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Il principe dei cuori
12 mar 2018
12 mar 2018
Mohamed Aboutrika non è stato solo uno dei più grandi giocatori della storia del calcio egiziano, ma anche una figura politica rilevante e controversa.
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Ogni volta che per un calciatore si usa l'espressione “leggenda”, molto spesso si ha a che fare con la longevità: perché quando si duratanto aumenta lo spazio nel quale incidere la propria epica, e anche perché, banalmente, la longevità è un valore in se. Muhammad Aboutrika in Egitto e in buona parte del mondo arabo è quella che si definirebbe una leggenda, ma in realtà ha giocato a calcio seriamente per un periodo di tempo limitato: aveva 25 anni nel 2003, al suo esordio nella massima serie egiziana; ne aveva ancora 33 nel 2012, quando di fatto ha deciso di smettere, poco dopo aver tenuto in braccio il corpo senza vita di un ragazzo di 14 anni a Port Said, una sera di febbraio.

Eppure, in un Egitto ancora ubriaco per la qualificazione ai mondiali in Russia dopo 28 anni di assenza, un sondaggio condotto lo scorso 18 gennaio dalla Fifa ha rivelato che per il 56% degli egiziani, Muhammad Aboutrika è il più forte calciatore della storia del paese: ben il 20% di preferenze in più rispetto al secondo, Muhammad Salah, eroe della notte di Alessandria e fondamentale nel percorso di qualificazione – una qualificazione che Aboutrika non ha mai raggiunto in carriera –, unico calciatore egiziano della storia ad imporsi ai massimi livelli mondiali, protagonista di una stagione spettacolare con la maglia del Liverpool e popolarissimo sui social network.

Al netto dell’affidabilità dei sondaggi, quel 20% racconta di una distanza fatta di elementi tangibili e intangibili, perché la dimensione calcistica è un contenitore narrativo che, per quanto enorme, non può tenere insieme tutti i motivi per cui Aboutrika è considerato una leggenda in Egitto e in buona parte del mondo arabo. Chi è solo un calciatore non può essere un grande calciatore, si potrebbe dire di lui, parafrasando Mourinho. E Aboutrika, oltre che un grande calciatore – 110 gol in circa 200 presenze da professionista, mai da attaccante puro, e 38 in 105 partite con la Nazionale, più un numero incalcolabile di assist - è stato ed è tante altre cose. Cose che rischiano di far finire in secondo piano il modo in cui giocava a calcio, la sua centralità tecnica e scenografica, che di per sé basterebbero per raccontarne la rilevanza sportiva.

Un percorso inusuale

Aboutrika nasce nel 1978 a Giza, che formalmente è un quartiere del Cairo – il settimo più popoloso al mondo – ma di fatto è una città di tre milioni di abitanti all'interno di quel mostro urbanistico di quasi 30 milioni di persone che è la Grande Cairo. A 12 anni, dopo esser stato adocchiato tra gli angusti vicoli del quartiere di Nahia, gli viene proposto di entrare nelle giovanili del Tersana, la seconda squadra più importante di Giza, dopo lo Zamalek. Nel Tersana, Aboutrika passa gli anni dell'adolescenza mentre, proveniente da una famiglia molto religiosa, inizia ad interessarsi a questioni metafisiche, le stesse che forse lo aiuteranno in futuro a comprendere il suo posto nel mondo, e il peso della sua figura all'interno della società egiziana.

A 19 anni Aboutrika si iscrive alla facoltà di Filosofia dell'Università del Cairo – che sorge proprio a Giza – una scelta controcorrente rispetto ai già pochi calciatori che decidono di proseguire gli studi, dedicandosi il più delle volte a facoltà tecniche, o che aprano la strada a precisi sbocchi professionali. Ma è una scelta che contiene anche un suo pragmatismo, perché giocare nelle giovanili del Tersana negli anni '90 non assicura in alcun modo un futuro da professionista. Aboutrika lo sa, e si laurea ancora prima di far conoscere il suo nome di calciatore al grande pubblico, nello stesso ateneo da cui sono uscite personalità come Omar Sharif, Boutros Boutros-Ghali, Naguib Mafhouz, Yasser Arafat, Mohammad el Baradaei.

Nello stesso periodo in cui si iscrive a Filosofia, l'allenatore del Tersana, Hasan el Shazli, alla fine della sua ultima stagione con le giovanili del club, gli propone un contratto professionistico a cifre molto alte. Per moltissimi giocatori o aspiranti tali, quello è il momento in cui si prende coscienza del proprio valore come professionista, che attesta l'essere diventati a tutti gli effetti dei calciatori.

