Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Alessandro Gazzi
Giocare con le gambe che tremano
03 nov 2020
03 nov 2020
Anche i giocatori professionisti possono attraversare fasi di difficoltà mentali.
(di)
Alessandro Gazzi
(foto)
Dark mode
(ON)

Uno dei periodi psicologicamente più complessi della mia esperienza professionale fu l’inizio della stagione 2010/2011, quando due mesi di crisi mi hanno costretto a fare i conti con paure nuove e difficili da gestire. Venivo dall’esaltante stagione del Bari di Ventura e del suo spregiudicato 4-2-4, che aveva attirato l’attenzione di addetti ai lavori e stampa: l’anno di Ranocchia e Bonucci, della coppia d’attacco Barreto Kutuzov, della rinascita post-Juventus di Sergio Almiron.

 

Gli ottimi risultati, il gioco spettacolare e i 50 punti conquistati avevano esaltato una piazza sognatrice ed emotiva. Avevamo quindi iniziato il secondo anno consecutivo nella massima serie ancora in quell’atmosfera da sogno che ci aveva cullato l’anno precedente e che forse aveva ingigantito eccessivamente le nostre prospettive. In realtà la stagione fu un autentico disastro. Iniziammo con una vittoria sulla Juve all’esordio, in un San Nicola esaurito, e dopo le prime cinque partite eravamo ben oltre la metà della classifica, ma era solo un’illusione temporanea, alla fine del torneo retrocedemmo e per me fu una delusione incredibile.

 

 



 

 

Paradossalmente, il periodo più duro che segnò la mia autostima non fu come può sembrare il finale di quella maledetta stagione, ma i primi mesi dell’anno. Iniziò tutto dopo 10 minuti dell’esordio contro la Juve: Felipe Melo mi stende con una ginocchiata sulla coscia sinistra e sono costretto ad uscire. Da quel momento in poi, complice anche una breve ma violenta influenza, la forte concorrenza (Donati e Almiron li ho sempre considerati di un livello superiore al mio) e alcuni errori di valutazione delle mie prestazioni, iniziò un’inesorabile discesa verso un’oscurità che avevo intravisto in passato ma che ora si faceva più intensa.

 



 

D’un tratto divenni incapace di gestire la mia emotività, traballante, sospesa tra critiche interne ed esterne. Non fu facile e soprattutto non riuscivo a darmi una spiegazione. Questa incapacità di valutare gli eventi con obiettività iniziò ad aumentare sempre di più, finché mi sono ritrovato in preda a paure che aggredivano il mio fisico stressato. Sentivo le gambe tremare, come se ad ogni istante dovessero cedere. Ci furono week end nei quali, dentro di me, speravo di non scendere in campo, tanto forte era il disagio che provavo. Giocai diverse partite con un’ansia che paralizzava i miei gesti, rendendo i movimenti meno fluidi. Ero consapevole della mia rallentata reattività mentale ma non riuscivo a placare le spiacevoli sensazioni fisiche che il mio corpo mi dava.

 

Le giocate non mi riuscivano mai, perdevo palloni ridicoli e il centrocampo, da luogo sicuro nel quale mi sentivo a mio agio, era diventato indecifrabile in ogni sua zolla. Queste sensazioni me lo portavo dietro anche in allenamento: ogni giorno convivevo con tremori invisibili, pensieri opprimenti, cercando di non far trapelare la minima insicurezza.

 

 



 

 

Ricordo chiaramente che un giorno, durante una semplice esercitazione tecnica, sbagliai dei passaggi talmente banali che volevo sotterrarmi. Non mi sembrava possibile: era come se qualcuno mi avesse privato temporaneamente delle mie facoltà sportive. Ed erano sensazioni che mi condizionavano anche fuori dal campo, cambiando le mie abitudini più piccole e quotidiane.

 

Da quando mi alzavo dal letto, svogliato e con pensieri negativi sempre rivolti al lavoro, pensieri che si accumulavano e accumulavano e che mi stringevano in una morsa stressante; a quando facevo una passeggiata in centro con la mia famiglia e avevo voglia di tornarmene a casa e non farmi vedere da nessuno. Anche quando stavo con i miei compagni di squadra e avevo paura di parlare, di esprimere i pensieri più banali. In poche parole sono finito a vivere con il desiderio di nascondermi dal mondo perché mi vergognavo di me stesso e delle mie prestazioni, che giudicavo insufficienti.

 


(FILIPPO MONTEFORTE/AFP via Getty Images)


 

Non ne parlai mai con nessun membro dello staff, men che meno con i miei compagni, per via della mia natura introversa credo, ma anche per non mettere in mostra quelli che consideravo problemi inutili, deleteri. Pensavo che me la sarei dovuta cavare da solo. Chiamai una persona fidata che conosceva questo tipo di situazioni. Mi disse: “Stai tranquillo, passerà”. Ho dovuto attraversare un mese di ristagnante staticità mentale, accettare tutto quello che mi stava accadendo, dirmi che in fin dei conti non era la fine del mondo, andare in campo con una “cosa” addosso che non conoscevo. Quando poi le aspettative si allentarono riuscii piano piano a riprendermi.

 

 



 

 

 

(Parti di questo articolo sono rielaborazioni di lavori che l’autore ha pubblicato precedentemente a questo indirizzo, ndr)


 

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura