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Giocare con le gambe che tremano
03 nov 2020
03 nov 2020
Anche i giocatori professionisti possono attraversare fasi di difficoltà mentali.
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Uno dei periodi psicologicamente più complessi della mia esperienza professionale fu l’inizio della stagione 2010/2011, quando due mesi di crisi mi hanno costretto a fare i conti con paure nuove e difficili da gestire. Venivo dall’esaltante stagione del Bari di Ventura e del suo spregiudicato 4-2-4, che aveva attirato l’attenzione di addetti ai lavori e stampa: l’anno di Ranocchia e Bonucci, della coppia d’attacco Barreto Kutuzov, della rinascita post-Juventus di Sergio Almiron.

Gli ottimi risultati, il gioco spettacolare e i 50 punti conquistati avevano esaltato una piazza sognatrice ed emotiva. Avevamo quindi iniziato il secondo anno consecutivo nella massima serie ancora in quell’atmosfera da sogno che ci aveva cullato l’anno precedente e che forse aveva ingigantito eccessivamente le nostre prospettive. In realtà la stagione fu un autentico disastro. Iniziammo con una vittoria sulla Juve all’esordio, in un San Nicola esaurito, e dopo le prime cinque partite eravamo ben oltre la metà della classifica, ma era solo un’illusione temporanea, alla fine del torneo retrocedemmo e per me fu una delusione incredibile.

È una prigione temporanea, un rifugio, un cesso. Fra qualche minuto uscirò da qui, ma preferirei starci dentro ore, giorni. Nella claustrofobica sicurezza del bagno della camera di questo hotel a quattro stelle. Il marmo decorato, un lavandino pulito e tre rotoli di carta igienica. Due saponette e un tubetto di scadente bodylotion. Il mio beauty è ancora lì, vicino alle prese di corrente, al lato dello specchio. La luce della lampadina è fredda e c’è una fragranza, un odore di pulito, che sta per svanire. Fuori, in camera, sento i titoli del telegiornale, sono su per giù le 12.30 e io resto nella mia prigione temporanea, nel mio rifugio, in un cesso. Con le mani in faccia, e gli indici che coprono le palpebre. Perché me ne sto qui a contare i secondi come se fossero i rimasugli di un tempo che sta per schiantarsi contro l’inevitabile partita che devo giocare? Per quale motivo, dopo tante partite giocate in Serie A, percepisco di nuovo quelle sensazioni che sembravano ormai dimenticate? Le domande avranno pure risposte, ci sarà una soluzione qui da qualche parte, sul marmo del lavandino, sulla ceramica del piatto della doccia, nei tubi degli scarichi, da qualche parte. Forse sullo specchio: sì, forse se apro gli occhi e scruto con attenzione una delle due pupille, forse lì dentro in quel nero magnete si cela ciò che cerco.

Paradossalmente, il periodo più duro che segnò la mia autostima non fu come può sembrare il finale di quella maledetta stagione, ma i primi mesi dell’anno. Iniziò tutto dopo 10 minuti dell’esordio contro la Juve: Felipe Melo mi stende con una ginocchiata sulla coscia sinistra e sono costretto ad uscire. Da quel momento in poi, complice anche una breve ma violenta influenza, la forte concorrenza (Donati e Almiron li ho sempre considerati di un livello superiore al mio) e alcuni errori di valutazione delle mie prestazioni, iniziò un’inesorabile discesa verso un’oscurità che avevo intravisto in passato ma che ora si faceva più intensa.

D’un tratto divenni incapace di gestire la mia emotività, traballante, sospesa tra critiche interne ed esterne. Non fu facile e soprattutto non riuscivo a darmi una spiegazione. Questa incapacità di valutare gli eventi con obiettività iniziò ad aumentare sempre di più, finché mi sono ritrovato in preda a paure che aggredivano il mio fisico stressato. Sentivo le gambe tremare, come se ad ogni istante dovessero cedere. Ci furono week end nei quali, dentro di me, speravo di non scendere in campo, tanto forte era il disagio che provavo. Giocai diverse partite con un’ansia che paralizzava i miei gesti, rendendo i movimenti meno fluidi. Ero consapevole della mia rallentata reattività mentale ma non riuscivo a placare le spiacevoli sensazioni fisiche che il mio corpo mi dava.

Le giocate non mi riuscivano mai, perdevo palloni ridicoli e il centrocampo, da luogo sicuro nel quale mi sentivo a mio agio, era diventato indecifrabile in ogni sua zolla. Queste sensazioni me lo portavo dietro anche in allenamento: ogni giorno convivevo con tremori invisibili, pensieri opprimenti, cercando di non far trapelare la minima insicurezza.