Aboutrika, però, non la prende bene: si reca nella sede del club insieme ad un suo compagno di squadra, a cui avevano offerto un contratto a cifre molto inferiori. La considera un’ingiustizia e chiede che i due stipendi vengano equiparati, altrimenti non firmerà. Al Shazli, che aveva scoperto il talento di Aboutrika quando era bambino, si ritrova nel paradosso di doverlo convincere a prendere uno stipendio più alto, senza nemmeno riuscirci. Aboutrika non ne vuole sapere, e alla fine riesce a costringere la società dividere equamente il budget previsto per i due tesserati.

È molto probabile che scelte di questo tipo nascano dall’influenza che esercita su di lui la religione, tema con cui deve confrontarsi fin da bambino. Uno dei cardini concettuali della religione islamica è infatti la moderazione degli eccessi, la perpetua ricerca della giusta misura. Anche la povertà, secondo l’Islam, non è del tutto negativa: può generare diseguaglianza e frustrazione ma allo stesso tempo è il carburante della perseveranza con cui si cerca di affrancarsi dalla propria condizione. La ricchezza, di riflesso, non dovrebbe essere percepita come virtuosa di per sé, come un semplice status symbol: il ricco deve spendere, perché l'accumulazione genera posizioni dominanti, modifica i rapporti di potere tra individui in modo incontrollabile. Per ridurre questo gap, l'Islam prevede la zakat (letteralmente,“ciò che purifica”), cioè una tassa sul capitale che i musulmani devono versare individualmente ogni anno, a beneficio indiretto di otto categorie di individui bisognosi, specificate dal Corano. La zakat è uno dei cinque pilastri dell'Islam ed è associato al concetto di giustizia sociale, in base a cui chi ha troppo deve contribuire all'affrancamento altrui.

È anche per questo che il protagonismo di Aboutrika nel campo della beneficienza può essere percepito in maniera più genuina e sincera rispetto agli altri calciatori, che di solito la vivono come qualcosa a metà tra la generosità e l’operazione di marketing. Quando nel 2006 viene intervistato da Mohamed Amasha, portavoce di quel World Food Programme di cui nel frattempo è diventato testimonial, chiosa: «il ricco ha il dovere di percepire le difficoltà del povero». «È molto più che un semplice giocatore», dirà di lui Bob Bradley, allenatore della Nazionale egiziana dal 2011 al 2013). Nel 2013 Aboutrika, durante una trasferta in Ghana con la sua squadra, finanzia personalmente la costruzione di una moschea a Tafo, nella regione dell'Ashanti.

Nel grande calcio

Nel Tersana, in seconda divisione egiziana, Aboutrika giocherà quasi 5 anni, guidando i suoi anche alla promozione in Serie A nel 2003. Ma, al di là dei suoi meriti in campo, è la sua leadership ad essere distintiva, perché Aboutrika è in primo luogo il leader spirituale della sua squadra, guidando la salat, cioè la preghiera rituale (nella quale Aboutrika svolge le funzioni di imam – in arabo, “colui che sta davanti” - con i suoi compagni di squadra prima di entrare in campo).

Dopo un'ottima prima parte di stagione in Serie A, a gennaio 2004 viene acquistato dall'Al-Ahly, la squadra più vincente d'Africa, ma soprattutto quella per cui fa il tifo sin da bambino. A 25 anni compiuti, insomma, Aboutrika si affaccia al cosiddetto “calcio che conta”, almeno in Egitto.

Così come un altro calciatore molto devoto, Kakà – col quale condivide una tecnica asciutta e l'andatura elegante, quasi regale –, Aboutrika all’Al-Ahly sceglie la maglia numero 22, cioè il numero affisso su una delle porte di accesso alla Moschea al Haram de La Mecca, dove i musulmani compiono il pellegrinaggio, un altro dei cinque pilastri dell'Islam. Aboutrika racconta della scelta del numero come il frutto di una illuminazione divina, compiuta mentre camminava in solitaria, tutto vestito di bianco, nei pressi del primo luogo santo per i musulmani.

L’impatto all'Al Ahly, comunque, è devastante: giocando da mezzala offensiva o da trequartista, e con solo pochi mesi di Serie A alle spalle, segna 11 gol nelle prime 12 partite disputate, chiudendo al secondo posto della classifica dei cannonieri. A marzo 2004 arriva anche la convocazione in Nazionale (la prima era arrivata in realtà nel 2001, quando giocava ancora nel Tersana in Serie B, per un'anonima amichevole con l'Estonia).

Anche con l’Egitto, il suo avvento modifica lo scenario: segna già al suo “esordio” (il secondo, in realtà, come detto), e ne farà altri quattro nelle successive cinque partite. Nel 2006, dopo tre scudetti consecutivi con l'Al Ahly, conduce i “Faraoni” alla vittoria in Coppa d'Africa, segnando il rigore decisivo in finale contro la Costa d’Avorio di Didier Drogba. Lo scorso 7 novembre, l'ex attaccante del Chelsea gli ha fatto gli auguri di compleanno su Twitter, definendolo «la più sottovalutata leggenda africana». Secondo Xavi, invece, Aboutrika è «il più forte giocatore arabo che ho mai visto giocare dal vivo».

Il gioco di Aboutrika, d’altra parte, ha sempre solleticato l’immaginazione. Un calcio giocato su una tela di velluto, fatto di conduzioni in punta di piedi, conclusioni chirurgiche, letture del gioco sofisticate, giocate controintuitive. Guardandolo da fuori, ignorando il contesto, si potrebbero ritrovare in Aboutrika alcuni dei tratti dei più grandi trequartisti passati negli ultimi anni in Europa: un po' di Totti, un po' di Riquelme, un po' del suo idolo Zidane.

In Egitto

Nel 2006 Aboutrika vince anche il primo dei suoi quattro premi (gli altri nel 2008, 2012, 2013) come “Miglior giocatore d'Africa”, riservato solo ai giocatori che militavano in squadre africane (premio che dal 2016 la CAF non assegna più). In quel momento, Aboutrika ha ventotto anni, tre figli (due gemelli, Ahmed e Seif, e una figlia, Roqaya), una laurea in filosofia. È stata un’esplosione fulminea e improvvisa: l’Egitto si è accorto di che calciatore è in appena due anni, in cui si è affermato come il migliore calciatore del suo paese.

Eppure Aboutrika non ha mai sfruttato l’onda del suo successo per approdare in Europa, non sappiamo se per espliciti rifiuti o per l’impossibilità di oltrepassare le barriere di un paese che è stato sempre molto restio a lasciare andare i propri talenti migliori. Per lui si ripropone il dibattito che avvolge tutti quei grandi calciatori che, per un motivo o per l’altro, decidono di legarsi tutta la vita alle cause di una squadra o di un paese. Come ha scritto Gabriele Marcotti sul Times: “Il fatto che sia rimasto sempre in Egitto fa di lui un codardo, una persona poco ambiziosa, timorosa di confrontarsi regolarmente coi migliori al mondo? Oppure dovremmo ammirarlo per essere rimasto leale alla sua Terra, per aver trovato la felicità in quello che ha ottenuto, senza sentire il bisogno di inseguire il glamour e i milioni della Premier League e de La Liga?”.

Di sicuro, Aboutrika sente sulla sua pelle i cambiamenti in atto nel suo paese, così come gli sconvolgimenti all'interno del mondo arabo. Non fa davvero nulla per nasconderlo, esponendosi sempre di più, a partire dal 2008. Del suo coinvolgimento politico, da quell’anno, ci sono diversi esempi.

Il primo riguarda la questione palestinese, un argomento già delicato di per sé, e ancora più delicato in Egitto, dove, nonostante da quasi quarant’anni ci sia un trattato di pace che ha messo fine diplomaticamente alle ostilità con Tel Aviv, buona parte della popolazione egiziana si allinea malvolentieri alle posizioni ufficiali dell'autocrazia militare al potere, senza contare che per ovvie ragioni geografiche in Egitto vivono milioni di persone con legami di sangue in Palestina.

In più, non bisogna dimenticare che dal 2007 il movimento islamista di Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza, dopo aver vinto le elezioni e aver successivamente combattuto contro le milizie di Fatah. E Hamas è molto vicina alla Fratellanza musulmana, la galassia islamista transnazionale da cui è germinata, e che in Egitto ha un’influenza enorme, tale da essere percepita dall’élite militare come una delle principali minacce al potere costituito. Proprio nel giugno del 2007, in reazione alla vittoria politica di Hamas, Israele ed Egitto impongono il blocco terrestre, marittimo e aereo sulla Striscia di Gaza.

In questo clima, il 26 gennaio del 2008 l'Egitto affronta il Sudan nella seconda partita del girone di Coppa d'Africa in Ghana, dopo aver vinto 4-2 il match d'esordio col Camerun. Il giorno prima della partita allo stadio Baba Yara di Kumasi, le truppe egiziane bloccano tutti i punti d'accesso lungo la frontiera con Gaza, per cercare di impedire a migliaia di palestinesi di attraversare i valichi. Così, dopo aver segnato il suo secondo gol nel 3-0 al Sudan, Aboutrika si toglie la maglietta e svela un t-shirt bianca, con su scritto “tahatufan maa Ghaza”, cioè “Solidarietà a Gaza”. Non è una generica dichiarazione di solidarietà verso il popolo palestinese: è una dichiarazione legata alla stretta attualità politica, e il riferimento a Gaza suona anche come un severo rimprovero alle autorità egiziane. Dopo qualche giorno di silenzio, Aboutrika si fa intervistare da Carrie Brown di Al Jazeera. Con la solita, ferma, pacatezza spiega che quello che ha fatto rappresenta solo le sue opinioni, dichiarando di sentirsi «molto vicini ai bambini di Gaza sotto assedio» e di assumersi la responsabilità di fronte alla federazione egiziana.

I palestinesi, nei giorni successivi, sono in visibilio. Scendono in strada tenendo tra le mani ritratti di Aboutrika, e dopo la vittoria dell'Egitto in finale col Camerun – 1-0, gol di Aboutrika – esultano come se si trattasse della loro Nazionale. Qualche giorno dopo, l'Al-Hilal, un club di Gaza, organizza una cerimonia in onore del giocatore egiziano, nella quale i ragazzi delle giovanili sfilano con bandiere che recitano: “La Palestina ama Aboutrika”, oppure “Aboutrika è il mio idolo”. Aboutrika forse è inconsapevole della reale portata del suo gesto, perché, oltre ad essere entrato ufficialmente nelle antipatie del regime (allora c’era ancora Mubarak), ha appena varcato i confini della popolarità nazionale, per costruire la sua leggenda in tutto il mondo arabo.

La sua sublimazione in icona popolare diventa ancora più evidente il 7 giugno 2009, nella città di Blida, in Algeria. Allo stadio Mustapha Tchaker si affrontano Algeria ed Egitto, in un match valido per le qualificazioni al Mondiale in Sudafrica del 2010. Non è una partita come le altre, Algeria-Egitto, e non è nemmeno solo un “derby del Nordafrica”: è una memoria di guerra.

Venti anni prima, per le qualificazioni al mondiale di Italia '90, era andata in scena la “battaglia del Cairo”: una battaglia in senso letterale, quella che prende vita al fischio finale (1-0 per l'Egitto, che andrà al mondiale italiano) sul campo e sugli spalti, nella quale il medico sociale egiziano perde addirittura un occhio (per cui sarà accusato e poi scagionato la leggenda del calcio algerino, Lakhdar Belloumi, pallone d'oro africano nel 1981).

Venti anni dopo, le due squadre si affrontano di nuovo, per giocarsi il posto disponibile per il mondiale africano. Entrambe vanno in ritiro una settimana prima della partita: l'Algeria in Francia e l'Egitto in Oman. Nei giorni che precedono l'incontro si incontrano i diplomatici dei due paesi – una volta anche alla presenza del presidente algerino Abdelaziz Bouteflika – che tra le altre cose portano, come gesto “distensivo”, all'annullamento del mandato di cattura internazionale emesso dall'Interpol nei confronti di Belloumi quasi venti anni prima, e ad un pagamento compensatorio nei confronti del medico sociale egiziano ferito durante la “battaglia del Cairo”.

Il clima rimane però rovente: in conferenza stampa, l'allenatore dell'Algeria Rabah Saadaneh si dichiara «spaventato per la sicurezza della mia famiglia in caso di sconfitta». Un articolo comparso su Al Arabiya dice senza misure che Blida, per l'occasione, è stata trasformata in una “base militare”. Sono cinquemila i poliziotti impiegati solo allo stadio. Ai minori d'età viene addirittura proibito l'ingresso.

L'Algeria vincerà 3-1 una partita incandescente, in cui i giocatori dell'Egitto vengonoinsultati dal pubblico. L’unico a uscirne indenne è proprio Aboutrika: all’annuncio del nome il pubblico dello stadio applaude e lui, quasi in una forma di riconoscenza, segnerà il gol della bandiera. Qualche giorno dopo l'Egitto giocherà la Confederations Cup, nella quale Aboutrika continuerà a mettersi in mostra. In particolare, rimane impressa nella memoria la spettacolare sconfitta per 4-3 con il Brasile, in cui Aboutrika metterà in difficoltà avversari come Dani Alves, Lucio e Juan, regalando due assist a Mohammad Zidan.

Il 14 novembre, al Cairo, si gioca il ritorno con l'Algeria. Come vent'anni prima, i media egiziani presentano la partita come un conflitto armato. Il canale francese Canal+ riprende, due giorni prima del match, il bus algerino mentre viene attaccato dai tifosi egiziani, che arrivano a ferire alcuni giocatori. La delegazione algerina si lamenta per l'insufficiente scorta di polizia e i giornali egiziani Al Ahram e Al Shouruq, in un montare pericolosissimo di polemiche, rispondono nei giorni successivi che l'episodio è stato “totalmente montato dagli algerini”, accusandoli di aver rotto dall'interno i finestrini del pullman della Nazionale, per simulare un avvenuto lancio di pietre.

La partita, nonostante il clima incandescente, si gioca. E la miccia si innesca con la vittoria dell’Egitto, con il gol del 2-0 al novantaseiesimo minuto di Emad Moteab, che scatena il finimondo allo stadio e prevedibili scontri all’esterno, in cui decine di tifosi algerini vengono aggrediti. Nei giorni seguenti si sfiora ripetutamente la crisi diplomatica: ad Algeri vengono assaltate da alcuni vandali prima una filiale della Egypt Air e poi il quartier generale della Djezzy, una sussidiaria locale del gruppo egiziano Orascom.

Con la vittoria dei “Faraoni”, poi, Egitto e Algeria si ritrovano a pari punti, con la stessa differenza reti generale e negli scontri diretti (3-1 e 0-2). Bisogna giocare il match decisivo – che molti, senza indulgere in metafore troppo raffinate, definiscono “il match della morte”– in campo neutro (a Khartoum, in Sudan), solo quattro giorni dopo, il 18 novembre.

Le imponenti misure di sicurezza (15.000 poliziotti, scuole e uffici pubblici chiusi in anticipo) non riescono però a evitare gli incidenti: stavolta è il bus egiziano a venire attaccato, senza però provocare feriti. Il presidente del Sudan, Omar al Bashir (sul quale pende un mandato d’arresto internazionale per genocidio e crimini di guerra) finisce a fare da mediatore al palazzo presidenziale tra le controparti egiziane e algerine. Alla fine l’Algeria vince la partita per 1-0, davanti a 50mila spettatori, e va al Mondiale. L’Egitto rimane a casa, ancora una volta, e ci vorrà qualche settimana e una serie di incontri tra rappresentanti diplomatici per riportare la situazione alla calma.

Anche in un contesto praticamente guerresco, la statura morale di Aboutrika, la sua reputazione, risalta. Intervistato dal quotidiano Al Heddat, l'autore del gol che ha portato l'Algeria al mondiale, Antar Yahia, torna sui fatti di pochi giorni prima: «Mi sono rifiutato di stringere la mano ai giocatori egiziani, eccezion fatta per Aboutrika. A lui l'ho stretta, e gli ho detto 'te lo meriti, perché sei un uomo'. Lui mi ha risposto che mi stavo comportando in modo troppo duro, ma io l'ho interrotto, dicendogli che è l'unico giocatore egiziano che rispetto». Aboutrika, secondo quanto racconta Yahia, era stato l'unico giocatore egiziano a presentarsi nello spogliatoio algerino, per chiedere ai giocatori come stessero, dopo l'assalto al pullman subìto qualche giorno prima.

Guardare la morte in faccia

La vita di Aboutrika cambia definitivamente il primo febbraio del 2012. L'Egitto è da quasi un anno sotto il controllo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, guidato dal generale Muhammad Hussein Tantawi, che svolge anche le funzioni di Presidente dopo le rivolte di febbraio 2011 e la fine del regime di Hosni Mubarak. Allo stadio di Port Said si affrontano i padroni di casa dell'Al Masry e i rivali dell'Al Ahly.

Alla fine del match, conclusosi con un 3-1 per l'Al Masry, i tifosi di casa attaccano quelli dell'Al Ahly con mazze, pietre, coltelli, spade, petardi e bottiglie. Alla fine, i feriti saranno varie centinaia e le vittime 74: 72 tifosi dell'Al Ahly, uno dell'Al Masry e un poliziotto.

Ma non si tratta solo di uno “scontro tra ultras”: i tifosi dell'Al Masry si identificano politicamente con i militari e con il vecchio regime, mentre quelli dell'Al Ahly sono stati tra i primi gruppi organizzati a prendere parte alle rivolte di piazza Tahrir che ne hanno causato la fine (e ancora oggi rappresentano una delle frange della società egiziana più in opposizione all’attuale regime di Al Sisi). Numerosi testimoni confermano la piena connivenza dell'Esercito egiziano nella terribile tragedia: circolano immagini di tifosi dell'Al Masry armati fino ai denti fuori dallo stadio, con le forze di sicurezza che li guardano impassibili. Quando scoppia il finimondo alla fine del match, i militari mantengono chiuse le uscite dello stadio, trasformandolo in una gigantesca gabbia.

Almeno quattro persone muoiono negli spogliatoi dell'Al Ahly, dove i tifosi si erano rifugiati in assenza di vie d'uscita. Manuel Josè, al tempo allenatore portoghese della squadra cairota, dirà di aver visto la morte in faccia in quei minuti, oltre che dei cadaveri nel tunnel. Un ragazzo in particolare, di nome Ahmed, quattordicenne, muore proprio tra le braccia di Aboutrika, che lo voleva affidare alle cure del medico sociale dell'Al Ahly. «Capitano, sono molto contento, ho sempre voluto incontrarti», sono le sue ultime parole prima di morire, almeno secondo quanto racconta la leggenda.

