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Aguerooo!
23 dic 2021
23 dic 2021
Storia del gol più iconico della Premier League.
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Per Nedum Onuoha le speranze di entrare nella storia del Manchester City erano ormai ridotte al lumicino. Non era bastato superare la difficoltà di cambiare Paese a cinque anni - passare dalla Nigeria alla Gran Bretagna, dove il razzismo e le disuguaglianze sociali cercavano di affondare proprio le persone come lui. E poi affrontare un’infanzia di privazioni in un quartiere complicato, in cui gli era capitato ancora da bambino di vedere due ladri scappare da casa sua, poco dopo averla svaligiata. Non era stato sufficiente nemmeno nascondersi dalle imposizioni dei suoi genitori, che lo volevano tenere lontano dal mondo dello sport. Nel momento cruciale della sua crescita aveva persino dovuto abbandonare uno sport per cui sembrava più che portato: a 14 anni era arrivato secondo nei 100 metri juniores, poco dopo avrebbe fissato il record britannico Under 15 nel salto triplo. Eppure tutto questo non era bastato. Era stato per quella volta che da tifoso, durante la finale playoff del 1999 tra City e Gillingham per la promozione in First Division, aveva lasciato Wembley all’85esimo con il risultato di 2-0 per gli avversari? Quando allontanandosi sentì lo stadio esultare pensò che il Gillingham aveva segnato il fatale 3-0. Solo ore dopo scoprì che invece la squadra per cui tifava aveva segnato due gol nei minuti di recupero e alla fine aveva vinto la partita ai rigori.


 

Onuoha, naturalmente, non poteva saperlo se era stato quel momento a chiudergli le porte del paradiso. Quello che sapeva con certezza è che - dopo aver affrontato tutta la trafila delle giovanili, aver battuto la concorrenza dei suoi compagni, essere riuscito a ritagliarsi un posto in prima squadra nonostante diversi infortuni, nonostante il livello della Premier League salisse ogni anno - a meno di quattro anni dal suo esordio nella massima serie del calcio inglese aveva visto la sua squadra - la squadra che tifava da sempre - trasformarsi improvvisamente nel club più ricco del calcio mondiale. «L’acquisizione [del Manchester City, ndr] è stata uno shock, una follia», aveva dichiarato con una venatura di inquietudine per il suo futuro. Da un momento all’altro, cioè dalla stagione 2008/09 a quella successiva, Onuoha si era ritrovato improvvisamente fuori dalla prima squadra, in cui nell’arco di un’estate erano arrivati Edin Dzeko, Yaya Touré, Mario Balotelli, David Silva, Aleksandar Kolarov e James Milner. Dopo un anno in panchina, aveva provato ad andare una stagione in prestito al Sunderland per mettersi in luce, magari qualcuno avrebbe provato nostalgia per lui. La stagione successiva, la 11/12, rimase al City come un regalo indesiderato.


 

In realtà era un giocatore del City solo sulla carta perché alle partite non veniva nemmeno convocato, ed è probabile che le vedesse alla TV come tutti gli altri. D’altra parte cosa si aspettava? Da quando sulla panchina dei “Citizens” si era seduto Roberto Mancini praticamente aveva smesso di giocare. «Non penso che gli piaccio. Mi sono tenuto in forma e sono stato molto professionale ma alla fine credo che semplicemente non era cosa», aveva detto Onuoha, sconsolato, ancora prima di provare a riciclarsi al Sunderland. Adesso, però, non c’era più solo l’orgoglio personale, e l’ansia per il proprio futuro professionale, ma anche - credo - un certo risentimento da tifoso del Manchester City per vedersi scippato della possibilità di avere una parte nella prima stagione dopo 44 anni in cui c’era la possibilità concreta di vincere il campionato.


