
Arrivati al tiebreak del secondo set Djokovic aveva vinto due punti più di Alcaraz. Nei punti complessivi, era praticamente in parità. Eppure era sotto di un set, e la partita ci dava la sensazione di aver preso una strada chiara e inequivocabile. Come ci eravamo finiti, in quel mondo alla rovescia, in cui Djokovic perde le partite in cui fa più punti del suo avversario? Partite in cui sembra vicino nel punteggio, eppure senza speranze. Non un avversario qualsiasi, poi, ma il principe della dissipazione, l’irregolarità fatta persona; l’epitome sportiva nel 2025 del genio capriccioso.
Alcaraz sembra non poter arrivare sulla prima esterna di Djokovic. Una traiettoria mortale in slice da destra, una delle coperte di Linus di questa fase tarda della carriera del serbo. Alcaraz però ha un balzo improvviso verso destra, un guizzo muscolare, con cui tende il braccio, coi piedi leggermente staccati da terra, e gioca un dritto che passa appena sopra al paletto e ricade basso per incartare la volée di Djokovic. Il corpo di Alcaraz in quel momento assume una posa plastica in cui le gambe sembrano reclinarsi in diagonale verso il suo busto. Sembra davvero fatto di gomma. Ottiene il mini-break che apre il tiebreak, e si costruisce un vantaggio che non abbandonerà più.
Aveva vinto il primo set in maniera simile, con la stessa dinamica su una distanza più lunga. Aveva concentrato tutta la sua intensità tennistica sul primo game in risposta, aveva ottenuto il break e, con quel confortevole cuscino di vantaggio, non si era più fatto recuperare.
È la nuova strategia di questa nuova versione di Carlos Alcaraz. Costruirsi un vantaggio di punteggio immediato, che lo mette al riparo degli effetti più pericolosi dei suoi cali di concentrazione. Una nuova consapevolezza del punteggio tennistico e di come si può gestire e domare, pur mantenendo intatto il proprio spirito selvaggio.
Lo aveva fatto anche contro Jiri Lehecka, tre set come Il giorno della marmotta: break nel primo game del set in risposta, e poi conservazione del vantaggio fino in fondo. L’avversario che si dibatte, ha la sensazione di essere vicino, che gli manchi davvero poco per rimettere in equilibrio la partita. E poi? «Nei punti importanti se ne usciva con soluzioni impossibili». Lehecka che sembra una cavia da laboratorio.
Dall’inizio della sua carriera Alcaraz sta ricercando un difficile equilibrio tra creatività e solidità. Continuare a giocare il suo tennis estroso, libero, selvaggio, ma contenere i rischi che uno stile simile si porta dietro. È forse inutile specificarlo, ma non lo fa per gusto estetico, ma per pragmatismo. Solo mantenendo intatto quel piacere ludico, il suo tennis può essere più performativo. Solo essendo belli, si può anche essere efficaci. Solo che le partite di tennis sono una maratona, non una gara dei cento metri, e nella vastità di tempo di una partita di tennis, dentro i labirinti del suo punteggio, Alcaraz si è talvolta smarrito. Vittima dell’ottovolante pazzo che lui stesso produce dentro i match. Come diventare solidi, senza rinunciare a sé stessi?
Questa nuova versione di Carlos Alcaraz sembra aver imparato come gestire i flussi della propria dispersione. Incanalare i propri cali di tensione verso rivoli di punteggio più innocui.
