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Alberto Malesani, al di là del meme
09 ott 2025
Le sue squadre erano innovative e divertenti, e forse gli dovremmo portare più rispetto.
(articolo)
12 min
(copertina)
IMAGO / Claus Bergmann
(copertina) IMAGO / Claus Bergmann
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Alberto Malesani ha annunciato il suo ritiro in un’intervista rilasciata nel 2020. Un addio sotto traccia: del resto non allenava più dal 2014 e, a parte una brevissima parentesi l’anno successivo come opinionista a 90° minuto, non ha provato a rimanere “nel giro” frequentando i salotti televisivi. Quasi come un personaggio bucolico, si era ritirato nella Valpolicella per gestire assieme alla sua famiglia la “Giuva”, un’azienda vinicola da lui fondata nel 2003, che ha poi venduto nel 2023 alla catena Signorvino.

Me lo immagino finalmente in pace con se stesso. Finalmente Internet gli ha dato tregua, dopo averlo spolpato e ridotto a una caricatura per via dei suoi sfoghi in varie conferenze stampa e per alcune immagini circolate negli anni successive all’esonero a Sassuolo del 2014 (la sua ultima esperienza in panchina), che ne hanno minato in maniera irreversibile la sua credibilità. «I social mi hanno rovinato», si arrabbiò nel 2018 «Sono stato giudicato per le immagini e non per il lavoro che ho fatto sul campo come avrebbe dovuto essere, le mie esternazioni, le mie espressioni, il mio modo di essere persona e di evidenziare la passione per il calcio sono stati ripresi dai social e di conseguenza sono stato deriso e sbeffeggiato. Non ci sono altri motivi, perché è come se il calcio si fosse dimenticato di me, cosa ho fatto di male? (...) Ora mi danno dell'ubriacone! Qualche tempo fa circolava una mia foto con un bicchiere in mano dove sembravo un ubriacone, invece stavo male! Avevo preso diversi chili a causa di un problema alla tiroide, ogni giorno assumevo cortisone (...) dei ragazzi mi chiesero di fare una foto assieme per strada: “Ok, ma non pubblicate niente sui social, mi raccomando”, risposi. E invece quei ragazzi pubblicarono la foto e da lì è iniziato tutto. Sono stati creati anche diversi profili fake a mio nome, ma io non ho mai avuto nessun account! Non è vero che sono un ubriacone! Passo mesi senza bere».

C’è un’intervista, risalente al 2008, che suona sinistramente profetica. Malesani è stato chiamato a campionato in corso per provare a salvare l’Empoli, ma a 54 anni parla di sé già al passato, sottolineando la scarsa cura che ha sempre rivolto alla comunicazione. «A un certo punto, diciamo alla fine degli anni Novanta, mi mancava l'ultimo passo: arrivare ad allenare una grande tipo Inter, Milan o Juve. Non ci sono riuscito. Perché? Colpa mia: vivevo troppo da solo, sbagliavo la gestione dei rapporti con la stampa, pensavo che per fare l'allenatore bastasse lavorare sul campo. Invece no. Ho pagato sulla mia pelle, mi sono bruciato la carriera. Allora ero un orso. E se si vuole arrivare a certi livelli, non essendo stati grandi giocatori e senza avere sponsor, non si può essere orsi. E pensare che nel 1999 sono stato votato come terzo miglior tecnico d’Europa, dopo Ferguson e Lobanovski».

LE ORIGINI
Malesani rappresenta un profilo dal percorso atipico, che non ha un vissuto significativo nel calcio giocato bensì nel mondo aziendale. «La Canon mi ha arricchito dal punto di vista gestionale e queste conoscenze le ho portate dentro al calcio», ha raccontato in questa intervista concessa al canale YouTube della Serie A «È stata una delle mie fortune. Al Chievo allenavo mentre lavoravo alla Canon. Alla mattina lavoravo, poi andavo a Veronello e la sera tornavo in azienda». Entra prima nel settore giovanile, poi passa ad essere vice allenatore della prima squadra e dal 1993 diventa primo allenatore. Assieme al presidente Luca Campedelli e al direttore sportivo Giovanni Sartori, è uno degli artefici del miracolo Chievo, fino ai primi anni ’90 una piccola realtà di Verona: in questo bel documentario viene celebrato il ruolo decisivo di Malesani nello strutturare il club ma anche avvicinare il pubblico alla squadra, in una città in cui fino a quel momento esisteva solo l’Hellas.

Al primo anno in panchina conquista la promozione in B e nel campionato successivo arriva a giocarsi il primo derby della storia cittadina con l’Hellas, alternando il canonico 442 dell’epoca a un 343 di ispirazione olandese, che ha scoperto grazie ai viaggi di lavoro per la Canon. «In Olanda per la prima volta ho visto il gioco a zona e mi ha incuriosito (...) anche se parliamo di un torneo amatoriale tra le varie filiali. La Canon Olanda era l’unica a giocare così. C’era un modo di ragionare diverso».

Uno stile di gioco che Malesani negli anni aveva assorbito e reinterpretato: Cruijff prima e Van Gaal poi proponevano un 343 con il centrocampo “a diamante” (o a rombo come lo chiamiamo in Italia) in cui erano gli attaccanti esterni a dare ampiezza. Il tecnico veronese invece nelle sue prime tre esperienze in A, con Fiorentina, Parma e Verona, ha sempre utilizzato un centrocampo in linea, dove erano i quinti a coprire le fasce.

Ma nella seconda metà degli anni ’90 non era l’unico a cercare delle alternative al 442 di matrice sacchiana che stava egemonizzando il panorama italiano: prima di lui Scala al Parma o Zaccheroni all’Udinese costituivano degli esempi virtuosi di difesa a tre (rispettivamente 352 e 343). Malesani però può essere considerato una sorta di precursore – almeno in Serie A - nell’utilizzo dei braccetti di difesa come “incursori”. Non parliamo di quelle situazioni che Gasperini una decina di anni più tardi codificherà in maniera sistematica, ma di dinamiche che, pur in un calcio meno organico e collettivo, iniziavano comunque a intravedersi.

Ad esempio il tecnico veronese poteva inserire nei tre difensori un terzino come Tarozzi, che per caratteristiche era portato ad accompagnare l’azione e associarsi con il laterale di parte.

In questa partita con l’Inter Tarozzi compie una sovrapposizione interna a Kanchelskis, l’esterno destro.

Ma anche quando metteva come braccetto di destra un centrale più puro come Falcone, capitava di vedere il numero 2 sganciarsi in avanti e alzarsi sopra la linea della palla, magari dopo un recupero palla con l’avversario sbilanciato. Con Thuram al Parma queste situazioni diventano ancora più frequenti: inizialmente il francese faceva il centrale, forse per la velocità con cui copre la profondità, poi Malesani decide di arretrare Sensini sulla linea dei difensori e spostare Thuram a destra (del resto con la Francia giocava da terzino).

Quando partiva palla al piede, il difensore della Guadalupa aveva un’esuberanza fuori scala in Serie A e, pur non essendo troppo preciso in conduzione, sapeva offrire delle tracce (interne ed esterne) con cui aprire degli spazi per i compagni.

Qui il francese addirittura si scambia di posizione con Veron e arriva sulla trequarti.

In fase difensiva le squadre di Malesani – come la maggior parte dell’epoca – si basavano sulla “zona mista”, ossia una marcatura a uomo nella zona di competenza. Non c’era particolare attenzione nei confronti della struttura posizionale di partenza, l’obiettivo principale era contrastare il portatore di palla, o comunque coprire il pallone. Per quanto la Fiorentina e il Parma si distinguessero per l’intensità a palla persa, non si può parlare di una pressione organizzata, quanto di una serie di iniziative individuali piuttosto istintive. D’altronde in quel periodo vigeva un approccio molto più diretto e non era raro vedere giocatori uscire sull’avversario diretto e affondare il tackle alla ricerca di un recupero palla immediato.

Solo quando si difendeva vicino alla porta, l’undici si ricompattava, con i quinti che si abbassavano sulla linea dei difensori.

La difesa posizionale della Fiorentina 1997/98, del Parma 1998/99 e dell’Hellas 2001/02.

