebrazione, dagli Oscar a Kanye West. Il fine settimana che simbolicamente separa le due metà della stagione regolare è diventato, per stessa esplicita ammissione di diversi giocatori, un breve intermezzo per ricaricare le batterie prima di lanciarsi nella corsa che porta ai playoff. Chi non viene selezionato nelle squadre o invitato nelle varie competizioni laterali, dopo essersene lamentato sui social o a mezzo stampa, solitamente prenota una Smartbox relax in qualche paradiso caraibico. O c’è chi, come Nicolò Melli, che ha dovuto rimandare il giro alle Bahamas dopo essere stato chiamato a giocare il Rising Stars ai -20 gradi centigradi di Chicago.
O chi, come noi, scopre che esiste un mondo oltre il basket. Io ad esempio per aspettare che iniziasse la sfida tra gli USA e il resto del mondo mi sono visto tutta la nuova serie tratta da Alta Fedeltà, quindi vi avverto subito che il pezzo sarà pieno di liste. Ma cominciamo.