Mentre nelle sue corse slam il rivale Jannik Sinner lasciava rimasugli insignificanti di game, Alcaraz arrivava a perdere interi set dentro partite dominate. E questo faceva parte dello spettacolo. Alcaraz ti dà la sensazione di giocare partite equilibrate e sempre in discussione; mentre lo guardi dipingere tennis il punteggio resta ancora aperto, mentre Sinner annichilisce l’avversario
Una dinamica visibile fino a questi US Open, dove lo spagnolo è in corsa per diventare il primo uomo a vincere il torneo senza perdere nemmeno un set. Nel frattempo è il secondo a essere arrivato in finale con solo punteggi netti; il primo era stato Roger Federer. Un dato impressionante, per lui, e che non sembra casuale, ma piuttosto l’ultimo stadio di un processo di consolidamento partito dalla stagione su terra. Poco prima della sua vittoria a Montecarlo, Alcaraz aveva perso a Indian Wells, il suo torneo preferito, da Draper, e a Miami da Goffin. Prima ancora, da Lehecka in Qatar. Si diceva che forse doveva cambiare allenatore, che si trascinava gli stessi difetti di quando era arrivato nel circuito. Sembrava davvero così. Io avevo scritto questo articolo che ovviamente oggi suona lunare - ma si scrive sempre sul presente, non si prevede il futuro. In quel momento, comunque, il quadro non era rassicurante: sul cemento Alcaraz aveva vinto solo il torneo di Rotterdam dopo il successo con Sinner a Pechino. Un anno fa agli US Open aveva perso da Botic van de Zandschulp una delle partite meno comprensibili di sempre. Alle Finals aveva perso sia da Ruud (?) che da Zverev. Agli Australian Open si era fatto ingannare dalle diavolerie di Djokovic.
Ora lo scenario è cambiato. Agli US Open Alcaraz centra la sua ottava finale consecutiva, e forse dovremmo smettere di pensarlo come un tennista discontinuo. Ce lo ha ricordato lui stesso: «In molti dicono che non sono solido come dovrei, ma sto avendo ottimi risultati e lo sto facendo in grandi tornei».
Alcaraz ieri giocava contro l’unico avversario, tolto Sinner, che riesce a mandarlo in confusione. Ai Giochi Olimpici e in Australia, pochi mesi fa, Djokovic era riuscito a sabotare sadicamente la macchina-Alcaraz, sgonfiando il suo tennis tutto sorrisi e vincenti. Non lo aveva mai battuto su cemento in uno Slam. Allora la sua vittoria netta e in tre set appare significativa. Certo, la prestazione un po’ grigia di Djokovic va pesata. Il serbo aveva un bisogno di vitale dei colpi di inizio scambio - servizio e risposta - e nessuno dei due ha funzionato.
I cali di Alcaraz non sono scomparsi, la dispersione ad agire nelle sue partite. La sua gioiosa macchina da vincenti continua a mandare sbuffi di potenza in eccesso, dritti squadernati, palle corte ottuse, scelte irrazionali. Per questo anche il punteggio di ieri sera, almeno fino alla fine del secondo set, è rimasto piuttosto ravvicinato. Anzi, all’inizio del secondo Alcaraz ha persino subito un break. Eppure i suoi game di servizio sono stati tutti incredibilmente solidi. Alcaraz arrivava presto sul 40-0 o sul 40-15, e solo a quel punto si concedeva di essere irragionevole. Non abbiamo mai pensato che il suo controllo fosse minacciato. Quando il punteggio si riavvicinava, Alcaraz affilava la sua concentrazione sul servizio.
Per darci un po’ di partita, ieri Djokovic ha dovuto sfruttare l’unica palla break avuta. Lehecka ne aveva avute zero ai quarti, Rinderknech due (annullate), Darderi tre e Opelka tre. In totale Alcaraz ha quindi concesso 9 palle break in tutto il torneo; per fare un confronto eccellente, Sinner ne ha concesse dieci solo a Felix Auger-Aliassime in semifinale. L’unica partita che a un certo punto si è pasticciata è stata quella con Darderi, ma il passaggio a vuoto è stato colmato all’istante.
È il primo torneo giocato con questa cura e attenzione nel punteggio, e sembra essere caduta una parte dell’esperienza Alcaraz. Quel brivido di incertezza che abbiamo spesso nelle partite di Alcaraz, che lui stesso può mettere tutto in discussione come un Dio auto-distruttivo. Qualcosa che rende le sue partite interessanti, perché non scorrono implacabili verso il loro esito scontato come quelle di Sinner. Come ha detto il giornalista inglese David Law, i punteggi possono essere letti come test di personalità. Alcaraz il dispersore gentile, disposto a sacrificare un po’ di solidità a favore di spettacolo; Sinner il dominatore insensibile.
In questo torneo le partite di Sinner sono invece state più incerte di quelle di Alcaraz.
