
Alessio Sakara, 43 anni, è un pioniere e veterano delle arti marziali miste, il primo italiano a combattere in UFC, la promotion di MMA più importante al mondo, con un record complessivo di 25 vittorie e 13 sconfitte.
In molti conoscono già la sua storia, ma vale la pena ri-raccontarla in breve. Sakara è nato in un quartiere popolare di Pomezia, in provincia di Roma, ha cominciato dal calcio poi è passato alla boxe, in cui ha avuto un percorso da professionista con una decina di incontri, ha praticato Sanda (il pugilato cinese) e intorno ai vent’anni, mentre lavorava come buttafuori, ha scoperto le MMA guardando una videocassetta prestata da un collega. Ne è rimasto talmente folgorato che ha deciso di vendere la propria moto e andare a vivere e allenarsi in Brasile.
In Brasile ha fatto i suoi primi incontri, tra cui un paio combattuti a mani nude nella giungla, poi è entrato, chiamato nei circuiti europei, e nel 2005 ha debuttato in UFC, allenandosi all’American Top Team (ATT), palestra americana d’eccellenza di cui fa ancora parte. Dopo otto anni in UFC (sei vittorie, otto sconfitte e un no contest) in cui è diventato il volto delle MMA italiane nel mondo, ha combattuto in Bellator, al tempo seconda organizzazione mondiale per importanza, guadagnandosi la sfida titolata dei pesi medi, a 36 anni, in un evento organizzato a Firenze.
Dal 2019 è passato alla boxe e alle MMA a mani nude, ma è tornato a combattere solo lo scorso novembre, dopo quasi cinque anni di inattività, vincendo per stop medico al primo round.

Sakara nell’ottagono di Bellator MMA (foto Warrior of Creativity).
In questi anni Sakara è stato capace di diventare un personaggio pop: volto di documentari e programmi televisivi - tra cui Pechino Express - e co-conduttore della trasmissione Tù sì que vales, su Canale 5. È comparso in tre film e ha pubblicato due libri, è persino finito in una puntata della serie animata South Park.
In aggiunta a questo, è consulente degli Incursori della Marina Militare per il combattimento corpo a corpo, ed è impegnato nel sociale in un progetto contro il bullismo, di cui parla nelle scuole italiane. Insomma, un uomo impegnato.
Io l’ho chiamato pochi giorni dopo l’annuncio del suo prossimo impegno, di cui parleremo tra poco. Intanto cominciamo dalla sua routine attuale: «Mi sto allenando tra le due e le tre volte al giorno, la domenica riposo», racconta. «Faccio sparring due volte a settimana, una sessione tecnica e un’altra più dura. In Florida siamo in piena estate, c’è un caldo umido, pesante. Vivo a Boca Raton da cinque anni, è una città da centomila abitanti a quarantacinque minuti d’auto da Miami, ma qui si sta meglio perché c’è meno traffico e caos, ci sono tanti quartieri residenziali. In una ventina di minuti di macchina arrivo in palestra, a Coconut Creek. Ho deciso di trasferirmi in America perché ci sono più opportunità, soprattutto per le diverse attività imprenditoriali che ho avviato, tra cui il primo Padel Club della zona. E, ovviamente, per potermi allenare in pianta stabile all’American Top Team. Ci è voluto tempo per prendere la green card ed essere in regola, perché qui sono seri e rigorosi. I miei figli vivono a Roma, ma viaggiano tanto e poi io torno spesso in Italia per impegni con la televisione e il cinema, e per seguire le mie altre attività, tra cui una società di servizi di sicurezza».
Facciamo un passo indietro, per dare un contesto alla nuova sfida che aspetta Sakara. Perché quel lungo periodo di pausa già accennato, tra il 2019 e il 2024, al di là dello scoppio della pandemia? «Sono successe tante cose. Ho scoperto di avere la cartilagine della spalla sinistra consumata, usurata - sicuramente per gli anni di allenamenti di lotta libera - e così in quel periodo avevo delle fitte di dolore lancinanti, non riuscivo neanche a girare il volante mentre guidavo. Volevano mettermi una protesi, ma dopo diversi consulti ho scelto una cura alternativa con acido ialuronico e infiltrazioni di PRP, cioè plasma ricco di piastrine, per favorire la guarigione. Il dolore si è ridotto, ho recuperato mobilità e ho potuto riprendere ad allenarmi, ma a fine carriera la protesi sarà obbligatoria».