 

Cosa aveva pensato Onuoha il 23 ottobre del 2011, quando il Manchester City era andato ad Old Trafford a battere il Manchester United per 1-6? Aveva iniziato a crederci dopo quel trionfo o cercava di raffreddare il suo entusiasmo dicendosi che era troppo presto per pensarci? Che faccia aveva fatto quando Mario Balotelli, dopo aver aperto le marcature, si era tirato la maglietta dietro al collo con uno sguardo di sfida per mostrare una t-shirt con scritto “Why always me”? Aveva ascoltato per puro piacere personale l’intervista post-partita di Alex Ferguson, in cui aveva dichiarato che quello era stato il suo «giorno peggiore di sempre»? E cosa gli era passato per la testa quando aveva detto che ciò che lo preoccupava di più di quella incredibile sconfitta era la differenza reti? Aveva sorriso in maniera beffarda quando aveva detto che «non sai mai se la differenza reti finirà per contare»? Oppure aveva avuto un brivido di terrore davanti alla possibilità che lo United avrebbe recuperato quei cinque punti di svantaggio accumulati dopo quella partita?



Onuoha aveva potuto continuare a farsi questo tipo di domande fino alla fine di gennaio dell’anno successivo, quando fu costretto a ricordarsi che nella vita non era solo un tifoso del Manchester City. Fece in tempo a fare la sua unica e ultima presenza con quella squadra leggendaria - il 16 gennaio, sul campo del Wigan, entrando a nove minuti dalla fine - prima di passare a titolo definitivo al Queen’s Park Ranger, che mentre lui fantasticava sulle sorti del titolo era costretto a lottare con le unghie e con i denti per rimanere in Premier League. A Londra ritrovava Mark Hughes, che proprio come lui era stato cacciato da Roberto Mancini (e che al Manchester City lo aveva lanciato in prima squadra), e anche Shaun Wright-Phillips, che aveva fatto il suo stesso tragitto solo sei mesi prima. Solo cinque giorni dopo l’annuncio ufficiale del suo passaggio al QPR, quella distanza di cinque punti tra City e United che si era venuta a creare dopo il derby effettivamente si richiuse. La squadra di Mancini perse a sorpresa a Goodison Park per uno schiaffo da fuori area di Gibson, mentre quella di Ferguson ne approfittava vincendo 2-0 in casa con lo Stoke. Adesso la differenza reti segnava +41 per il City, +35 per lo United: a dividere le due squadre c’erano solo i sei gol segnati dai “Citizens” nel derby.


 

A quel punto, dicevo, per Nedum Onuoha le speranze di entrare nella storia del Manchester City erano ormai ridotte al lumicino. Forse anche meno, se pensiamo che ci mise quasi due mesi a ottenere la prima vittoria con la sua nuova maglia. Nonostante giocasse sempre titolare e Hughes non lo togliesse mai dal campo, dovrà aspettare quattro sconfitte e due pareggi prima di vincere la sua prima partita con il QPR, in casa contro il Liverpool - il Liverpool di Gerrard, di Suarez, di Kuyt, di Carragher - per 3-2. Era il 21 marzo e con quella vittoria la squadra londinese si staccò di tre punti dall’ultimo posto. Iniziò a crederci, insomma, dando a quello che di solito viene chiamato “rettilineo finale” la forma delle montagne russe. Quella squadra era così, sembrava dovesse toccare il fondo per darsi la spinta: con il Liverpool era sotto per 0-2 fino al 77esimo. Il “problema”, per la Premier League, è che nelle ultime nove partite avrebbe affrontato tutte le prime cinque squadre del campionato: Arsenal, Manchester United, Tottenham, Chelsea e Manchester City. La prima tra queste cadde esattamente dieci giorni dopo (2-1) e chissà quanti iniziarono a pensare che anche il Manchester United nel turno successivo potesse fare una brutta fine. Tra questi, mi sento abbastanza sicuro di presumere, c’era anche il nostro Nedum Onuoha.