Quell'evento inevitabilmente lascia un segno indelebile su Aboutrika. Raggiunto telefonicamente a poche ore dal massacro di Port Said, dichiara, come un presidente di fronte a un’emergenza nazionale: «Questo non è calcio, è guerra. La gente ci muore davanti. Chiedo che il campionato venga sospeso».

Foto di Junko Kimura / Getty Images

La Premier league egiziana viene sospesa per davvero, per due anni, e nei giorni seguenti Aboutrika fa visita a tutte le famiglie delle vittime di Port Said, partecipando a ogni singolo funerale, proponendo addirittura di ospitare alcune di queste a casa sua. «La sua popolarità e la sua influenza sono maggiori di quella del presidente. Aboutrika non è solo la figura sportiva più popolare d'Egitto, ma il personaggio pubblico più popolare in assoluto», commenta sulle colonne di Al Ahram il giornalista Hatem Maher.

Più Aboutrika diventa popolare, più diventa scomodo per il regime dei militari. Specie quando si rifiuta di incontrare il generale Mohammad Tantawi, da lui ritenuto mandante morale – e non solo – di quanto accaduto il primo febbraio. Lo dice, in tv e sui giornali: la strage di Port Said è stata favorita dai militari, che volevano vendicarsi con gli ultras ahlawi per quanto accaduto in piazza Tahrir.

Tutto quello che accade dopo, è in qualche modo figlio di Port Said, e delle posizioni che Aboutrika non ha mai nascosto, forte della sua enorme influenza, sin dalle rivolte del 2011. Come anche molti altri giocatori, questo non va dimenticato, appoggia la candidatura alle elezioni presidenziali del giugno 2012 di Mohammad Morsi, esponente del partito “Giustizia e Libertà”, espressione della Fratellanza musulmana in Egitto. Morsi vincerà la tornata elettorale – diventando il primo presidente eletto nella storia del Paese – al ballottaggio contro Ahmed Shafiq, ultimo primo ministro del regime di Mubarak, anche grazie al voto degli egiziani all'estero e di molti laici. Questo perché al di là della sua collocazione all'interno di un movimento conservatore, che in Egitto ha anche molti nemici, Morsi agli occhi degli egiziani in quel momento rappresenta una speranza di cambiamento, di fronte ad un uomo ritenuto troppo vicino al vecchio regime.

Quella di Morsi, però, è una presidenza a breve scadenza, e il tempo scade a luglio 2013: sentendosi legittimato dalle imponenti manifestazioni di piazza – a cui, a dire il vero, fanno da contraltare altre manifestazioni a favore del presidente Morsi – e dopo aver concesso un ultimatum di 48 ore per “ascoltare il volere del popolo”, il generale Abdel Fattah al Sisi conduce un colpo di stato che pone fine alla sua esperienza, restaurando il regime militare. Morsi, insieme a gran parte dei leader della Fratellanza (saranno circa 1200 gli arrestati nei primi mesi, tra dirigenti e sostenitori) verrà arrestato e condannato a più di 100 anni di galera.

Un mese dopo, la repressione diventa ancora più dura, trovando la sua massima espressione nel massacro di Raba'a al Adaweya: dopo sei settimane in cui migliaia di sostenitori di Morsi si erano accampati nella piazza che prende il nome dalla famosa poetessa mistica, il 14 agosto le Forze armate egiziane aprono il fuoco per sgomberarla. Human Rights Watch, che a fine giornata fissa il numero dei civili uccisi a 817 (2.500 per la Fratellanza, poco più di 600 per il ministero della Salute), lo definisce il “peggiore omicidio di massa della storia dell'Egitto”. Parte così una campagna di arresti arbitrari, che assomiglia molto ad una caccia all'uomo: l'obiettivo, di fatto, è cancellare dalla faccia del Paese la Fratellanza Musulmana, che viene rappresentato in Egitto da milioni di sostenitori, che adesso si ritrovano ad essere trattati come dei nemici.

Tra loro c'è, ovviamente, anche Aboutrika. L’idolo egiziano nella prima parte dell'anno decide di andare a giocare negli Emirati Arabi Uniti, al Baniyas, indossando la maglia numero 72 (come il numero dei tifosi ahlawi morti a Port Said), e vincendo da protagonista la Champions League del Golfo. In estate, però, decide di tornare all'Al Ahly per giocare la Champions League africana.

Il 13 dicembre 2013, dopo circa sei mesi dal ritorno in Egitto, la Fratellanza Musulmana viene dichiarata dal regime “organizzazione terroristica”, e bandita dal Paese. È il sigillo definitivo della repressione, che finisce per colpire anche moltissimi personaggi pubblici insospettabili, tra cui il celebre comico Bassem Yousuf, che nei suoi spettacoli aveva più volte contestato il governo di Morsi. Quella di essere un sostenitore degli Ikhwan diventa insomma un marchio di infamia, utilizzato dal regime per soffocare un dissenso che non proviene solo dai sostenitori dei Fratelli musulmani.

Pochi giorni prima della decisione che mette fuorilegge la Fratellanza, Aboutrika, ormai ai ferri corti col governo golpista, si rifiuta di ricevere dal ministro dello Sport Taher Abu Zaid la medaglia d'oro per la vittoria della Champions League africana contro i sudafricani degli Orlando Pirates, che d’altra parte aveva propiziato con un gol sia all'andata che al ritorno.

Inizialmente, per questo gesto, viene solamente multato dal club. Ma poco dopo le purghe del nuovo regime iniziano a colpire anche l’Al-Alhy. Ahmed Abdel Zaher, l’attaccante, che dopo aver segnato un gol in finale aveva festeggiato mostrando quattro dita (un segno inequivocabile di solidarietà ai manifestanti di Raba'a al Adaweya, perché “4”, in arabo, si dice “arba'a”, che è l'anagramma di “Raba'a”) viene prima sospeso e poi venduto in Libia. Aboutrika, forse intuendo la malaparata, annuncia il ritiro ufficiale dal calcio sul suo profilo Twitter, il 20 dicembre 2013.

Ma il suo scontro con il regime non finisce qui. Il 14 maggio del 2015 un tribunale del Cairo dispone il congelamento di tutti i suoi beni e delle sue quote nella agenzia turistica Ashab Tours Company, che gestisce con un suo amico, e che viene accusata di finanziare clandestinamente la Fratellanza musulmana. Ad Aboutrika, però, non arriva alcun avviso di garanzia, non gli viene comunicato alcun capo di imputazione, come riferisce nei giorni successivi alla AFP il suo avvocato, Mohammad Osman. Aboutrika è colpevole, di fatto, fino a prova contraria, in un rovesciamento paradossale del principio di non colpevolezza, e si vede respingere due ricorsi nel giro di pochi mesi, durante i quali continua a non essere accusato di nessun reato.Più di un anno dopo, un Tribunale amministrativo ribalta finalmente la decisione, annullando il congelamento dei beni di Aboutrika. Il peggio, però, deve ancora arrivare.

A metà gennaio 2017, mentre Aboutrika ha già iniziato a fare l'opinionista per Bein Sports in Qatar, il quotidiano egiziano Al Shouruk pubblica una lista, rilasciata dal regime, che contiene 1513 nomi di cittadini egiziani accusati di terrorismo, per i quali si dispone il divieto di lasciare il paese o in certi casi addirittura l'arresto. Dentro ci sono una serie di personalità della Fratellanza musulmana insieme ai loro famigliari, miliardari come Safwan Thabet, il fondatore del partito Al Wasat, Abu Ela Mady. Ma soprattutto Mohammad Aboutrika. La mossa è probabilmente un diversivo da parte del regime, che qualche mese prima, per celebrare l'alleanza con l'Arabia saudita, aveva sostanzialmente “donato” a Ryad le isole di Tiran e Sanafir, scatenando le proteste di piazza di una parte dell'opinione pubblica, secondo cui si stavano svendendo parti di territorio egiziano.

L'accusa pubblica di terrorismo nei confronti del giocatore più amato della storia del calcio egiziano rappresenta il superamento di una linea rossa: su Twitter partono diverse campagne, spuntano fuori una miriade di hashtag a favore di Aboutrika, e non solo da parte dei tifosi dell'Al Ahly, ma da parte di tifosi di squadre rivali, come lo Zamalek, e nel resto del mondo arabo. “Aboutrika non è un criminale”, “Se Trika è un terrorista, io sono un terrorista”, “Aboutrika è la linea rossa”, fino a “Terrorista dei cuori”. Quest’ultimo è forse il più riuscito, per via del gioco di parole con il soprannome che gli ultras ahlawi gli hanno dato anni prima, “Amir al Qulub”, e cioè “Principe dei cuori”, per l’appunto.

Qualcuno arriva addirittura a scrivere: «Se lo arrestate o se gli succede qualcosa, ci sarà un'altra rivoluzione».

In esilio

Aboutrika, in esilio volontario in Qatar ormai da più di un anno, e che rischia l'arresto o il sequestro del passaporto in caso di ritorno in Egitto (solo qualche settimana fa è stato convocato da un Tribunale egiziano per essere interrogato), continua a ricevere solidarietà come se fosse ancora in attività, nonostante abbia smesso di giocare da ormai cinque anni. Anche la violenza del regime nei suoi confronti, però, non è diminuita nel frattempo. Il presentatore TV Tamer Amin, vicino ai militari, ad esempio, il giorno dopo l'uscita della lista gli ha consigliato in diretta televisiva, con sarcasmo crudele, di fare ritorno al Cairo, e di “provare a donare 1000 lire egiziane (40 dollari) al Fondo istituito dal presidente Al Sisi, così da poter sperare nella grazia”.

Foto AFP / Stringer

Ma in Egitto continua a combattersi la lotta tra i suoi supporter e quelli del regime, anche al di là di questo singolo episodio. L’attrice Dalia El Beheri a fine gennaio 2017 scrive sul suo profilo Facebook: «Aboutrika era un terrorista già prima che annunciasse il suo appoggio alla Fratellanza! È cresciuto come un terrorista». Sommersa dagli insulti in poche ore, e forse anche conscia dell'estrema impopolarità delle sue affermazioni, El Beheri cancella il post poche ore dopo, facendo mea culpa: «Mi scuso con Aboutrika, con i suoi fan e con coloro che lo amano, che sono la maggioranza degli egiziani, per qualunque malinteso o offesa che è sembrato potessero provenire da me. Chi mi conosce e mi ama, sa bene che non è mia abitudine offendere le persone, e non sono certamente così stupida da insultare qualcuno della statura di Mohammad Aboutrika». Nonostante le scuse, però, El Beheri è comunque costretta a chiudere il suo profilo per qualche giorno, per calmare le acque.

Aboutrika è ormai un volto di rilievo negli studi post-partita su Bein Sports, dove il suo eloquio e la sua comprensione del calcio risaltano, così come la sua classe lo rendeva un animale diverso dagli altri in campo.

Con la crisi diplomatica tra Qatar e gli altri Paesi del Golfo (ai quali si è allineato anche l'Egitto) la sua situazione è diventata ancora più delicata, e alcuni hanno iniziato a mettere in contrapposizione la sua figura con quella di Mohammed Salah, che al contrario di Aboutrika ha donato soldi spontaneamente al sopracitato Fondo governativo istituito da Al Sisi. Alcuni presentatori TV, con questa scusa, hanno addirittura iniziato a chiamarlo “traditore”, forse ignorando che Salah è un suo amico. «Mohammad Salah è il giocatore che si è sacrificato per il suo Paese, non come quell'altro (Aboutrika, ndr). È lui l'unica star dell'Egitto», ha affermato Ahmed Moussa, un altro presentatore televisivo, tra i più accesi sostenitori di Al Sisi.

Ma la figura di Aboutrika in Egitto rimane ancora troppo solida, popolare, per poter essere scalfita. All'indomani della qualificazione ai Mondiali 2018 dell'Egitto, ad esempio, sui social è stato lanciato un altro hashtag: “Aboutrika ai Mondiali”, che chiede un suo clamoroso ritorno in campo.

Aboutrika ha risposto sul suo account con la consueta retorica asciutta, pragmatica, genuina, quella che nel tempo ha contribuito a farlo diventare qualcosa in più che un semplice, grande, giocatore: «Vi ringrazio per queste parole. Credo però che il realismo sia la scelta migliore, e io non vorrei mai usufruire indebitamente degli sforzi degli altri. Questi ragazzi (i giocatori della Nazionale, ndr) meritano di andare al Mondiale da soli».

Aboutrika parla da presidente, perché di fatto la sua influenza sociale e politica è quella di un presidente, letteralmente. Per capirlo a pieno è utile tornare alle prime proteste che scoppiarono in Egitto all’inizio del 2011, nel contesto della cosiddetta “Primavera Araba”, che alla fine portarono al crollo del regime di Hosni Mubarak.

In quel momento, i giornalisti cercavano di influenzare Aboutrika come se fosse un politico vero e proprio. Il giornalista che per l'ironia del caso si chiama Mohammad Salah, su Al Arabiya, ad esempio, in un editoriale polemico, allarmato, si appellava al buon senso di Aboutrika, invitandolo a occuparsi di calcio e a non esprimere in pubblico le sue posizioni politiche. Il titolo, rivelatore, era: “Sua eccellenza, Presidente Aboutrika”.

Ma è lo stesso Mubarak, quando ad inizio 2011 piazza Tahrir comincia a riempirsi di persone, ad appellarsi a lui, chiedendogli di invitare pubblicamente i manifestanti a tornare a casa. Aboutrika non solo ignora l'appello, ma partecipa in prima persona alla riappropriazione degli spazi pubblici da parte della folla, che in pochi giorni costringerà l’ex dittatore ad abdicare.

Zak Abdel, vice allenatore della Nazionale egiziana, qualche giorno dopo dichiara: «La gente ha troppo rispetto per Aboutrika. Se lui avesse fatto quello che Mubarak gli aveva chiesto, probabilmente non ci sarebbe stata alcuna rivoluzione».

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