Mentre mi guardo allo specchio capisco che non è poi così complicato trovare un po' di senso logico a queste sensazioni: sono fragile, debole, sono quello che sono sempre stato. Non posso competere a un certo livello in queste condizioni psicofisiche. Non sono quello che pensavo di essere. Il sopracciglio è aggrottato, la sua inclinazione è il riflesso di paure altrimenti invisibili. Voglio respingerle, non riesco a respingerle. Non basta relativizzare, pensare che in fondo quello che sto vivendo non è niente rispetto ai i veri drammi e tragedie. Di che cosa mi dovrei preoccupare dopotutto? Eppure, c’è qualcosa di incolore che filtra nel mio corpo, che di ansia non ne può più. Le gambe sembrano sudare, ma non sudano, anche le mani faticano ad essere sciolte, mi sento contratto, insicuro persino nella camminata. Ma a chi dire queste cose, se non a me stesso, in un flusso circolare di pensieri da tenere dentro? Sotto la pelle sento fibrillare polpacci e quadricipiti, sento di non avere forza. Ho l’impressione di sentire una linfa, un veleno, che scorre nelle mie vene al posto del sangue irrorando le fibre e piegandole ad un volere sconosciuto che sembra scioglierle, da dentro. L’ansia è trasparenza interna, trasparenza esterna.

Ricordo chiaramente che un giorno, durante una semplice esercitazione tecnica, sbagliai dei passaggi talmente banali che volevo sotterrarmi. Non mi sembrava possibile: era come se qualcuno mi avesse privato temporaneamente delle mie facoltà sportive. Ed erano sensazioni che mi condizionavano anche fuori dal campo, cambiando le mie abitudini più piccole e quotidiane.

Da quando mi alzavo dal letto, svogliato e con pensieri negativi sempre rivolti al lavoro, pensieri che si accumulavano e accumulavano e che mi stringevano in una morsa stressante; a quando facevo una passeggiata in centro con la mia famiglia e avevo voglia di tornarmene a casa e non farmi vedere da nessuno. Anche quando stavo con i miei compagni di squadra e avevo paura di parlare, di esprimere i pensieri più banali. In poche parole sono finito a vivere con il desiderio di nascondermi dal mondo perché mi vergognavo di me stesso e delle mie prestazioni, che giudicavo insufficienti.

(FILIPPO MONTEFORTE/AFP via Getty Images)

Non ne parlai mai con nessun membro dello staff, men che meno con i miei compagni, per via della mia natura introversa credo, ma anche per non mettere in mostra quelli che consideravo problemi inutili, deleteri. Pensavo che me la sarei dovuta cavare da solo. Chiamai una persona fidata che conosceva questo tipo di situazioni. Mi disse: “Stai tranquillo, passerà”. Ho dovuto attraversare un mese di ristagnante staticità mentale, accettare tutto quello che mi stava accadendo, dirmi che in fin dei conti non era la fine del mondo, andare in campo con una “cosa” addosso che non conoscevo. Quando poi le aspettative si allentarono riuscii piano piano a riprendermi.

Dovrò giocare, oggi, e so bene che il campo non mente. Gli spettatori ignorano quello che succede dentro di te, forse lo immaginano ma non sanno che cosa si prova a giocare quando per un motivo che neanche tu conosci hai una paura fottuta di stoppare la palla e di commettere un errore stupido. Uno stop, cazzo, un semplice stop diventa un gesto pesante. Lì, davanti a tutti, che ti fissano nella tua inadeguatezza. Perché in certi momenti ti senti inadeguato? E perché mi faccio trascinare da questi pensieri qui nel cesso della camera di un hotel a 4 stelle, diventato un’opprimente via di fuga? Il diaframma: parte tutto da lì, centro nevralgico di emozioni che non aiutano a preparare un match di serie A. Sento che non ci sono. Mi dico: non ci siamo Alessandro, non ci siamo! Non ci siamoooo! Mi concentro cercando di ripassare i movimenti e gli schemi da svolgere, ma niente. Fatico ad essere presente e so già che mentre giocherò la tentazione di girarmi verso i tabelloni elettronici a bordo campo prenderà il sopravvento. Dopo pochi minuti mi volterò e inizierò il mio personale e lentissimo conto alla rovescia, aspettando che la partita finisca. Non girarti e non guardare, non girarti e non guardare, mi dirò, resistendo al massimo fino a metà del primo tempo. Adesso sto cercando in tutti modi di estirpare questa “cosa” da dentro di me, ma non ci riesco. Non resta che tenersela e sperare che se ne vada via, che mi lasci in pace mentre gioco. Servirebbe una chiave ma ora di chiavi ne vedo solo una: quella della porta che chiude la serratura del cesso e che mi costringe ad una libertà sofferta. Dovrò entrare in campo. Dai Ale, non avere paura. Andrà via questa “cosa”. Dai Ale fatti coraggio. Cerca di non pensarci. Ci pensi, ma cerca di non pensarci. Dai Ale fatti coraggio. Andrà via questa “cosa”.

(Parti di questo articolo sono rielaborazioni di lavori che l’autore ha pubblicato precedentemente a questo indirizzo, ndr)

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