 

Purtroppo per lui, la squadra di Alex Ferguson non era dello stesso parere. Ad Old Trafford finisce con un 2-0 inesorabile come il tiro dalla distanza di Paul Scholes che chiude la partita e apparentemente anche il campionato. Contemporaneamente, infatti, il Manchester City viene sconfitto all’Emirates Stadium dall’Arsenal, in una partita maledetta che sembra ripagare la squadra di Mancini della fortuna avuta solo una settimana prima, quando aveva recuperato un parziale di svantaggio di 1-3 all’86esimo contro il Sunderland. In ogni caso, adesso il Manchester United ha ben otto punti di vantaggio sui suoi rivali e mancano appena sei partite alla fine della stagione. La situazione è talmente disperata che Roberto Mancini come extrema ratio decide di appellarsi al potere della lacrima: «Non abbiamo alcuna possibilità, il titolo è andato». Chissà se ci crede davvero o no, come dichiarerà una volta che il titolo l’avrà conquistato davvero, chissà se ci crede il nostro Nedum Onuoha. Quel che è certo è che quella giornata - con la vittoria dello United sul QPR e la sconfitta del City contro l’Arsenal - è l’ultima, decisiva svolta della stagione. No, non perché il gol decisivo dei “Gunners” lo segna all’87esimo Mikel Arteta - con un tiro molto simile a quello di Scholes e dopo aver rubato palla in pressing sulla trequarti avversaria a David Pizarro (!) - ma perché all’ultimo minuto, dopo un intervento improvvido in scivolata su Bakari Sagnà, Mario Balotelli decide di farsi espellere sparendo per il resto della stagione, o quasi. Al suo posto, per l’ultimo atto di questa storia, Mancini decide di scongelare Carlos Tevez, che risulterà decisivo per richiudere di nuovo la distanza con il Manchester United e arrivare quindi a giocarsi il titolo all’ultima giornata. Dopo non aver giocato praticamente mai in quella stagione, l’attaccante argentino arriva al posto giusto al momento giusto come un eroe della Marvel e mette a segno 4 gol e 2 assist nelle ultime sei decisive vittorie del Manchester City.


 

Ciò che è ancora più stupefacente di quelle sei ultime giornate non è nemmeno questo, però, quanto l’incredibile, inspiegabile suicidio del Manchester United. Passi la sconfitta in casa del Wigan, che qualcuno associa alla decisione di Ferguson di far riposare il vecchio totem Paul Scholes (fino a quel momento lo United non aveva mai perso una partita di campionato con lui in campo). Passi anche la seconda sconfitta su due nel derby contro il Manchester City, che negli scontri diretti aveva già ampiamente dimostrato - per qualità tecnica e gioco collettivo - di essere la migliore squadra tra le due. Ciò che invece è di difficile spiegazione logica e razionale è invece l’assurdo pareggio che la squadra di Ferguson confeziona con l’Everton il 22 aprile ad Old Trafford. Sul prato di velluto del “teatro dei sogni” va in scena qualcosa di talmente sconnesso e poco lineare che potrebbe essere davvero uscito dal subconscio di qualcuno che sta passando la notte sfebbrando.



Sotto la calda luce primaverile l’Everton passa il primo tempo dominando il gioco, soprattutto grazie a uno strano animale di centrocampista che continua a ricevere tra le linee molto rilassate della squadra di Ferguson. È proprio Fellaini che al 33esimo si inserisce in area disordinando la difesa dello United. Il cross però è sul secondo palo, dove Jelavic, con i capelli già radi e lo sguardo da squilibrato, si inventa una specie di pallonetto di testa, che dopo aver volato sopra la traversa si appoggia alla rete sul palo più lontano, alle spalle di De Gea. Ma questo verrà ricordato come il giorno in cui lo United chiuderà il campionato. Tra la fine del primo tempo e l’inizio del secondo, con una di quelle sfuriate per cui verrà ricordata come il Grande Torino, la squadra di Ferguson rimette le cose a posto. Prima Rooney, con un colpo di testa dopo essersi inserito in area dalla seconda linea; poi Wellback, con un grande tiro a giro dal limite dell’area dopo aver fermato il pallone e il tempo con la suola; infine Nani, con il più manierista degli scavetti a superare il portiere, in uscita disperata ai limiti dell’area piccola. La partita sembra andare verso una facile vittoria dello United, tanto più che al 3-2 di Fellaini, che aveva schiacciato in area un cross a mezza altezza con una mezza rovesciata che assomiglia a una volée tennistica, risponde appena due minuti dopo ancora Rooney, che ha sempre scambiato l’Everton per il panno rosso del torero.


