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Abbiamo frainteso Thiago Motta
16 nov 2018
16 nov 2018
Cosa ci dice sulla cultura calcistica italiana la carriera dell'ex centrocampista del PSG e della Nazionale.
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Qualche settimana fa è comparso su Twitter un video in cui si vede Thiago Motta allenare l’Under 19 del PSG, a cui spiega i concetti fondamentali del gegenpressing con un’enfasi e una dedizione degna di Guardiola.

«Qui c'è uno, due, tre giocatori che pressano e gli altri si fermano. Ci sono molti di voi che guardano gli altri: “Non è colpa mia, la responsabilità è loro”», dice Thiago Motta al gruppetto di giocatori che gli si sono assiepati intorno. «E non è accettabile, su questo non scherzo. Mi arrabbio con il giocatore che perde la palla, ma di più con quello che si ferma. Molto di più col giocatore che si ferma».

Fa strano vedere Thiago Motta, dopo tanti anni passati sul campo, nella veste di allenatore. Ma fa ancora più strano, per un giocatore considerato in Italia lento e statico, sentirlo insistere con così tanta convinzione su concetti che potrebbero sembrare estranei al suo modo di giocare. E basta ricordare le critiche ricevute quando Thiago Motta ha osato indossare la maglia numero 10 della nazionale, due anni fa, agli ultimi Europei giocati in Francia.

Al 92’ della partita inaugurale della nostra nazionale, contro il Belgio, gli “Azzurri”, in vantaggio per 1-0 e in apnea da una ventina di minuti, provano a congelare il risultato in una delle poche occasioni in cui riescono ad avere un possesso pulito, anche perché il Belgio sembra stanco. Thiago Motta riceve da De Sciglio nel cerchio di centrocampo e si guarda intorno: Alderweireld, a pochi passi, chiude il passaggio sul terzino, mentre in fascia Vertonghen è pronto ad andare in pressione su Giaccherini. Ci sarebbe il retropassaggio su Chiellini, che però verrebbe pressato, mentre lanciando in avanti si regalerebbe un ultimo possesso al Belgio.

Trenta metri più avanti, però, c’è Immobile, ma la palla deve passare tra Witsel e Vertonghen in agguato, e se riuscissero a intercettare il filtrante potrebbero dar vita a una transizione pericolosa, con quattro uomini dell’Italia sopra la linea della palla e il solo Thiago Motta a fare da schermo davanti la difesa. Potrebbe essere una situazione complicata, specie per un giocatore nel mirino della critica per aver dissacrato la simbologia del numero 10, con un gioco considerato lento e troppo compassato.

Thiago Motta, con ogni probabilità, non ha fatto tutte queste riflessioni in quel momento e con semplicità apparente chiude il sinistro e serve un rasoterra felpato sui piedi di Immobile, che si gira fronte alla porta e avvia l’azione del raddoppio. È bastato un passaggio ben calibrato, di quelli che è abituato a giocare in partite di Champions contro avversari più organizzati della nazionale in quel momento allenata da Wilmots, per confermare chi fosse il giocatore con più controllo in campo in quel momento. Forse, con un altro giocatore al posto del regista del PSG, non sarebbe stato possibile segnare il 2-0.

Purtroppo, anche un gesto tecnico così importante scompare di fronte alla sacralità infranta della maglia numero 10, e Thiago Motta - due Champions League in bacheca più svariati titoli nazionali, sempre titolare in alcune delle migliori squadre del continente sotto la guida di allenatori d’élite - resterà il nemico pubblico numero uno di quei giorni. Un sentimento popolare che va contro ogni logica, ma che ha senso nel clima che avvolge l’Italia calcistica di questi anni.

Essenzialità

Forse la scarsa comprensione di cui ha sofferto Thiago Motta negli ultimi anni in Italia deriva dal suo retaggio calcistico, quello della Masia, le celebri giovanili del Barcellona, lontano dalla cultura calcistica italiana e quindi indecifrabile per molti.

I registi più apprezzati passati negli ultimi anni per la Serie A avevano tratti che li rendevano immediatamente riconoscibili agli occhi del grande pubblico: Pirlo creava assist senza sforzo con lanci dalla propria metà campo; De Rossi all’ottima tecnica abbinava i tackle chirurgici e la grinta dei migliori mediani; Cambiasso aveva la capacità di materializzarsi all’improvviso sulla linea di passaggio e di recuperare il possesso.

Thiago Motta invece non faceva nulla di appariscente. La sua funzione principale era assecondare il possesso palla, così da essere sempre un riferimento sicuro per i compagni. Col suo calcio a uno, massimo due tocchi, Thiago giocava per facilitare la vita dei compagni: offriva sempre la linea di passaggio giusta ai difensori, mentre ai compagni che occupavano la trequarti cercava di trasmettere il pallone per farli ricevere in zone pericolose.

Era la naturalezza con cui interpretava le proprie mansioni a renderlo invisibile, l’efficacia del suo calcio è direttamente proporzionale all’essenzialità delle sue giocate (in modo non troppo diverso da come succede con Sergio Busquets, talento a cui somiglia). Quando Thiago Motta riusciva a giocare il pallone di prima intenzione, o subito dopo lo stop, allora la sua influenza sulla partita cresceva a dismisura e aumentavano i benefici per la squadra. Quando invece era costretto a tenere troppo palla, la squadra e lui di riflesso andavano in difficoltà: i compagni non riuscivano ad occupare il campo con efficacia e Thiago non poteva mettere ordine.

In Italia, invece, il numero 10 deve avere, storicamente, un'influenza molto più diretta e appariscente. Come scriveva Federico Aqué, quel numero rappresenta «l’unico elemento libero dalla dimensione terrena della tattica, e deputato alla “creazione” divina del gioco. In grado da solo di prendersi sulle spalle la squadra e riscattare l’aridità degli altri dieci giocatori». Una definizione che sarebbe stata ancora perfetta per Pirlo ma che stride con la razionalità di Thiago Motta, che non ammetteva niente di soprannaturale e che per dispiegarsi aveva bisogno di compagni in grado di muoversi lungo il campo con intelligenza.

È evidente l’incapacità del pubblico italiano di apprezzare un tipo di talento inedito per cui il passaggio, la più semplice delle armi a disposizione di un giocatore, è il fondamentale con cui dominare la partita. «Giocare a calcio è molto semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che ci sia», diceva Johan Cruyff: Thiago Motta è la personificazione di quel calcio semplice, che è difficile praticare e anche comprendere per chi è abituato ad attendersi sempre qualcosa di straordinario dai giocatori coinvolti nella fase offensiva. Di Pirlo, ad esempio, più che l’intelligenza negli smarcamenti e nella trasmissione di palla, vengono ricordati i dribbling o le punizioni, i lanci lunghi ma solo quelli che sono diventati degli assist.

In questo senso, è ironico che Thiago Motta fosse uno dei giocatori preferiti di un’icona dell'estro creativo come Ronaldinho, forse influenzato nel giudizio dall’ideologia catalana: «Amo vedere giocare Thiago Motta, lui è diverso da tutti gli altri. Per me rappresenta la classe».

L'impressione della lentezza

Chi sicuramente non ha mai avuto dubbi sulle qualità di Thiago, tanto da aver disegnato una squadra a sua immagine e somiglianza, è Laurent Blanc, allenatore del PSG tra il 2013 e il 2016. Sotto la guida dell'ex difensore dell'Inter, Motta ha trovato un'idea di gioco perfettamente conforme alle sue caratteristiche, quasi come quella del Barcellona di Rijkaard. Probabilmente negli ultimi anni di carriera abbiamo potuto ammirare il suo calcio nella sua forma più pura, in un sistema incentrato sul possesso palla che ha rigettato anche le correzioni di un allenatore più verticale come Unai Emery.

Con tutti i suoi difetti, va riconosciuto che il PSG di Blanc era una squadra piuttosto radicale dal punto di vista del possesso palla (spesso poco compensato dai movimenti in profondità degli attaccanti). Oltre a Thiago e Verratti, non va dimenticata l'influenza di Ibrahimovic, che agiva da vertice alto di centrocampo più spesso che da punta. Anche contro le migliori squadre d'Europa, Blanc non rinunciava mai a costruire con calma e a cercare trame piuttosto elaborate nella fascia centrale del campo. E la miglior garanzia sul possesso palla era per l’appunto Thiago Motta.

Foto di Franck Fife / Getty Images

La sua capacità di coordinare i suoi movimenti con quelli di Verratti era straordinaria. In alcuni momenti era difficile dire chi fosse il vertice basso e chi la mezzala. L'intelligenza negli smarcamenti di Motta compensava benissimo la tendenza del compagno ad abbassarsi davanti alla difesa. Così per gli avversari era difficile schermare i loro movimenti, sempre volti a creare una linea di passaggio pulita oltre la pressione avversaria, riuscendo quasi sempre a non appiattirsi. Grazie alla loro intesa, il PSG riusciva sempre ad avere una prima costruzione pulita che spesso però pagava in una cronica mancanza di profondità verticale.

A Thiago Motta bastava davvero poco spazio per trovare il passaggio risolutivo, calcolato su misura del pressing avversario e in grado di far sviluppare l'azione in una zona di campo più ariosa. La compostezza nella postura e nei movimenti al momento del rilascio del pallone gli permetteva di disegnare passaggi anche negli spazi più risicati. Il minimalismo di Motta nell'esecuzione era sintetizzato dalla chiusura quasi impercettibile del piede sinistro, unico arto che dava l'impressione di muoversi in un fisico massiccio in cui corpo e gambe sembravano rimanere sempre immobili. Anche quando si concedeva qualche tocco in più, Thiago sembrava produrre il minimo sforzo possibile, senza addentrarsi in situazioni complicate. Se proprio non poteva giocare a due tocchi, magari preferiva spostare il pallone lateralmente, per attirare la corsa dell'avversario e aprire una nuova linea di passaggio, da esplorare con uno di quei filtranti che hanno fatto la gioia di giocatori come Ibrahimovic, Pastore o Di Maria.

La calma di Thiago nelle scelte e nell'esecuzione, così stridente rispetto alla corsa degli avversari in pressing, probabilmente ha acuito la percezione della sua lentezza. «Quando mi guardo intorno vedo tanti giocatori del mio ruolo non velocissimi. Si è creata a mio modo di vedere un'opinione, soprattutto nel giornalismo, secondo cui Thiago Motta è lento. Io so di essere un giocatore lento però ho altre caratteristiche che credo siano importanti nel calcio. Credo di vedere bene il gioco, di essere un buon incontrista, di avere senso tattico. Se non fosse così non si capirebbe perché tutti i migliori allenatori mi vogliano in squadra e titolare», ha detto una volta.

Adattamento

Thiago Motta, però, è risultato imprescindibile anche in contesti molto distanti dal PSG di Blanc. Sta tutto nel sopracitato senso tattico, una locuzione vaga che indica l’intelligenza con cui un giocatore sa muoversi con la stessa efficacia all’interno di sistemi di gioco diversi, grazie al quale il regista italiano riesce a comprendere velocemente principi tattici diversi e poi a farli propri. Ad esempio, alla luce di ciò che abbiamo detto, fa strano pensare oggi al fatto che Thiago Motta sia stato uno dei pupilli di Gian Piero Gasperini.