IL GIOCO OFFENSIVO
Ma più che per l’aggressività in fase difensiva, Malesani ha portato una ventata di aria fresca per la sfrontatezza della sua fase offensiva: in un calcio italiano storicamente attento agli equilibri, l’ex Chievo spiccava per un approccio molto più spregiudicato. Al suo primo anno in Serie A ha optato per un 343 con 4 offensivi in campo contemporaneamente, i tre attaccanti più Rui Costa a centrocampo (che negli anni successivi giocherà come trequartista). Le due punte esterne, Oliveira e Morfeo (o in alternativa Edmundo e Robbiati), partivano larghe dalla parte del piede forte, ma sugli sviluppi dell’azione stringevano la posizione fino a scambiarsela.

Lo stesso Batistuta si abbassava molto, alla ricerca di palloni giocabili, anche se la stella polare della "Viola" era proprio Rui Costa: il portoghese era il più cercato dai compagni, nonché l’unico in grado di dare la pausa all’azione. Aveva un rapporto magnetico col pallone e si muoveva lungo tutto il campo per offrire una linea di passaggio pulita ai compagni, per quanto il suo gioco venisse condizionato da quella tensione verticale tipica dell’epoca. A possesso consolidato poi si alzava sulla trequarti per occupare gli spazi interni assieme a Morfeo.

Da un Fiorentina-Parma 1-1 di fine 1997.

Quella Fiorentina (come il Parma che Malesani allenerà in seguito) era sì figlia del suo tempo, e spesso forzava la palla in profondità anche quando non c’erano i presupposti per un attacco diretto. O ancora caricava a testa bassa, alzando diversi uomini sopra la linea della palla senza particolari accorgimenti preventivi e affidandosi alle scalate in avanti dei centrali difensivi per recuperare palla.

Detto questo, va detto però che produceva, come detto, diversi pattern riconoscibili e soprattutto momenti davvero entusiasmanti, grazie alle associazioni tra i giocatori più tecnici, che si avvicinavano per combinare a varie altezze di campo.

Nel 3-0 alla Juve, Robbiati, Morfeo e Rui Costa si connettono per confezionare questo contropiede.

Dopo Rui Costa, a Parma l’allenatore veneto avrà a disposizione un altro fantasista eccelso come Veron. «I due centrali di centrocampo, Boghossian e Dino Baggio, erano più rigidi. A Veron invece», dice il “Male” «avevo dato un compito più creativo. Lui era più libero di muoversi, perché rispecchiava il suo carattere. Un allenatore deve stare sempre attento al carattere dei giocatori». Effettivamente il tecnico ha sempre cercato di assecondare le attitudini e le caratteristiche delle sue rose, modellando la struttura di gioco sui suoi punti di forza. Magari oggi questo approccio può sembrare scontato, ma a fine anni ’90, in cui la maggior parte degli allenatori si era convertita ai principi di gioco di Sacchi, non lo era affatto. Molti di loro, pur di non rinunciare al 442, spostavano ad esempio il trequartista sulla fascia o lo alzavano sulla stessa linea del centravanti.

Invece l’ex mister del Chievo è stato tra i primi in quel periodo a pensare di inserire un raccordo tra centrocampo e attacco, che agisse nella zona di conflitto tra la difesa e la mediana avversaria.

Al Parma è passato così dal 343 al 3412, con Veron a sostegno di due punte, Chiesa e Crespo, che partivano larghe per creare un’ampiezza che avrebbero attaccato i laterali, due tra Fuser, Benarrivo e Vanoli. Al Verona invece ha scelto un 3421, dove i due trequartisti Mutu e Camoranesi rimanevano più stretti, giocando lungo la fascia centrale del campo. Veron per contro svariava molto in orizzontale: spesso si apriva sul lato destro per dare sostegno a Thuram e liberare lo spazio a Fuser, oppure si avvicinava ai due mediani per ricevere palla in zone meno congestionate.

Qui la “Brujita” scende vicino a Dino Baggio e Boghossian che ha palla.