«Nel frattempo, ho dovuto aspettare i tempi burocratici che ti accennavo per poter lavorare in America in modo regolare, e ci è voluto un anno. Quando finalmente ero pronto e fresco di firma con la Bare-Knuckle Fighting Championship (BKFC), il mio esordio nella boxe a mani nude è saltato perché l’avversario si è infortunato, e per altre dinamiche poco chiare, per motivi che non ho ancora capito. Così ho accettato la proposta di Masvidal [ex fighter UFC e oggi promoter di un’organizzazione di MMA a mani nude, ndr]. Sono stati anni duri, sembrava che qualcuno ce l’avesse con me».
Qualche azione saliente di Sakara in Bellator MMA.
Siamo arrivati, così, all’atteso debutto in BKFC, l’organizzazione americana di boxe a nocche scoperte che ha reso questa tipologia di pugilato lo sport da combattimento in maggiore ascesa al mondo. La promotion vanta come testimonial e azionista la superstar Conor McGregor, che in occasione del primo evento italiano firmato BKFC, in scena lo scorso aprile a Firenze, ha dichiarato che gli piacerebbe cimentarsi nella disciplina, magari per un titolo mondiale.
«Sono tornato nell’organizzazione grazie al promoter italiano Gabriel Rapisarda, mi ha voluto a tutti i costi e ha fatto sì che il progetto si avverasse, gliene sono grato», mi spiega, dicendo che ora è anche ambassador dell’organizzazione, con un’attenzione ai giovani talenti italiani.
Rapisarda, in un’intervista a Forbes di qualche mese fa, ha rivelato di aver firmato un accordo quinquennale con BKFC per almeno dieci eventi in Italia (il primo, appunto, è stato quello di Firenze). Il prossimo appuntamento è previsto per sabato 25 ottobre a Roma, chiedo a Sakara se ci combatterà: «L’obiettivo è quello, ma ora sono concentrato sul match di fine mese».
Appunto, senza pensare troppo oltre Sakara tornerà a combattere tra poco più di una settimana: venerdì 25 luglio se la vedrà con l’esperto Erick Lozano, nella BKFC Fight Night di Philadelphia, «perché è una città in cui vivono tanti italoamericani», specifica. Per lui la boxe a mani nude è un ritorno alle origini, al vale tudo, l’antenato, con poche regole e tanta ferocia, delle MMA: «Parliamo della forma di combattimento per definizione, quella più dura e pura, più vera, valorosa, simile a quelle dell’antica Roma. In questo caso si può davvero parlare di guerrieri, oltre che di atleti», afferma.
Gli chiedo quali sono le specificità nella preparazione di un incontro di bare-knuckle: «La differenza sta nel dover condizionare le ossa della mano per indurirle ed evitare che si rompano durante il match, quindi sto facendo i colpitori e il sacco a mani nude, per temprare anche i polsi».
Gli domando se dopo tanti anni di carriera non ha problemi articolari alle mani, o fragilità simili: «No, perché ho sempre lavorato sulle nocche, nel tempo si è formato uno strato di callo osseo e quindi ho le mani più pesanti quando colpisco».
E durante l’incontro, quali sono le accortezze per evitare fratture, impattando con parti del corpo dell’avversario più corazzate (testa, gomiti, eccetera)? «Serve precisione, combinazioni brevi, secche, colpi sferrati con la giusta angolazione», replica.
Come detto, Sakara affronterà Lozano, 42 anni, americano di origini messicane, 38 match disputati nelle MMA. Lozano registra sei match nella boxe a mani nude, con due vittorie e quattro sconfitte, ed è noto per essere uno di quei fighter che non dice mai no a un incontro: in BKFC ha affrontato avversari durissimi (tra cui Lorenzo Hunt, ex pluricampione della promotion).
«È un osso duro, sono contento che mi abbiano dato subito un atleta così pericoloso. A livello tecnico e di potenza sono più forte, ma dovrò stare attento perché senza guanti basta davvero poco per andare giù», analizza Sakara.
Allargando la prospettiva, il fighter italiano è arrivato al traguardo dei 25 anni di carriera: è interessante capire a che punto del percorso si sente, e per quanto tempo ancora pensa di poter restare competitivo. «Lo sarò finché mi allenerò con la stessa voglia ed entusiasmo di sempre, finché sentirò viva la passione per il combattimento, finché darò filo da torcere a fighter ben più giovani di me in palestra» risponde. «Il giorno in cui, pensando all’allenamento successivo, mi dirò che non mi va proprio, ecco che sarà arrivato il momento di ritirarsi».