Gli inserimenti e l'atteggiamento aggressivo della coppia di centrocampo sono la cifra stilistica del calcio del tecnico piemontese, eppure Thiago Motta non ha avuto problemi ad adattarsi a un calcio così peculiare. Gasperini ha rappresentato anzi la sua salvezza, dopo anni di infortuni e dopo essere stato scartato dal Portsmouth: «Dopo tre operazioni al ginocchio mi credevo finito. Il presidente Preziosi mi fece fare due visite mediche e ci litigai sul contratto. Poi firmai in spogliatoio durante un Genoa-Milan. Anche con Gasp non fu facile. Rischiai di andarmene al primo allenamento, dopo 3 ore di esercizi temevo per il ginocchio. Ma Gasp mi fece innamorare di nuovo del calcio».

Thiago Motta è un ulteriore indizio per la teoria secondo cui Gasperini tenda a gonfiare il rendimento dei centrocampisti. Durante l'annata genoana, infatti, l'ex Barcellona siglò il suo record di gol in una stagione, ben sei, tra cui una doppietta alla Juve di Ranieri. Notando alcuni gol è impossibile non ripensare, seppur con immagini un po' più sgranate, ai pattern offensivi dell'Atalanta.

Ad esempio in questo gol, segnato in un pirotecnico 3-3 con la Fiorentina, Thiago Motta riceve sul centro destra, quasi al limite dell'area. Milito viene incontro e chiede la triangolazione: Thiago Motta appoggia e poi corre in area, col più classico dei movimenti da centrocampista di Gasperini, per prendere controtempo la difesa e chiudere la parete con un gol. Osservando i movimenti verso l'area nella sua stagione con Gasperini, Thiago Motta - che aiutato anche dal fatto che avesse 10 anni in meno - restituisce l'impressione di un trattore cingolato che, seppur lento e pesante, riesce a penetrare in maniera inesorabile tra le maglie avversarie.

Certo, l'adattamento era anche favorito dai ritmi più lenti della Serie A di quegli anni: non dimentichiamo che spesso Gasperini gli affiancava un altro regista puro come Milanetto, scelta che oggi sarebbe forse anacronistica. Motta però si è adattato soprattutto grazie alla sua conoscenza enciclopedica del calcio, fatta anche di letture degli spazi sopraffine. Un calciatore con quei limiti di movimento, reduce da svariati infortuni alle ginocchia, non avrebbe mai potuto realizzare quel tipo di inserimenti richiesti da Gasperini senza un'eccellente analisi dei tempi e degli spazi.

Thiago Motta era perfetto per il Genoa perché, oltre all'immancabile contributo con la palla, era bravissimo a leggere e a compensare i movimenti incontro o verso l'esterno di Milito. Lo stesso tipo di intesa che, cinque anni dopo e in una zona diversa di campo, avrebbe avuto con Verratti.

Oltre al contributo offensivo, non va dimenticato l'adattamento di Motta ai principi difensivi di Gasperini. In un sistema di marcature a uomo che chiedeva però la difesa in avanti, Motta poteva prendere contatto con l'uomo in possesso e far valere tutta la propria fisicità per contestare il pallone: poteva usare le gambe lunghe per aggrovigliare l'avversario, oppure, con più spazio, tentare il tackle. Far recuperare il pallone a Thiago Motta, poi, significa garantirsi avere un inizio pulito della transizione.

E probabilmente il rendimento difensivo è stato una discriminante fondamentale nel suo trasferimento all'Inter di Mourinho. Sia nel 4-3-1-2 di inizio stagione che nel 4-2-3-1 del Triplete, Thiago Motta dimostrò di avere un senso della posizione che gli permetteva di schermare perfettamente la difesa, affianco ad un altro mediano puro come Cambiasso.

Per Mourinho sarebbe stato impossibile difendere così basso senza due centrocampisti così intelligenti nelle letture difensive, capaci di comprendere sempre in anticipo dove muoversi per evitare pericoli ed eventualmente intercettare il pallone. Una volta recuperato il possesso era fondamentale per l'Inter trasmettere il pallone in verticale per attivare la transizione offensiva. Chi meglio di Thiago Motta? Due dei tre gol dell'Inter nel trionfo di San Siro contro il Barcellona, per dire, sono proprio palloni intercettati da Thiago Motta.

Il primo, quello del gol di Maicon, addirittura è un recupero palla in isolamento su Messi. Il 10 del Barcellona riceve defilato a destra e può girarsi. Motta, con la solita puntualità, è scivolato per coprire Pandev, inizialmente su Dani Alves; Zanetti è tenuto basso da Pedro, quindi l'uno contro uno con Messi è inevitabile. Thiago Motta con la postura copre tutto il centro e concede solo la fascia: Messi prova a sfidarlo sulla velocità, allungando il pallone, ma il centrocampista dell’Inter sa che quello è il solo spazio in cui può muoversi, perciò prende per tempo contatto con l'avversario e, dopo averlo leggermente sbilanciato, riesce a infilare il piede tra le sue gambe per rubare il pallone. Da lì Zanetti serve Pandev che taglia il campo palla al piede e genera il gol di Maicon.

Il futuro in panchina

Se da calciatore nel nostro paese spesso è stato frainteso, magari il nostro giudizio su di lui cambierà nei prossimi anni, quando dal centrocampo si trasferirà in panchina: appena smesso di giocare, il PSG gli ha garantito un posto come allenatore dell’Under 19, forte anche dell’endorsement di Emery, sicuro che la sua esperienza e la sua sensibilità tattica potranno tornargli utili nella sua seconda vita calcistica.

Il video tributo del PSG a Thiago Motta, col saluto di tutte le figure più importanti della sua carriera. Tra le tante, mi piace sottolineare le parole di Eto’o: «Ti dicevo sempre "dammi il pallone sui piedi", e lo facevi in una maniera incredibile, nel modo in cui sapevi fare solo tu». Il riconoscimento di chi sa che senza Thiago sarebbe stato più difficile giocare bene a calcio.

Forse era un esito scontato. Un giocatore con una conoscenza così profonda del calcio, capace di leggere con brillantezza tutto ciò che accade intorno a lui non può che essere destinato alla panchina. Se Emery, in vista del ritorno con il Real Madrid, ha fatto di tutto per recuperare il trentaseienne Thiago e schierarlo titolare, il motivo è che un giocatore come lui interpreta meglio di chiunque i momenti della partita e, se necessario, sa indirizzare anche i compagni. D’altra parte, lo aveva già sottolineato Carlo Ancelotti: «Per parlare di tattica devi essere convinto e credibile: in ogni spogliatoio ci sono giocatori che sono pronti per fare gli allenatori. Penso a Terry, Thiago Motta, Thiago Silva, Pirlo, Xabi Alonso».

Quando si parla di calciatori pronti per la panchina non si tratta solo di giocatori in grado di adattarsi a ogni esigenza tattica e di aiutare i compagni. Spesso si sottovaluta la funzione pedagogica di un allenatore, quella che gli permette di mantenere un buon rapporto con i giocatori, e al contempo di migliorarli tecnicamente.

Requisiti che sembrano inscritti nel codice genetico di Thiago Motta, come dimostrano le dichiarazioni di Nkunku, uno dei prospetti più interessanti delle giovanili del PSG che quest’anno ha fatto il salto tra i professionisti. «Mi ha parlato molto, specie quando sono entrato in prima squadra. Nei primi giorni ho provato qualche tocco di troppo, ma lui mi ha fatto subito capire che qui c’è bisogno di giocare semplice. Mi ha spiegato che la palla deve viaggiare veloce e va giocata a uno, massimo due tocchi».

Una sensibilità didattica che conferma una vocazione di cui è consapevole da tempo: «A 29 anni ho iniziato a pensare a cosa avrei fatto a fine carriera e già sapevo che avrei voluto allenare». E dopo averlo visto giocare, d’altra parte, è difficile pensare il contrario. La storia di Thiago Motta, insomma, non è ancora finita.

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