 

A meno di dieci minuti dalla fine il campionato è virtualmente in mano al Manchester United: se finisse così, la squadra di Ferguson avrebbe il lusso di avere cinque punti di vantaggio con appena tre partite da giocare. Nemmeno il tempo di cullarsi in questa illusione che un rumore secco squarcia Old Trafford: la palla arriva a destra a Rafael, che mette un perfetto cross basso nello spazio tra la difesa e il portiere. Il pallone attraversa tutta l’area piccola e arriva sul secondo palo, dove c’è Evra che ha concluso la corsa che aveva innescato l’azione. Il terzino francese ha tutto lo specchio libero: gli basta tuffarsi e prendere la palla di fronte piena per segnare il 5-2 ma qualcosa va storto. Forse Evra chiude gli occhi, o forse è sbilanciato dall’intervento disperata in scivolata del terzino avversario: fatto sta che il suo colpo di testa, a credo non più di due metri dalla linea di porta, schizza sul palo. Era suo il rumore che aveva squarciato Old Trafford, o forse era quello del titolo dello United che va in mille pezzi. Sì, perché nei quattro minuti successivi l’Everton di Moyes, per qualche ragione che conosce solo il cuore di queste partite pazze, riesce a pareggiare per 4-4 con i gol finali di Jelavic e Pienaar.


 

Manca ancora qualcosa per raccontare l’ultimo capitolo di questa assurda stagione. E forse avrete già capito cos’è, se avete a cuore le sorti del nostro Nedum Onuoha. Sì, perché mentre Manchester City e Manchester United facevano di tutto per arrivare appaiati all’ultima giornata, il Queen’s Park Ranger finiva la stagione con l’andamento schizofrenico che prima avevo sciattamente provato a descrivere utilizzando il termine “montagne russe”. Ma come descrivere altrimenti una squadra che negli ultimi due mesi di campionato non aveva fatto altro che far seguire una vittoria a una sconfitta? Alle vittorie contro Liverpool, Arsenal, Swansea, Tottenham e infine Stoke erano quindi seguite le sconfitte contro Sunderland, Manchester United, West Brom e Chelsea. Mancava solo l’ultimo capitolo, quindi, contro il Manchester City, la squadra del cuore di Nedum Onuoha. Come potrete immaginare, il nostro non se la passava benissimo. «È uno spazio che è molto familiare per me ma che adesso sono costretto a chiamare una “partita in trasferta”», ricorderà più avanti «Con un sacco di giocatori della mia squadra che non conosco contro tutti i giocatori e lo staff della squadra avversaria che invece conosco alla perfezione. È stato orribile. Fin dall’inizio della partita, è stato davvero, davvero orribile».


 

Il dissidio interiore di Nedum Onuoha, combattuto tra la speranza di vedere il Manchester City campione dopo 44 anni e il terrore di assistere alla retrocessione del Queen’s Park Rangers, esteriormente si rifletteva nella difficoltà che avevano le televisioni nel trovare un modo univoco per vendere quell’ultima incredibile giornata. Chiamarla Chiamponship Sunday come si era inizialmente pensato, infatti, escludeva una parte della storia che i media erano chiamati a raccontare - quella, cioè, che vedeva il Queen’s Park Rangers a soli due punti dal terzultimo posto occupato dal Bolton e quindi ancora in lotta per rimanere in Premier League. Qualcuno quindi pensò di chiamarla Survival Sunday, nome che meglio rifletteva lo stato del povero QPR che era stato invitato a quello che si chiamerà Etihad con l’ingrato compito di rovinare la festa al Manchester City pur di sopravvivere. Alla squadra di Hughes sarebbe bastato anche un pareggio, cioè il risultato più difficile del mondo da ottenere in quel particolare contesto.