Quanto incide il fattore economico sulla scelta? «Sotto quell’aspetto sono tranquillo. Chiaro, le borse che prendo per combattere sono alte perché ho un nome importante, ma essendomi aperto altre porte, ho diverse fonti di guadagno», come già spiegavamo.
Gli faccio notare però che la logica del “smetto quando non mi va più” potrebbe essere pericolosa, perché ci sono fighter a cui il fuoco non si spegne mai, e finiscono a lanciare il cuore oltre l’ostacolo, mettendosi in pericolo: «In generale mi dò ancora due anni al massimo», quando ne avrà 45, «poi dovrò fermarmi per forza, per una questione di fisico, di salute».
Mi dice di avere già tanti acciacchi e dolori tra cartilagini, articolazioni, fastidi che derivano da decenni di taglio del peso. Nonostante ciò, chiude l’argomento con: «Poi oh, se arrivo a 45 anni che sto bene, mi alleno tanto, faccio degli sparring di qualità, magari mi toglierò ancora qualche soddisfazione…».
Lo incalzo sulle ben note conseguenze degli sport da combattimento sulla salute di chi li pratica: «Se sono preoccupato? No, è un rischio che metti in conto se vuoi fare il professionista. Il motociclista sa che in pista si può morire, il tennista viaggia undici mesi all’anno e fa una vita alienante. Qualsiasi sport ad alto livello comporta rinunce e spesso ti segna, l’importante è la consapevolezza».
La lista di colleghi di Sakara che stanno affrontando sintomi quali demenza precoce, depressione, manie di persecuzione, scatti di rabbia improvvisa, eccetera è tristemente lunga, come abbiamo già raccontato. In più, tantissimi fighter versano in condizioni economiche precarie e non riescono a curarsi, sia perché non sono stati in grado di gestire il loro patrimonio, sia perché il sistema delle MMA li ha pagati pochissimo rispetto ai ricavi, senza nessuna copertura assicurativa a lungo termine.
Colpa degli atleti o del sistema stesso? «La responsabilità sta nel fatto che nessuno insegna alle persone in generale a gestire le proprie finanze, è un problema culturale. Dovrebbero esserci dei corsi in tutte le scuole, ovunque. Se ti trovi in difficoltà perché li hai sperperati, devi puntare il dito contro te stesso, altrimenti gli alibi diventano infiniti».
Qua però gli faccio un esempio direttamente dalla sua carriera: Sakara è stato rilasciato da UFC nel 2013 anche perché la promotion lo voleva nei pesi medi, al limite degli 84 chili, a cui arrivava sempre con tantissima fatica e rischi, chiedendo a gran voce di poter fare i pesi massimi leggeri (93 chili); UFC gli ha negato questa opzione e il rapporto si è guastato.
Sakara ha avuto la forza e la possibilità, essendo molto appetibile sul mercato, di opporsi e di poter rinunciare a UFC, ma quanti altri fighter avrebbero potuto farlo? «Sì, però è un confronto tra adulti, in cui ognuno fa delle scelte assumendosi delle responsabilità - oltre al fatto che sono dinamiche tipiche di qualsiasi ambiente lavorativo. Se avessi continuato negli 84 chili lo avrei fatto consapevole dei rischi. Invece mi sono detto: “Sai che c’è? Ci sono altri eventi, mi rimbocco le maniche e si riparte”. Ma se avessi fallito e fossi tornato a fare il buttafuori come quando ero ragazzo, non avrei dato la colpa a UFC, capisci?».
Tornando per un attimo al tema della sua salute, gli chiedo cosa ne pensa la sua famiglia: «Chi mi vuole bene vorrebbe che smettessi, ma sanno cosa penso e sento, e lo rispettano». Sakara ha due figli adolescenti: «Li ho cresciuti insegnandogli che la vita vera non è quella virtuale, è il presente, infatti hanno avuto il telefono e i social network tardi, e questo forse li ha messi un po’ in difficoltà rispetto ai loro coetanei, all’inizio. Ma è stato un sacrificio necessario perché ora sanno come gestirli, e tra l’altro li usano pochissimo».