Rispetto alla Fiorentina dell’anno precedente, il Parma 1998/99 era una squadra ancora più travolgente in fase di possesso, più propensa a cercare il gioco centrale e con un’occupazione dinamica degli spazi. Malesani nelle sue interviste ha reso i meriti al talento dei giocatori di livello mondiale, come Buffon e Cannavaro, oltre a quelli già menzionati sopra. Però è innegabile l’impronta del tecnico nell’infondere al gruppo la sua mentalità offensiva, che ha stimolato anche attraverso la libertà espressiva concessa ai giocatori di maggior qualità.

Quel Parma era una squadra a tratti frenetica, ma che provava anche a fare un possesso più conservativo, con cui controllare la partita. Il gol del 3-0 al Milan, in una gara del 1998 stravinta 4-0, è la summa di una circolazione paziente in cui tutti i e 10 i giocatori di movimento toccano palla, consolidando il possesso nella propria metà campo per poi creare superiorità locale sulla fascia sinistra.

Un’azione da 15 passaggi consecutivi, chiusa da Crespo su cross di Chiesa. Enjoy.

I gialloblù erano capaci di momenti spettacolari anche in contropiede. Sempre nella stessa gara, la seconda rete è una transizione lunga che nasce da un intercetto di Sensini e successivo appoggio a Veron. L’argentino, che si è aperto sul lato sinistro del Milan lasciato sguarnito, aspetta l’inserimento centrale di Fuser – un’altra costante – il quale a sua volta la porta prima di servire in area Crespo. “Valdanito” controlla la sfera e con un colpo quasi da golfista la piazza sul primo palo, prendendo in controtempo Rossi.

Negli anni più luminosi della sua carriera, i primi, il tecnico veronese ha saputo portare avanti una proposta di gioco a volte un po' naïf, ma sicuramente originale e divertente, con alcuni spunti che saranno ripresi e sviluppati nel decennio successivo. Il punto più alto è coinciso proprio col 1999, quando ha alzato Coppa Italia, Coppa UEFA e Supercoppa italiana nel giro di 100 giorni. Già l’anno successivo però inizierà la sua parabola discendente: il primo spartiacque, in realtà abbastanza casuale, è stato il grave incidente stradale dell’11 novembre 2000, da cui ne è uscito miracolosamente illeso. Il tecnico, al terzo anno in Emilia, verrà esonerato meno di due mesi più tardi, l’8 gennaio del 2001. «Negli ultimi mesi facevo fatica ad allenare», ammetterà a posteriori, facendo riferimento ai postumi dell’incidente.

Nel campionato successivo ripartirà dall’Hellas e dopo un girone d’andata esaltante, chiuso al settimo posto, viene contattato dal Milan. «Parlo con il dottor Galliani che mi dice: “La seguiamo. Se nel girone di ritorno fa come nell’andata, ci risentiamo a fine stagione”. Purtroppo, invece, il mio Verona crollò e al termine del campionato ci fu la retrocessione. Io non andai più al Milan, Ancelotti restò in rossonero e, l’anno successivo, vinse la Coppa dei Campioni a Manchester. Il destino ha voluto così. Ma non ho rimpianti».

Da quel momento una serie di stagioni più o meno negative, intervallate da un’esperienza in Grecia al Panathinaikos e dalla salvezza alla guida di un Bologna alle prese con un delicato momento societario, nel 2011. «Ho cambiato tante squadre, ne ho allenate undici in Italia, ma non sono mai più riuscito a trovare quell’alchimia necessaria a raggiungere il successo. I miei metodi non sono mai cambiati, credo si tratti di una questione di emozioni».

Oggi Alberto Malesani, pur essendo stato accantonato dal mondo del calcio e ridotto a un meme su Internet, segue ancora la Serie A con entusiasmo. «Confesso che avevo avuto un sentimento di rigetto, qualche anno fa. Ma ora mi sono riavvicinato grazie ai nuovi allenatori che ci sono in Serie A. Mi piacciono Italiano, Baroni e Fabregas. Studio le loro tattiche, io sono un maniaco della tattica, mi tengo aggiornato, penso a che cosa farei io se dovessi affrontarli, a quali mosse sceglierei. È un modo per sentirmi ancora dentro il campo».

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