 

Anche per il Manchester City, comunque, il Queen’s Park Rangers rappresentava un vaso di Pandora pieno di incubi. Tra panchina e campo, cioè, non solo gli ex di cui abbiamo già parlato - Mark Hughes (che tra l’altro da giocatore aveva passato quasi tutta la sua carriera al Manchester United), Shaun Wright-Phillips e ovviamente il nostro Nedum Onuoha - ma anche Anton Ferdinand, fratello di Rio, e Joey Barton, che nel maggio del 2007 era stato esiliato dal City dopo aver mandato all’ospedale a cazzotti il suo compagno Ousmane Dabo (fatto per cui si beccherà anche una condanna a quattro mesi di carcere e una squalifica di sei giornate). A completare il quadro, una serie più o meno giustificata di feticci: da Djibril Cissé a Bobby Zamora, da Adel Taarabt a Jay “The Snake” Bothroyd (sì, quel Jay Bothroyd).


 

A soffiare sulla mistica della partita ci si era messo anche Alex Ferguson, uno che sapeva sempre che parole usare. «Potrebbe essere un Devon Loch», disse nell’ultima conferenza pre-partita, riferendosi al cavallo (Devon Loch, per l’appunto) che al Grand National del 1956 da solo a pochi metri dal traguardo inspiegabilmente decise di lasciarsi cadere sulla pancia facendosi recuperare dal suo inseguitore. «Cose anche più strane sono già successe nel calcio». Una serie di statistiche contrastanti cadevano sull’Etihad come i coriandoli bianchi che erano stati lanciati dagli spalti prima del fischio di inizio. Il Manchester City non perdeva una gara casalinga dal dicembre del 2010 ma allo stesso tempo Mark Hughes non aveva mai perso una partita da allenatore avversario all’Etihad. Nonostante il risultato da fuori potesse sembrare scontato, era difficile trovare una bussola a cui affidarsi.


 

https://youtu.be/4XSo5Z0hEAs?t=1

 

Eppure la partita era iniziata esattamente come tutti si aspettavano. Lo stadio bagnato dal sole dei giorni migliori, il Manchester City costantemente nella trequarti avversaria, il QPR che si difendeva con dieci dei suoi undici uomini. Era il mondo esteriore che voleva entrare a tutti i costi in questa bolla che chiamiamo normalità per agitare le acque. Al 12esimo una prima eruzione di grida ed esultanze dal settore dei tifosi del QPR, a cui era appena arrivata la notizia che il Bolton era andato sotto con lo Stoke. Pochi minuti dopo un brusio cade su tutto il resto della stadio come una grandinata - a provocarlo, questa volta, il gol di Rooney contro il Sunderland. Il movimento del pubblico sembrava far accelerare la partita, rendere il Manchester City più pericoloso: prima un tiro alto di Yaya Touré poi uno sul palo del portiere di David Silva. E pensare che Nedum Onuoha ci aveva messo quasi sei minuti a toccare il primo pallone della sua partita.


 

Adesso, però, la squadra di Mancini aveva alzato la pressione e sembrava fare sul serio. Al 39esimo Yaya Touré sente finalmente l’odore del sangue: dopo un’estenuante azione manovrata da sinistra a destra, il centrocampista ivoriano si inserisce nell’angolo destro dell’area avversaria. Silva lo serve facendo passare il pallone in una cruna di un ago e Touré restituisce il favore a Zabaleta, che nel frattempo gli era passato accanto per inserirsi in area. Il terzino argentino per un attimo pensa a controllare il pallone, poi capisce che lo spazio è troppo poco e allora colpisce alla cieca con la punta. Il pallone è diretto alla faccia del portiere del QPR, Paddy Kenny, che sembra difendersi da quel missile più che pararlo. Per farlo lo devia con le due mani unite, dandogli una traiettoria surreale: il pallone si impenna sopra la traversa e poi si va a poggiare sulla rete accanto al palo più lontano.