«Sono concentrati sullo sport, hanno cominciato con il judo per passare al rugby e ora giocano a calcio, oltre ad uscire con gli amici e a godersi il tempo libero. Di persona, non dietro a uno schermo». Un adolescente, oggi, che futuro ha davanti? «Sono ragazzi sempre meno abituati al sudore, all’impegno per ottenere un risultato, una conquista. Tante, troppe cose sono diventate accessibili senza sforzi e vengono date per scontate. I nuovi idoli, soprattutto sui social, sono personaggi senza spessore, che non hanno un talento né niente da dire, nessun messaggio importante da lanciare. Fanno successo perché non c’è più meritocrazia. E non sono i soldi a fare l’uomo».

Sakara bacia il tricolore durante un walkout (foto Warrior of Creativity)
Alessio, risposte secche. Qual è il match della tua carriera a cui sei più affezionato? «Mmm… Quello con Chris Weidman, nel 2011, considerando che dopo è diventato un campione. Ho dato il meglio di me, ho combattuto con un piede rotto dal primo round, dimostrando la mia tempra da legionario. E la sfida con Assuerio Silva di qualche anno prima, che mi ha portato in UFC».
«Abbiamo combattuto in un evento nella giungla amazzonica, lui pesava venti chili più di me ed era temuto, non trovava avversari. Mi sono rotto una costola al primo round, al secondo ho lottato a terra per cercare di recuperare, al terzo mi veniva da vomitare ma sono andato avanti, non so come dirti… Con lo spirito. Ho finito il match acclamato dai brasiliani, dal pubblico di casa. Poi sono finito in ospedale e mi hanno messo l’ossigeno».
Curioso come abbia menzionato due sconfitte - particolare che dice molto della sua mentalità - che però gli hanno permesso di esaltarsi e dimostrare il suo valore. E la vittoria più bella? «Contro Jamie Sloane, battuto per KO tecnico al primo round davanti al pubblico di Roma, nel 2018. Venivo da una sconfitta brutta, pesante, avevo tanta pressione addosso. Vedere i miei tifosi esultare in modo così liberatorio è stato speciale».
La sconfitta peggiore, invece? «Quella prima del match con Sloane, quando ho combattuto per il titolo dei pesi medi di Bellator contro il campione in carica, Rafael Carvalho, a Firenze. Il match è finito subito, ho perso per KO, e ancora oggi faccio fatica a digerirlo perché tempo dopo ci siamo allenati insieme, e ho avuto conferma che era un incontro più che fattibile».
Il taglio del peso drastico può avere avuto un ruolo? «Può essere, soprattutto per la tenuta del mio mento, ma non mi interessa. Carvalho mi ha preso bene e mi ha spento, mi dispiace che non ci sia stato modo di confrontarci. In ogni caso è stata un’esperienza che mi è servita a crescere, l’ho elaborata ascoltando le persone che avevo vicino, mi hanno fatto ragionare e cambiare prospettiva. Le parole giuste risolvono tante situazioni».
Il fighter più duro che hai mai affrontato? «Roman Zentsov, in Russia, nel 2002. Era lo sparring partner di Fedor Emelianenko. Per colpa sua ho avuto la labirintite, un’infiammazione dell’orecchio che provoca vertigini, nausea e perdita dell’equilibrio. Ce l’ho ancora, perché ti resta latente, e si scatena ad esempio se fai capriole, vai sulle giostre, cose così».
Il momento più difficile della tua carriera? «Quando ho avuto due infortuni ravvicinati, nel periodo in cui stavo uscendo da UFC. Prima mi sono rotto il ginocchio e poi, durante il match di rientro, il bicipite».

Foto Warrior of Creativity.
E della tua vita, invece? «Eh… Direi gli inizi, quando vivevo in Brasile. Ero da solo, dall’altra parte del mondo, a chiamare a casa con l’addebito a mia madre dai telefonici pubblici, con il centralinista che smistava il traffico. Ero contento perché stavo coltivando la mia passione, ma ci ho messo quattro anni a smuovere le acque, guadagnando poco e niente. La volta in cui mi hanno pagato tanto, 8 mila dollari per il match contro Assuerio Silva, sono stato rapinato il giorno dopo - per il primo match in UFC invece la paga era di 1.500 dollari raddoppiabili in caso di vittoria».
