Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Riccardo Rimondi
Addio record
30 apr 2016
30 apr 2016
I record stanno scomparendo, quindi smettiamo di esserne ossessionati.
(di)
Riccardo Rimondi
(foto)
Dark mode
(ON)

 

Il 1968 fu un anno storico. Tra le foto che lo rappresentano c’è il podio della finale olimpica dei 200 metri di Città del Messico, con la protesta contro il razzismo degli atleti americani Tommie Smith e John Carlos insieme all’australiano Peter Norman. Molto si è scritto di quei pugni chiusi e della spilla della Human Rights Association, meno sul contenuto tecnico di quella finale: Smith vinse in 19’’83, battendo il record del mondo. Norman, a cui nei decenni successivi e fino alla sua morte nel 2006 tolsero tutto per aver osato schierarsi contro il razzismo, ha ancora il record oceanico grazie al 20’’06 siglato quella sera.

 

Oltre a quello di Tommie Smith, nel 1968 vennero siglati altri 48 record mondiali nelle discipline olimpiche. Uno alla settimana per tutto l’anno. È il numero più alto di primati registrati in un anno nella storia dell’atletica leggera, alla pari con il 1960 e più di tutti quelli ottenuti dal 2007 a oggi. Nel 2015 ne sono stati fatti sei, per dare un’idea. I record stanno scomparendo, sempre più velocemente: lo si dice da anni e i numeri confermano che è vero. Non sono bastati Usain Bolt e Yelena Isinbaeva per mascherare il fenomeno.

 



I numeri dicono anche un’altra cosa: i record non stanno sparendo da cinque, dieci o vent’anni, ma da mezzo secolo. Questa tabella si basa su tutte le migliori prestazioni mondiali registrate nelle discipline olimpiche dal 1896, anno della prima Olimpiade, al 2015, raggruppate per decennio. La linea rossa è quella dei primati mondiali maschili, la gialla raccoglie quelli femminili e la verde è la somma di entrambi.

 



 

Tra il 1926 e il 1935, con il passaggio dall’atletica dei pionieri a quella “istituzionalizzata”, i primati mondiali iniziarono a essere registrati in maniera più metodica di quanto si fosse fatto in precedenza. I record diminuirono nel decennio successivo, soprattutto per la seconda guerra mondiale: tra il 1936 e il 1945 ne sono stati abbattuti 61. Un numero destinato a raddoppiare nell’immediato dopoguerra: nei dieci anni successivi alla fine delle ostilità, i primati furono 138. Tra il 1956 e il 1965 si raggiunse il numero più alto di record battuti in un singolo decennio, 258. In pratica, due record mondiali al mese per dieci anni. La stessa esatta statistica si ottiene dal 1966 al 1975. Ma a differenza di quanto era successo fino ad allora, stavolta furono le donne a migliorarsi più volte. Gli uomini passarono da 176 a 117 record del mondo, mentre loro crebbero da 82 a 141.

 

Negli ultimi quarant’anni il numero di record abbattuti è sempre sceso. Gli sporadici dati in controtendenza, tra gli uomini o tra le donne, non sono mai stati abbastanza forti da invertire il trend generale. Inizialmente il calo è stato contenuto: tra il 1976 e il 1985 sono stati comunque ottenuti 250 record, quasi quanti nei due decenni precedenti. Ma già nel decennio successivo erano 149, diventati poi 114. I record registrati negli ultimi dieci anni si sono poi ulteriormente dimezzati: sono stati solo 55, meno che durante la seconda guerra mondiale, mai così pochi dal 1926 a oggi.

 

Le discipline olimpiche dell’atletica, tra maschili e femminili, sono in tutto 47. Solo 18 di queste hanno visto i loro limiti estremi spostarsi almeno una volta dal 2006. I primati in vigore all’8 febbraio hanno compiuto una media di sedici anni il 21 gennaio 2016. Certo, ci sono record ottenuti pochi mesi fa: quello del decathleta Ashton Eaton ai Mondiali di Pechino, per esempio. Ma altri resistono da decenni. La nonna dei record è Jarmila Kratochvilova: il 26 luglio 1983 l’allora cecoslovacca corse gli 800 in 1’53’’28. Quel primato non è più stato avvicinato.