Se dobbiamo trovare una ragione tecnica a questa nuova solidità, bisogna guardare ai miglioramenti fatti da Alcaraz al servizio. Si erano visti al Roland Garros, erano diventati lampanti nella stagione su erba, in tornei bombardati di ace, e sono diventati decisivi sul cemento americano. Una superficie su cui in genere è più vulnerabile.
Anche nel servizio l’efficienza è per lui inestricabile dal piacere. In un’intervista rilasciata al Queen’s - dove solo in finale ha piantato 18 ace - Alcaraz ha detto di aver imparato a trovare piacere anche nel servizio. «Comincio a sentirmi come un serve-bot» ha scherzato. La soddisfazione nel comandare il gioco dal primo colpo dello scambio è certo meno spettacolare di una palla corta fintata, ma gli offre continuità nel punteggio. È l’armatura che gli permette di proteggersi dalle oscillazioni performative intrinseche nel suo gioco. Djokovic è sembrato scadente in risposta, soprattutto rispetto ai suoi standard, ma lo è stato anche a causa di una difficoltà inedita nel leggere il servizio di Alcaraz. Soprattutto la seconda di servizio in kick, il suo marchio da quando è arrivato nel circuito, è apparsa più pesante del solito. Djokovic si avviava in risposta nervoso, guardava il suo angolo per cercare consiglio sulla posizione da tenere. La palla saltava maledettamente in alto. Djokovic faceva due passi in avanti, e gli rimaneva impigliata tra le corde; ne faceva due indietro e faticava a coordinarsi sopra la spalla.
In conferenza ha ammesso che è il torneo in cui ha servito meglio durante l’anno.
Parlare di aspetti tecnici con Alcaraz, non basta, però, vista la perfezione quasi artificiale delle sue esecuzioni. Lui dice di aver migliorato molti dettagli fuori dal campo: l’alimentazione, il riposo, la gestione del tempo libero - «È la cosa che abbiamo migliorato di più». Però c’è da credere in qualcosa di più simbolico, un allineamento di motivazioni mai avute, che nasce dalla rincorsa al numero uno del ranking. Ha confessato lui stesso, quanto tiene a questo traguardo: «È difficile non pensarci, ma se ci penso troppo mi metto troppa pressione e non voglio». La finale di domenica è la terza consecutiva tra Sinner e Alcaraz a livello Slam, ma è diversa dalle altre. Come dicono gli americani, “Winners takes all”: chi vince lunedì è numero uno del mondo. Sinner gioca per difendere la posizione, Alcaraz per riconquistarla.
Sono due condizioni psicologiche differenti, ma sembrano entrambi a proprio agio nei rispettivi ruoli. Sinner non batte Alcaraz su cemento da due anni (Pechino 2023) e sui campi duri outdoor ha perso gli ultimi due confronti (escludendo il ritiro a Cincinnati, e la vittoria indoor di Sinner al Six Kings Slam). Sinner ha giocato un torneo notevole, complicato dai due avversari canadesi che hanno offerto grandi prestazioni. Sinner però non sta servendo bene: in semifinale ha tirato appena il 53% di prime, con picchi terribili del 45% nel secondo set e del 40% nel terzo. Alcaraz servì male nella finale di Wimbledon, mentre Sinner lo fece molto bene. Fu decisivo. Il rendimento del servizio è condizionato da chi sta in risposta: è un’ovvietà, ma difficile da misurare.
Arrivati alla finale di Wimbledon, Alcaraz aveva speso in campo cinque ore più di Sinner. Nella preview della partita su Sky, Becker aveva detto di guardare a quel dato. Difficile da dire, ma effettivamente Alcaraz era sembrato più appannato del suo avversario. Oggi arrivano con un minutaggio accumulato più o meno simile: 11 ore e 56 per Alcaraz e 13 ore e 33 per Sinner.
Aver trascorso così poco tempo in campo in uno Slam, per Alcaraz, è significativo e sintomo della concentrazione con cui ha giocato per tutto il torneo. La finale sarà una partita a parte, ma nel frattempo Alcaraz ci si presenta in una versione più robotica, un po' più simile a Sinner.