«Quel periodo mi ha messo alla prova, ma ero ossessionato dal sogno dell’UFC, volevo arrivarci ad ogni costo, in un momento in cui era difficilissimo entrarci - gli eventi erano molto meno frequenti, ce n’era uno ogni tre o quattro mesi. Prima della chiamata in UFC, avevo ricevuto una proposta dal Pride, organizzazione giapponese di MMA che ai tempi era leggendaria: avrei dovuto combattere in un torneo in cui però rischiavo di incontrare il mio allenatore, il fighter Minotoro, quindi ho rifiutato».
«Poi è arrivata UFC ed ero incredulo, felice. Figurati che nei primi match c’era un ragazzo che veniva a vedermi e che raccontava l’incontro in diretta a una radio locale romana, faceva la radiocronaca - così i miei amici e colleghi che facevano i buttafuori e smontavano la mattina presto, potevano seguirmi. Erano proprio altri tempi».
«Ricordo la mentalità dei brasiliani, che fanno una vita difficilissima ma sono sempre sorridenti. Quando mi allenavo lì c’erano atleti e ragazzi delle favelas che perdevano amici e parenti perché si ammalavano. Spesso erano malattie banali e curabili, un po' di febbre e cose del genere, ma le ambulanze non si addentrano nelle favelas e quindi i malati morivano a letto. Sono persone che si godono la vita con quel poco che hanno, ho imparato molto standoci insieme».
Dato che Sakara ha dedicato la sua vita alle MMA, gli chiedo secondo lui quale sia lo stato di salute attuale delle arti marziali miste italiane, che al momento vantano due connazionali in UFC (Marvin Vettori, ora compagno di team di Sakara dopo un passato turbolento tra i due, e Manolo Zecchini): «Mi sembra assurdo che ancora oggi i due nomi più noti a livello internazionale quando si parla di MMA italiane siano il mio e quello di Vettori, che siamo in giro da un bel po’. Non c’è stato un ricambio generazionale. Perché? Siamo un popolo poco disposto al sacrificio, con troppi atleti che si accontentano di essere i campioni della palestra. In Italia la qualità della vita è alta, le famiglie sono presenti, ti fanno sentire coccolato, accudito, è difficile separarsene per trasferirsi e allenarsi all’estero - farlo in Italia può andare bene finché sei un esordiente, puoi imparare delle buone basi, ma per fare un salto di qualità devi viaggiare e confrontarti con i migliori, punto».

Foto Warrior of Creativity.
«L’obiettivo non dev’essere arrivare al top, ma durare, restarci il più possibile, altrimenti nessuno se ne ricorderà. Un paio d’anni fa ho provato a lanciare una promotion, annunciando un torneo con in palio un camp di tre mesi all’American Top Team. Si sono iscritti in tre o quattro, perché poi in America ci devi andare, non sai come va, non sai se ti confermano e ci resti oppure no, ti manca casa, eccetera. Tanti atleti preferiscono vincere una cintura di cartone piuttosto che un’opportunità concreta che se va bene, ti ripaga con gli interessi sul lungo periodo. Siamo indietro come mentalità. A livello culturale, invece, vedo le MMA più inserite di un tempo».
L’ultima domanda è su Marvin Vettori, reduce dalla sconfitta ai punti contro Roman Dolidze, che affronterà l’americano Brendan Allen nell’incontro di sabato 19 luglio, a UFC 318 - vincere è quanto mai urgente. Vettori è stato da poco colpito da un lutto terribile, la perdita del fratello minore Patrick, vittima di un incidente domestico. Nonostante ciò, il fighter italiano ha accettato il match con Allen.
«Questo dimostra quanto Marvin sia un guerriero, un fighter per vocazione, un vero combattente. Ha tutta la mia stima, davvero. È un lavoratore, si allena tantissimo. Adesso fa pure male con le mani, è mobile, ha un bel footwork, mette pressione e sta tornando a usare il wrestling. Cosa non ha funzionato con Dolidze? È stato un match equilibrato, forse non l’ha pressato abbastanza… Ma per il resto il verdetto era veramente sul filo del rasoio».
Ho incontrato Sakara di persona un paio di volte, quando era impegnato nella promozione degli eventi a cui partecipava in Italia. Ricordo di avergli chiesto in un’occasione perché avesse scelto il soprannome “Legionario”: «Era il fante dell’esercito romano. In Brasile volevano chiamarmi “Gladiatore”», mi aveva risposto. «Ma i gladiatori erano schiavi obbligati a combattere. A me non costringe nessuno, lo faccio perché mi piace. E allora, gli ho detto, chiamatemi “Legionario”».