 

La scomparsa dei record è un fenomeno inevitabile: gli atleti migliorano, si allenano e gareggiano sempre più al limite. I materiali progrediscono, ma ogni miglioramento è via via più marginale. Cambiano le tecniche di allenamento, i tempi e le misure con cui rapportarsi. Il 19 giugno 1924, a Helsinki, il leggendario mezzofondista finlandese Paavo Nurmi siglò il record del mondo dei 1.500 metri: 3’52’’6. Poco più di un’ora dopo si rimise le scarpe e fece un altro primato, stavolta nei 5.000: 14’28’’2. Il suo segreto era una tecnica estremamente innovativa: il passo uniforme, che teneva sia in allenamento che in gara con l’aiuto di un cronometro. Nei novant’anni successivi, la filosofia di Nurmi è stata abbondantemente superata. Oggi nemmeno gli amatori che preparano una maratona all’anno si limitano ai suoi sistemi di allenamento. Quei tempi non bastano a qualificarsi ai campionati italiani. Per questo è più difficile battere i record mondiali.

 

Tanto che quello dei 1.500, il 3’26’’00 di Hicham El Guerrouj, resiste dal 1998 e il primato dei 5.000, 12’37’’35, è in mano a Kenenisa Bekele dal 2004. I tempi di Nurmi invece erano anacronistici già pochi anni dopo il suo ritiro.

 

Secondo molti, certi record sono imbattuti da decenni anche perché ottenuti in condizioni di doping oggi ineguagliabili. L’atletica degli anni Settanta e Ottanta, in effetti, ha visto qualunque genere di uso e abuso di sostanze illecite. Non che oggi, e gli scandali della Iaaf lo dimostrano, le cose vadano molto meglio. Ma ancora negli anni Settanta le autoemotrasfusioni erano legali. E non sono passati troppi decenni da quando importanti studiosi rimanevano estasiati alla vista di ciò che si poteva ottenere sottoponendo gli atleti a cure basate sull’utilizzo di steroidi. Tuttavia non basta questo a spiegare la fine dei record mondiali: Marion Jones, squalificata e incarcerata per doping, non ha mai migliorato un primato del mondo. Florence Griffith, su cui si concentrarono – senza conseguenze legali - i dubbi di tutto il mondo in occasione delle Olimpiadi di Seul 1988, ne ha siglati tre. I record diminuiscono e tendenzialmente spariranno perché è il loro destino, a prescindere da quanto sporchi e dopati possano essere gli atleti.

 

Fin qui, nulla di male. Se non fosse che i record sono considerati tra gli elementi di maggiore interesse nell’atletica leggera. La chiamano “Regina degli sport”, ma è schiava della miglior prestazione mondiale a tutti i costi. Olimpiadi dopo Olimpiadi, nel nuoto i primati del mondo cadono a decine, mentre nell’atletica restano (quasi) sempre uguali. Questa, secondo media e spettatori, è la dimostrazione di come uno sport sia estremamente vitale mentre l’altro stia morendo. Sembrava che lo scettro di vetrina olimpica dovesse passare definitivamente al nuoto nel 2008, con le Olimpiadi di Pechino e gli otto ori olimpici di Michael Phelps (di cui sette con record). Poi il fuoriclasse americano uscì dall’acqua, entrarono in pista gli atleti, Usain Bolt diventò il simbolo vivente dei Giochi olimpici cinesi e l’atletica ebbe un ritorno di immagine insperato. Ora l’epoca di Bolt sta finendo e, mentre il nuoto continuerà a macinare primati, l’atletica ne farà sempre meno. Magari ci sarà un altro fenomeno come lui, ma difficilmente riuscirà a fare lo stesso numero di record (otto tra 100, 200 e staffetta 4x100). Se veramente la sua ragione di esistere è legata in maniera indissolubile al superamento continuo dei limiti umani, l’atletica diventerà uno sport irrilevante nel giro di breve tempo.