 

Il gol di Zabaleta non è nemmeno la peggiore notizia per il QPR, che pochi minuti dopo allo sconforto dello svantaggio aggiungerà anche quello della temporanea rimonta del Bolton contro lo Stoke City. «Ricordo che i tifosi del City dalla gradinata nord iniziarono a cantare per Martin Petrov, un ex giocatore del City che si era trasferito al Bolton», dirà Nedum Onuoha, che stava continuando imperterrito la sua discesa agli inferi «Anche se non è un vero tradimento l’ho avvertito come tale. Pensavo che quei tifosi che credevo fossero i miei sperassero che rimanessi in Premier League». Forse l’unico a passarsela peggio di Onuoha era Roberto Mancini, che nonostante il gol del vantaggio poteva già intravedere dei cattivi presagi all’orizzonte nell’infortunio del suo giocatore prediletto, Yaya Touré, sostituito tra il primo e il secondo tempo da Nigel de Jong.


 

Ma questo ancora non è niente, è solo lo sparo prima dei 100 metri piani alle Olimpiadi dopo giorni di noia e attesa. Il vero spettacolo arriva quando le due squadre tornano in campo, tra il nervosismo palpabile di chi sa che il QPR per salvarsi deve tornare in partita. È Djibril Cissé che si nasconde alle spalle di Lescott, come se sapesse che sta rinviando inspiegabilmente il pallone all’indietro anziché in avanti, e che segna poco dopo l’inizio del secondo tempo. È il QPR che inizia a rilanciare il più lontano possibile, possibilmente in fallo laterale, con ancora una quarantina di minuti da giocare sul cronometro. È Joey Barton che, forse provocato o chissà addirittura toccato da Tevez, decide di stampargli una gomitata in faccia; che, mentre l’arbitro decide sul da farsi, dice a Bobby Zamora di volersi far espellere e che, alla richiesta di quello di “portarsi dietro qualcuno con lui”, risponde con una ginocchiata sotto la schiena ad Agüero scatenando il pandemonio (Zamora chiarirà che con quelle parole non intendeva dire di colpire qualcun altro, ma di cercare di far espellere qualcuno del City, magari buttandosi a terra dopo aver appoggiato la testa su quella di qualche avversario). È Balotelli che si fa mezzo campo per imbruttirgli dopo che era già stato espulso perché in fondo è sempre Balotelli. È, soprattutto, l’incredibile assedio successivo: l’81% di possesso palla, i 44 tiri verso la porta, i 19 calci d’angolo. Gli altrettanto incredibili miracoli in serie di Paddy Kenny: Kenny che respinge con due mani il tiro potentissimo di Tevez da dentro l’area, Kenny con una mano sola sul tap-in sicuro di Agüero, Kenny che raccoglie il successivo rimbalzo sulla linea, Kenny che va a spolverare con le dita il sette alla sua destra sul colpo di testa da contorsionista ancora di Tevez, Kenny che in spaccata con i piedi respinge la conclusione sul primo palo di Dzeko (subentrato poco prima).


 

E ancora. È il QPR che, sotto di un uomo, come per sortilegio riesce a trovare il gol del vantaggio con la sua unica azione offensiva di tutta la partita. È Jamie Mackie che, dopo aver schiacciato in rete di testa il pallone messo in area da Traoré, si accascia a terra mettendosi le mani sul volto come se avesse appena ricevuto la migliore o la peggiore notizia della sua vita. È il Bolton che pareggia, facendo esplodere il settore ospiti del QPR. È il QPR che, nonostante questo, come per orgoglio personale, decide di non uscire dalla partita (in realtà, spiegheranno successivamente, molti giocatori non avevano capito che il Bolton aveva pareggiato). È la disperazione che inizia a impossessarsi dei tifosi del City: tifosi che si contorcono, con la faccia tra le mani, che frustano il seggiolino con la sciarpa che stanno stritolando tra le mani, che piangono come in preda a un’estasi mistica.


 


 

È Balotelli che torna in campo dopo quel rosso contro l’Arsenal per gli ultimi 15 minuti della sua stagione. È l’assurda serie consecutiva di calci d’angolo con cui il City non riesce a segnare. È la palla che non vuole entrare. È la palla che infine entra, schiacciata in rete da Dzeko, lasciato finalmente libero di colpire ai limiti dell’area piccola. È il cronometro che segna il 92esimo. È il QPR che manda il calcio d’inizio direttamente in fallo laterale, per qualche ragione. È Hart che inizia a battere le rimesse laterali. È, infine, una cosa davvero inspiegabile.


 

A 92.30 Shaun Wright-Philipps riesce finalmente a portare la palla fino alla linea del centrocampo, cerca di saltare Zabaleta che era entrato disperatamente in scivolata ma la palla viene deviata e sembra destinata al fallo laterale. Nasri però è più veloce, potrebbe sventare quell’ultima occasione del QPR per perdere tempo ma per qualche ragione - forse per stanchezza, forse semplicemente perché non ha capito che Zabaleta ha toccato il pallone per ultimo - decide di lasciare sfilare la palla fuori. Abbiamo raggiunto ormai il 93esimo: il QPR può gestire uno degli ultimi palloni della partita ed è una rimessa laterale. La può mandare fino alla bandierina, tenere il pallone lì finché il cronometro si esaurisce, far impazzire tutto l’Etihad finché qualcuno non commette una follia. Le cose andrebbero così in qualsiasi universo conosciuto, ne siamo sicuri, se non fosse che in questo universo esiste Nedum Onuoha che è proprio lì da quel lato e tra tutti i giocatori in campo è lui che va a raccogliere quel pallone. Sì, lui, Chinedum "Nedum" Onuoha - il ragazzo che nel cuore ha ancora il Manchester City.


 

«Se non fossi stato un tifoso del City avrei sprecato molto più tempo prima di arrivare a quel pallone. Mi sarei distratto, avrei letteralmente strisciato per arrivare fin lì, camminato all’indietro, non lo so… qualsiasi cosa pur di prendere la palla e perdere tempo. Ma c’è ancora una parte di me che cerca di essere rispettosa nei confronti del mio precedente datore di lavoro - nei confronti della mia squadra. Quindi sono saltato per andare a prendere la palla dal fallo laterale. Dico a Jay Bothroyd che andrò lungo linea: “Vado lungo linea!”». Ma invece di andare lungo linea per far correre la palla fino alla bandierina del calcio d’angolo, Onuoha per qualche ragione la lancia alta e lenta verso il centro: un cioccolatino non per Bohroyd, ma per Lescott, che è alle sue spalle ed ha l’ultima occasione della sua vita per riscattarsi dell’assurdo errore che ha portato all’1-1.


 

La palla viene respinta verso Nigel de Jong, che la può portare indisturbato fino ad oltre il cerchio di centrocampo. Il centrocampista olandese non sa bene che fare quando vede Aguero proporsi tra le linee. Lo spazio è angusto e l’avversario già addosso: Agüero deve girarsi e prendere una decisione in fretta. Con l’esterno trova Balotelli ai limiti della lunetta dell’area che sta chiedendo il pallone. L’attaccante italiano riesce a fermare con il corpo l’anticipo di Anton Ferdinand alle sue spalle ma perde l’equilibrio. Può solo guardarsi intorno mentre si accascia a terra. Dietro di sé Kompany (!) taglia dentro l’area con un movimento da attaccante vero portandosi dietro il terzino sinistro Taiwo e generando lo spazio in cui si sta per infilare Agüero. Solo a questo punto, quando è già a terra, Balotelli può servirlo: in scivolata ma precisamente sulla corsa. Manca solo un ultimo tocco, di piatto, una finta di tiro che manda a vuoto l’ultimo tentativo di recupero di Taiwo, che schizza via sulla caviglia del suo avversario come una macchina da corsa che prende male un cordolo.


