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Emanuele Atturo
Ode ad Adrian Mannarino
19 gen 2024
19 gen 2024
Agli Australian Open sta mostrando il suo talento speciale.
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Emanuele Atturo
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Foto di Dubreuil Corinne / ABACA / Imago
(foto) Foto di Dubreuil Corinne / ABACA / Imago
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«Qual è il segreto per migliorare quando si invecchia?» gli chiedono, «La tequila» risponde Adrian Mannarino, con quella voce nasale, lenta e pastosa come uno sciroppo, «Mi aiuta a non pensare».

Lo ha detto al termine della inattesa vittoria in cinque set contro la nuova promessa del tennis mondiale, Ben Shelton. La terza partita consecutiva che Mannarino vince in cinque set agli Australian Open, più di undici ore complessive passate sul campo da tennis, con un fisico impiegatizio, le gambe glabre per vecchiaia più che depilazione. «Ho provato a non sentirle più» ha detto Mannarino, che ha suggerito di aver giocato in una specie di trance, con un’incoscienza comprensibile solo in chi ha già superato i trent’anni e non ha più molto da chiedere dalla vita sportiva. Un uomo che ha smesso di desiderare con troppo ardore le cose, disposto ad accettare quel che arriva, e che per questo in campo gioca con una certa carica spirituale. «Non voglio pensare alla prossima partita» ha tagliato corto su tutta la retorica competitiva che infesta lo sport professionistico. «Voglio godermi il momento». Nella prossima partita dovrà entrare nelle fauci della belva biblica Novak Djokovic. Tanto vale non pensarci.

Poco prima dell’intervista Mannarino era andato a ringraziare la curva di tifosi francesi che, per qualche ragione, in questi giorni sta affollando tutti gli stadi di Melbourne. Abbiamo assistito a una scena surreale. Mentre lui lanciava asciugamani puliti verso questi tifosi, loro gli hanno lanciato una maglia della Francia del 1998 con scritto dietro “Divine Chauve”, “Pelato magico”.

Per quanto suoni grottesca, non mi viene in mente una definizione migliore per descrivere il tennis incantevole di Adrian Mannarino, che sembra tenersi in piedi a fatica, riuscire a mandare la palla dall’altro lato del campo per caso, e che ha battuto uno dei tennisti più talentuosi, chiacchierati, amati del circuito. Ben Shelton, col taglio maranzino, la grancassa della stampa americana e quella di Roger Federer, investitore di On, il suo sponsor tecnico. Shelton con l’esultanza codificata come un giocatore NBA, i dritti enfatici, i muscoli guizzanti in vista. Il gioco appariscente, una certa strafottenza di chi nella vita è disabituato all’insuccesso. Shelton che all’inizio del quinto set, quando la partita sembrava essere indirizzata verso la sua gioventù, la sua freschezza, si è avvicinato alla propria panchina dicendo «Sono troppo tosto, sono troppo tosto».

Non immaginava che Mannarino, a trentacinque anni, con più di 10 ore di gioco sulle gambe, lo avrebbe ancora portato a scuola nei game successivi. Gli avrebbe insegnato che il tennis non è solo forza, esuberanza, e che il talento può assumere tante forme diverse - anche perverse e poco appariscenti.

Mannarino non sembra nemmeno della stessa specie di Shelton. Trentacinque anni, classifica media, altezza media: né capelli, né muscoli; giusto una barbetta indolente che dal rosso sbiadisce nel bianco. Non si concede niente di superfluo, niente che possa suonare vagamente seduttivo. È lì per giocare a tennis al meglio che gli riesce, per quanto ancora riesce. Asceta, genio inconsapevole, ha asciugato il gioco di qualsiasi orpello, trasformandolo in una specie di miracolo anti-agonistico, un monumento all’economia di forze ed energie. Mannarino si mette coi piedi sulla riga di fondo e cerca di colpire la palla mentre ancora sale. Chiudendo lo spazio in avanti si corre meno: è semplice fisica. Può riuscirci per le aperture minimali dei suoi colpi, in aperta controtendenza con tutte le convenzioni tecniche contemporanee. Non sembra nemmeno imprimere forza, Mannarino, perché conosce l’arte marziale di appoggiarsi sulla forza altrui e giocare con i tempi e gli angoli del campo. È un tennis giocato sottovoce, disegnato a matita, girato con la camera a mano, suonato in acustico. Se Shelton sembra un prodotto del Disney Club, un fumetto Marvel, Mannarino pare il frutto, tenue e impalpabile, dalla matita di Hergé.

Le sue apparenze somigliano al suo tennis. Privo di sponsor e colori, ostenta un rifiuto così radicale dello stile da guadagnarne uno inconfondibile. Calzini fini, pantaloncini che sciacquano come costumi, maglie basic, sembra un tizio andato a fare sport in prigione. Uno di quei maschi che riempiono l’armadio di maglie prese da Decathlon a cinque euro e che cambiano solo dopo duecento lavatrici. Si è presentato al campo con un borsone pieno di queste maglie monocolori spaiate ai pantaloncini. Maglie che si chiazzavano sempre di più con l’andare della partita, disegnando geografie sempre meno socialmente accettabili. Quando le isole delle ascelle si estendevano fino a quelle del petto, cambiava maglia.

È difficile abbinare una tale ricerca di spersonalizzazione a un tennis tanto personale. Nessuno gioca come Mannarino. Un tennis sensibile e cerebrale; furbo, dolce che rifiuta platealmente l’espressione della forza. Un tennis anti-virile come la sua voce, ma anche straordinariamente resistente - come quegli uomini ultra-centenari che vivono sulle isole del Giappone flessuosi e imperturbabili, canne di bambù al vento.

In tutte le partite giocate finora Mannarino è sembrato sul punto di spezzarsi, ma poi si è piegato e ha ritrovato la sua armonia all’interno del match, come se il suo tennis al risparmio fosse più duro di quello degli altri - troppo generoso, troppo votato allo sperpero. All’inizio del secondo set Shelton ha tirato una risposta di dritta sfavillante all’incrocio delle righe, e ha lanciato un grido al cielo, i muscoli tutti tesi. «Big strike, big shot» dice il tennista. Pensava di aver superato il momento difficile della partita.

Mannarino è tornato al suo angolo poco impressionato, sapeva che invece la partita era ancora lunga; che si può vincere anche tirando «Little shot, little strike». Ha chiuso il primo set con un doppio fallo, dopo il quale se ne è andato all’angolo claudicante e veniva da andargli a portare un bastone per reggersi in piedi; mentre Ben Shelton roteava la racchetta tra le mani come un cowboy col revolver.

Mannarino ci ha mostrato che il tennis è uno sport che si vince nelle pieghe, in ciò che è nascosto dietro questi vincenti. In diversi momenti è sembrato potersi rompere per la potenza devastante dei colpi di Shelton, come all’inizio del terzo set, quando l’americano era ispirato e debordante. Mannarino ha subito i vincenti che c’erano da subire, ma ha continuato a tessere la sua tela. Il tennis come un’arte della trappola.

Quando Shelton l’ha messa sul fioretto, tronfio del proprio talento, Mannarino ha dimostrato di averne altrettanto. Ha estratto magie, tipo questa volée di rovescio fatata alla Fabrice Santoro. Poi si è messo a ridere, in estasi come solo una persona che ha imparato a godersi i momenti felici.

Pelato divino.

Pian piano, Shelton è finito fuori misura nella partita. In anticipo o in ritardo sui colpi, troppo corto o troppo lungo. I conti non tornavano mai.

Mannarino è numero 19 del mondo: la migliore classifica di una carriera trascorsa sotto traccia. Un giocatore così lontano dai riflettori che possiamo ricordare per dei giant killing mancati. Nel 2021, in un primo turno di Wimbledon, è andato molto vicino a chiudere la carriera di Roger Federer, infliggendogli una sconfitta tutto sommato meritata. Ricordo un tweet letto in giro quel giorno: «Federer sta per essere battuto da un tizio con un teschio sulla maglia» riferendosi alla maglia del francese quel giorno (anche nelle proprie versioni brandizzate Mannarino è riuscito a essere paurosamente uncool). Mentre sembrava vicino alla vittoria, si è infortunato al ginocchio, mancando l'ingresso nei libri di storia. In questo modo ha rispettato la sua modestia.

È sempre sembrato troppo dimesso per il tennis d’élite: versione deluxe di un giocatore da circolo che sembra scarso ma non lo è, e che ha trovato una propria personalissima via per essere efficace sul campo. Nessuno si aspetta nulla da lui, e ha capito di poterne fare una forza da questo.

In molti sono dispiaciuti dalla sconfitta di Shelton, dalla perdita dal torneo di uno dei giocatori con più hype del circuito. Eppure l’esperienza estetica di Mannarino è ancor più speciale. Non è l’energia della gioventù, né l’idea di un orizzonte di possibilità infinito; è la pace che trasmette il tennis di un uomo risolto, che gioca senza i rischi dell’entusiasmo e i pesi della frustrazione. Un uomo che sa giocare molto bene a tennis, a farci caso.

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