 

https://www.youtube.com/watch?v=fzbaJX2-Z6k

L’ultima fatica di Ashton Eaton ai Mondiali di Pechino 2015.


 



L’11 gennaio di quest’anno, la federazione britannica di atletica leggera ha pubblicato

lungo una pagina e mezzo dal titolo “Manifesto per l’atletica pulita”. Redatto, spiegano i promotori, perché sulla materia nasca «un dibattito di ampio respiro» che parta dalle 14 proposte pubblicate. Alcune di queste sono legate non tanto all’aspetto scientifico o legale ma a quello comunicativo. Ad esempio, quella che ha conquistato le prime pagine dei giornali: cancellare tutti i record del mondo. Testualmente, dare mandato alla Iaaf di «investigare le conseguenze dell'annullamento di tutti i precedenti record sportivi, per esempio cambiando le regole degli eventi, e iniziare una nuova serie di record basata sulle prestazioni della nuova “Epoca dell’atletica pulita”». Insomma, tracciare una bella linea sopra a oltre un secolo di storia dell’atletica e ripartire da zero, come se niente fosse stato. Tentazione comprensibile, vista la mole di scandali che si sono susseguiti negli ultimi decenni e costati la salute e la vita a diversi atleti.

 

Anche negli anni più bui, alcuni sono stati scoperti e squalificati: il più famoso di loro, Ben Johnson, aveva battuto Carl Lewis nei 100 metri ai Mondiali del 1987 e alle Olimpiadi di Seul 1988. Molti altri no. Marita Koch, velocista della Germania Est, distrusse decine di primati mondiali tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Dal 1985 ha il record dei 400 metri, 47’’60, oggi inarrivabile. Non fu mai trovata positiva a un test antidoping nella sua vita, ma questo non ha allontanato i sospetti da lei. In seguito alla caduta del muro di Berlino, sono emersi alcuni documenti secondo i quali si sarebbe dopata pesantemente per almeno un tratto della sua carriera. Ma il record non le è mai stato tolto, anche perché la Iaaf aderisce al codice Wada che prevede la prescrizione per l’azione disciplinare dopo dieci anni. Quindi, o lei ammette spontaneamente di aver fatto quei record grazie al doping, o la federazione mondiale di atletica non può agire. Marita Koch è uno degli esempi più famosi, ma casi come il suo hanno coinvolto atleti di diverse nazionalità nel corso dei decenni, senza soluzione di continuità. Non c’è mai stato un periodo in cui l’atletica è stata veramente pulita: dagli anni del doping di Stato si è passati a Marion Jones, poi a Justin Gatlin, quindi ai kenyani, oggi agli scandali dei russi e alle inchieste della stampa secondo cui un terzo dei medagliati di Mondiali e Olimpiadi tra il 2001 e il 2012 presenta valori “sospetti”.

 

Alla luce delle centinaia di imbrogli, è inevitabile che molti vogliano un gesto forte per girare pagina e riconquistare una purezza. Non è la prima volta che una proposta del genere salta fuori: se ne parla da anni. Nel 1998, dopo la morte di Florence Griffith, il presidente della federazione tedesca Helmut Digel propose di congelare i vecchi record, ripartendo da zero. Niente annullamenti, processi o giudizi sommari: semplicemente, accettare che si era conclusa una fase storica e aprirne un’altra. L’idea non ebbe seguito nonostante anche all’allora presidente della Iaaf Primo Nebiolo non dispiacesse la proposta di ripartire da zero con l’inizio del terzo millennio. Non solo per il doping: c’erano pure ragionamenti più materialisti, non ultimo il fatto che, in questo modo, sarebbe cominciato un nuovo periodo di primati a raffica com’era stato fino agli anni Ottanta. E, di conseguenza, ci sarebbe stato un maggiore interesse sul mondo dell’atletica.

 

https://www.youtube.com/watch?v=OD4OUTXvtRU

Il discusso primato mondiale della tedesca orientale Marita Koch.


 



Non a caso, allora nessuno parlò di “Epoca dell’atletica pulita”. La federazione britannica l’ha fatto. E dietro alla scelta del termine c’è già uno degli errori contenuti in questa proposta: azzerare i record, di per sé, non significa che quelli nuovi saranno ottenuti correttamente. Nemmeno se, contestualmente, entreranno in vigore controlli più stringenti e pene più severe per chi imbroglia, come la federazione ha proposto nel suo manifesto. Se prima o poi un primatista mondiale venisse beccato a doparsi, come si potrebbe continuare a chiamarla “era dell’atletica pulita”? E cosa direbbero tutti gli ex primatisti, spogliati dei loro record senza essere mai stati trovati positivi? Una di loro, l’ex maratoneta britannica Paula Radcliffe,

di essere fortemente contraria alla proposta della federazione. «Non sarò mai d’accordo con la cancellazione dei record, perché so che almeno uno di questi è pulito e questo significa che anche altri lo sono», ha dichiarato al

. Difficile controbattere, vista la sua storia: sempre in prima fila contro il doping, ha più volte attaccato singoli atleti e ha spesso chiesto un irrigidimento dei controlli e un inasprimento delle pene. Quando l’anno scorso l’inchiesta del

e della rete tedesca Ard ha reso di pubblico dominio l’esistenza di numerosi test sospetti coperti dalla Iaaf, è finita per breve tempo nella bufera perché anche tre suoi campioni erano nella lista. Salvo poi essere riabilitata perché nessuno di questi era abbastanza affidabile da provare che avesse assunto sostanze dopanti.

 

Anche l’italiano Stefano Mei, campione europeo nel 1986 sui 10.000, ha criticato la proposta della federazione. Come Radcliffe, Mei è sempre stato considerato al di sopra di ogni sospetto: fu uno dei pochi nella sua epoca a rifiutare le autoemotrasfusioni. Tanto che Sandro Donati, medico sportivo impegnato nella lotta al doping da trent’anni, dedicò parte del suo libro

alla sua figura e alle sue difficoltà in un mondo, quello dell’atletica italiana degli anni Ottanta, che dall’utilizzo massiccio di sostanze dopanti è stato tutt’altro che immune. Mei non ha record mondiali da difendere. Ma un’onorabilità, quella sì: «Sarebbe una punizione che non colpirebbe i veri dopati nascosti. Tutti dentro, chi ha fatto uso di sostanze pulite e chi no: non è giusto. Immaginiamo che su dieci atleti, anche soltanto tre siano stati puliti: perché dovrebbero perdere i loro primati?»,

. Secondo Mei, la proposta «parte da un presupposto giusto, fare qualcosa per rispondere a un’emergenza, all’inizio mi verrebbe da accoglierla. Ma paradossalmente può avere un effetto boomerang: cancellare le responsabilità di chi si è dopato, sporcare i risultati di chi è pulito».

 

C’è un altro elemento da aggiungere: iniziare una ”Epoca dell’atletica pulita” oggi è quantomeno fuori luogo. Piaccia o no, attualmente le piste sono piene di persone al rientro da squalifiche per doping. Come ha notato il

, se la proposta della federazione britannica fosse entrata in vigore un anno fa il record mondiale dei 100 sarebbe dell’uomo più veloce nel 2015. E cioè dell’americano Justin Gatlin, che ha all’attivo due squalifiche per doping (la seconda di quattro anni) e, complice il suo tentativo di spodestare Usain Bolt, è stato incoronato come simbolo di tutto ciò che è sporco e sbagliato nell’atletica. Lo stesso problema si riproporrà a breve, quando il marciatore italiano Alex Schwazer tornerà a gareggiare dopo la fine della squalifica. Finché sulle piste ci sarà anche solo un reduce da squalifiche, sarà impossibile parlare di “Epoca dell’atletica pulita”, anche cercando di credere che tutti i pizzicati poi si redimano di colpo. Quando di reduci non ce ne saranno più, sarà comunque un azzardo. D’altra parte c’è un motivo se, di solito, i nomi e le periodizzazioni alle epoche li dà chi viene dopo, non chi le vive.

 

Iniziare una nuova tabella dei record non sarebbe utile nemmeno sotto il profilo della pubblicità. Certo, inizialmente ci sarebbero valanghe di primati. Il primo anno, forse il secondo. Ma già dal terzo calerebbero drasticamente: se le tabelle ripartono da zero, la stessa cosa non accade per gli atleti. Che continueranno a stabilire prestazioni difficilmente superabili, come fanno oggi.

 

https://www.youtube.com/watch?v=TAuaO1hSSao

Justin Gatlin ottiene il primato mondiale stagionale dei 100 metri.


 



Ci sono alcune cose che l’atletica può fare per non morire. Primo, togliere l’aura di sacralità ai record e renderli meno appetibili. Innanzitutto, eliminando il premio di 100.000 dollari in palio per chi li batte. In questo modo, si eviterebbero anche quelle scene pietose di atleti (come Serhij Bubka e Yelena Isinbaeva) che alzavano l’asticella di un centimetro a gara. Inoltre, ammettendo che ormai i limiti umani sono già stati raggiunti quasi ovunque e che il più delle volte i miglioramenti sono dovuti a dettagli indipendenti dalle qualità degli atleti.

 

Dettagli tecnologici, innanzitutto. L’anno scorso a Pechino sono caduti primati a raffica. C’è stato un solo record mondiale, quello del decathleta Ashton Eaton, ma decine di migliori prestazioni personali, nazionali e continentali, soprattutto nelle gare di velocità. Tra i risultati più clamorosi, i tempi di diversi quattrocentisti di seconda fascia nelle batterie e la finale dei 200 donne, che l’olandese Dafne Schippers ha vinto in 21’’63 con la giamaicana Elaine Thompson seconda in 21’’66. Schippers ha migliorato il personale di 40 centesimi, Thompson di 44. L’olandese ha anche battuto il record europeo di Marita Koch, che resisteva dal 1979. Per questo, e per la sua acne, non sono mancati i sospetti di doping.

il

, senza prendere apertamente le sue difese, ha però ricordato come la pista installata dalla Mondo sia la più veloce mai costruita dall’azienda italiana. E senza nulla togliere alla straordinaria prestazione di Dafne Schippers, la qualità di una pista influisce sul risultato di una competizione.

 

Poi ci sono i dettagli naturali, soprattutto vento e altitudine. Se si è messo un freno alla prassi di portare gli sprinter a Città del Messico o al Sestriere per fargli battere i record, sul vento c’è un margine di tolleranza di due metri al secondo a favore. Sembrano pochi, ma nei 100 metri influiscono per oltre un decimo di secondo. Nel 2009, Usain Bolt fece il record dei 200 con un vento lievemente contrario (-0,3). Se domani qualcuno con due metri di vento a favore lo battesse di un centesimo, avrebbe il primato omologato. Ma la superiorità di quella prestazione sarebbe discutibile. Potrebbe essere una buona base da cui partire per ridimensionare il valore dei primati mondiali.

 

Non significa arrendersi all’idea che i record sporchi restino in vigore. Per quello sarebbe utile togliere la prescrizione nell’omologazione dei risultati. Se accadesse, i primati mondiali dei 3.000 e dei 10.000 femminili potrebbero essere cancellati nel giro di breve tempo. A inizio febbraio i media cinesi hanno riportato la notizia del ritrovamento di una lettera datata 1995, in cui la primatista mondiale Wang Junxia e le altre atlete che a inizio anni Novanta componevano il gruppo di allenamento di Ma Junren raccontano di essere state costrette ad assumere una quantità mostruosa di sostanze dopanti. La Iaaf sta indagando per capire se sia autentica. Ma se anche il doping venisse provato, da regolamento servirebbe la conferma ufficiale di Wang Junxia per procedere all’annullamento dei record. Questo perché i fatti sono andati in prescrizione. Stesso problema per altri casi simili, noti e meno noti. Colpire i singoli, anche basandosi sulla ricerca storica, può essere utile. Fare tabula rasa, no.

 

Non significa nemmeno negare l’importanza dei record, ma dar loro il giusto peso. Il 3’50’’07 con cui Genzebe Dibaba ha battuto di 39 centesimi il record dei 1.500 che durava da 22 anni ed era inavvicinabile vale più dei record di Isinbaeva, che progrediva un centimetro dopo l’altro per far cassa quando ne aveva dieci di margine. Se c’è una cosa bella nell’imbattibilità dei record è che la loro caduta diventa realmente un evento. Bisognerebbe incoraggiare questo processo, invece che strapparsi i capelli, perché un limite che cade ogni venti-trent’anni segna un’epoca. Quello del salto in lungo, migliorato solo due volte dal 1968 a oggi, lo dimostra. Mike Powell e Bob Beamon sono diventati icone, mentre è difficile ricordare anche un solo primatista mondiale della maratona.

 

https://www.youtube.com/watch?v=ybEs3j_MmrA

La finale di Tokyo 1991, con il record mondiale di Mike Powell.


 



Ridimensionata l’importanza dei record, come si fa rinascere l’interesse del pubblico verso l’atletica? Già langue, ma se gli si dice che tutto sommato i tempi non contano niente perché uno spettatore dovrebbe passare ore davanti al televisore a seguire eventi che si accavallano l’uno con l’altro? È opinione comune che le gare di atletica leggera siano tutte simili e che cambino solo misure e tempi: dai 10’’30 con cui si diventa campioni italiani ai 9’’58 con cui Bolt diventa leggenda. È opinione comune, ma sbagliata. Nell’atletica i tempi e le misure sono la cosa che varia di meno: cambiano molto di più le persone che li fanno. Tra Bolt e Gatlin ci sono pochi centesimi, nessuno nota la differenza ad occhio nudo se non sono impegnati in un confronto diretto. Ma l’abisso tra le due personalità è immenso. Ed è da lì che bisogna ripartire.

 

L’atletica deve ricominciare dall’agonismo, dalle gare tra campioni. Oggi gli sprinter più forti si incontrano in pista solo ai Mondiali e alle Olimpiadi. Nei meeting, Bolt non vuole avversari. Idem gli altri: se per caso due atleti forti partecipano alla stessa kermesse, uno fa i 100 e l’altro i 200. Gli organizzatori accettano, contenti di raddoppiare la possibilità di sventolare un crono sui giornali del giorno dopo. E i meeting diventano sempre più uno spettacolo alla Buffalo Bill che una gara vera. «Nasconderci gli uni dagli altri uccide la gara e lo sport»,

, decano degli sprinter con i suoi quarant’anni da compiere a breve.

 

Nel mezzofondo non va meglio: per strappare crono prestigiosi c’è la pratica, abusata nei decenni, di ingaggiare lepri professioniste per dare il ritmo. Con un risultato duplice: i record del mondo continuano a non cadere e al massimo arriva un buon crono, mentre la gara diventa una noia mortale con un gruppo lunghissimo che corre dietro a un atleta incaricato di portare gli atleti per qualche chilometro prima di ritirarsi. Gli avversari, il più delle volte, non esistono. Le strategie, neanche a parlarne: sembra di vedere degli automi in pista.

 

Almeno per i meeting maggiori, quelli della Diamond League, sarebbe il caso di vietare le lepri e incentivare il confronto fra avversari. L’ideale sarebbe eliminare i premi per i record del meeting/stagionali/affini, andando a rimpolpare quello per la vittoria. Ed evitare la compresenza di gare concorrenti: non 100 e 200, ma 100 o 200. E così via.

 

I meeting della Diamond League sono le vetrine che spiegano al grande pubblico cosa vedrà ai Mondiali o alle Olimpiadi. Per fare i record bastano le gare minori, che possono essere organizzate a uso e consumo del campione di turno. Ma se si vuole riportare interesse nel pubblico la settimana delle Olimpiadi, bisogna spiegargli prima che cosa vedrà: non tempi o misure di cui, al di là del record, non sa apprezzare il valore, ma i campioni, le rivalità, gli aneddoti, le simpatie e le antipatie.