 

A quel punto Martin Tyler, storico commentatore di Sky che sta per incollare la sua voce per sempre a questo momento, sapeva già cosa stava per succedere. «L’unica cosa che mi ricordo di quel giorno è la chiarezza con cui ho capito che Sergio avrebbe segnato nel momento in cui per la prima volta ha toccato il pallone. Parte del mio lavoro è riconoscere la storia nel momento in cui sta per svolgersi di fronte ai miei occhi». E allora Tyler prende fiato nel momento in cui Aguero entra in area e poi fa partire il grido con cui ricorderemo questo gol ancora prima che calci il pallone. In questo modo le sue O accompagnano la corsa dell’attaccante argentino, la sua maglia che rotea intorno alle dita come un mulino a vento. Si fermano solo di fronte all’esplosione di suono che emerge dall’Etihad - qualcosa che Mark Hughes definirà come qualcosa di «diverso da tutto ciò che ho sentito prima o dopo: diverso dal suono di una massa di tifosi» - perché, come dirà in seguito, «credo fermamente che il silenzio sia una parte di quello che faccio».


 

Prima di tutto questo - prima della corsa disperata di Aguero sotto gli spalti, delle lacrime, dell’abbraccio con Kompany a terra, della sciarpa del City caduta accanto a loro come una composizione nata in un sogno, di Mancini che corre senza sapere dove andare mentre si cerca la felicità nelle tasche, del campionato vinto con la differenza reti esattamente come Alex Ferguson aveva previsto mesi e mesi prima - Nedum Onuoha è con le mani nei capelli e poi a terra. Non può credere a quello che ha appena fatto. «Da difensore lo sai quando un gol è colpa tua, perché lo puoi ricondurre a un particolare momento. Non deve accadere esattamente prima che qualcuno calci - potrebbe essere che hai perso il pallone un minuto prima o che hai fatto la decisione sbagliata. Quando [in quella rimessa laterale] ho cercato di lanciarla lungo linea, loro l’hanno immediatamente riportata nella nostra metà campo. Mentre cercavo di tornare in difesa tutto ciò a cui pensavo era solo: “Ti prego non segnare, ti prego non segnare, ti prego non segnare”. Ma poi loro riescono a farlo: Balotelli passa, Sergio segna e io sono sconvolto. Ho appena mandato in Serie B la mia squadra».


 

Solo alcuni momenti dopo qualcuno nella sua squadra lo solleva da terra e finalmente gli dice che la partita a Stoke è già finita e il Bolton ha pareggiato. Il QPR è salvo in ogni caso. Il sollievo è tale che il resto del mondo scompare e Nedum Onuoha diventa l’unico tifoso del Manchester City del mondo a non sapere chi ha appena segnato. Passeranno «tre, quattro giorni» - tre, quattro giorni di festeggiamenti, abbracci, speranze nel futuro - prima che ne venga a conoscenza. Mi piace pensare che sia stato qualche suo amico, tifoso del Manchester City come lui, che gli abbia mostrato il cellulare per fargli vedere il video del gol di Aguero con la telecronaca di Martin Tyler, perché ormai le due cose nella memoria sono inscindibili e perché è un piacere per gli occhi e per le orecchie di chiunque non sia un tifoso del Manchester United. Pensate alla meraviglia dei suoi occhi di fronte a questo video, al nome di Aguero allungato all’infinito, all’esplosione di gioia dei tifosi e infine alle parole che faranno per sempre da cornice al tutto:


 



 

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