 

Quest’anno, a Rio, si correranno almeno tre gare meravigliose. I 100 metri uomini: Usain Bolt, ossessionato dalla sua imbattibilità, si confronterà con Justin Gatlin, il cattivo per antonomasia che da oltre dieci anni cerca il suo riscatto e con due ragazzini, Trayvon Bromell e Andre De Grasse, che puntano a farsi largo ammazzando sportivamente i campioni che guardavano in tv. Potrebbe esserci anche Yohan Blake, bloccato per anni dagli infortuni ma alla ricerca della consacrazione mancata. È così rilevante che qualcuno batta il record del mondo? Nella storia solo 107 uomini sono scesi sotto i dieci secondi. Rappresentano lo 0,000002% della popolazione mondiale. Che importa se si vince con 9’’50, 9’’70 o 9’’90? Nel 2003 Kim Collins vinse i Mondiali in 10’’07. Non un gran tempo, ma la medaglia gliel’hanno data d’oro lo stesso.

 

https://www.youtube.com/watch?v=QSYObch2nNI

Pechino 2015, Bolt contro Gatlin: una gara senza record del mondo.


 

I 200 metri donne: calendario permettendo, ci sarà un poker d’assi. Dafne Schippers, che negli ultimi anni ha sconvolto il mondo della velocità. Elaine Thompson, che l’ha quasi battuta. Shelly-Ann Fraser-Pryce, la giamaicana due volte campionessa olimpica e vincitrice di sette ori mondiali, più forte nei 100 ma capace di vincere pure sul mezzo giro. Ed Allyson Felix, la più forte interprete dei 200 metri negli ultimi dieci anni. A Pechino ha vinto i 400 rinunciando ai 200. Schippers e Thompson, in Cina, hanno fatto un tempo migliore del suo personale. Le federazione americana ha chiesto di cambiare il calendario di Rio de Janeiro per correre entrambe le gare e permettere a Felix di sfidarle. Non ci saranno record del mondo. E allora?

 

Il salto con l’asta donne: Yelena Isinbaeva torna dopo la maternità. A Mosca 2013 si riprese il tetto del mondo dopo anni di crisi. A Rio avrà 34 primavere, tre anni di stop e una bimba sulle spalle. Le sue avversarie l’hanno studiata, sono cresciute imparando da lei e ora possono batterla, forse sono pure più forti. Davvero qualcuno ha nostalgia di quando la russa dormiva sotto un asciugamano per tre quarti di gara, entrava in pedana con aria annoiata a 4,75 e al salto successivo migliorava il record mondiale di un centimetro, salutando poi la piacevole compagnia? Al massimo, bisognerebbe avere nostalgia di quando le finali di salto con l’asta e salto in alto non venivano distrutte da progressioni indecenti finalizzate ad accorciarne la durata.

 

Un record non è la cosa più grande che si possa fare: Pietro Mennea ottenne il primato mondiale dei 200, 19’’72, correndo a oltre 2.000 metri di altitudine con due metri di vento a favore. Bravo, ma con le stesse condizioni Usain Bolt sarebbe sceso sotto i 19 secondi da un pezzo. Il vero capolavoro, Mennea lo fece un anno dopo, alle Olimpiadi di Mosca, quando uscì dalla curva sesto e chiuse primo, con una rimonta mozzafiato sullo scozzese Alan Wells. Una gara bellissima, con buona pace del tempo: un “normale” 20’’19.

 

Certo, i record sono importanti: ma conta anche dove e come arrivano. Un conto è fare il primato con le lepri a disposizione, un altro è dominare la finale olimpica con una prova di forza impressionante come ha fatto David Rudisha a Londra 2012. A volte non basta nemmeno quello per diventare i più grandi: nel salto in lungo Mike Powell sconfisse Carl Lewis ai Mondiali di Tokyo 1991, battendo il record di Bob Beamon che durava da 23 anni nella finale più spettacolare di sempre. Ma il più grande saltatore del dopoguerra, se si può assegnare questo titolo, è comunque Lewis che il record del lungo non l’ha mai fatto.

 

Se un atleta è veramente grande, se una storia merita veramente di essere raccontata, il record mondiale è solo un ornamento, un dettaglio non fondamentale: d’altra parte, chi si ricordava che Tommie Smith avesse fatto pure il record del mondo?

 

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura