Dove eravamo rimasti?
I riccioloni alla Brian May, i calzettoni arrotolati, il corpo spigoloso. Arrivato diciottenne a Firenze, Stevan Jovetic era già un giocatore di culto. Ad accompagnarlo, delle aspettative esagerate: «Un po' Baggio, un po' Rivera» diceva la Gazzetta nella sua guida al fantacalcio.
Cinque anni—e 40 reti—dopo ha salutato il nostro campionato lasciandoci con molte incertezze: «È un trequartista? Una seconda punta? Un centravanti?», «È un fuoriclasse o solo un ottimo giocatore?», «Riuscirà mai a risolvere definitivamente i suoi problemi fisici?». Tanti dubbi che si sono accumulati stagione dopo stagione e sono rimasti lì, come i suoi capelli sul pavimento della bottega di un barbiere.
Perplessità che i due anni al Manchester City non hanno certo fugato, ma che al massimo hanno concorso ad alimentare. Cosa è lecito attendersi da Stevan Jovetic? Giunto all'Inter a quasi 26 anni, questa seconda avventura in Italia sembra destinata a rappresentare lo snodo decisivo della sua carriera, in un senso o nell'altro.
Come (non) lo ricorderanno in Inghilterra
«La Premier League ha appena perso il suo uomo peggio vestito»: il Mirror ha commentato così la notizia dell'accordo raggiunto tra Manchester City e Inter per il trasferimento di Jovetic. Umorismo a parte, non si può negare che l'esperienza inglese del montenegrino sia stata una delusione. Pagato la non indifferente cifra di 26 milioni di euro più 4 di bonus, nelle due stagioni con gli "Sky Blues" ha segnato solo 11 reti in tutte le competizioni ufficiali, ma soprattutto è stato arruolabile per molto meno di metà delle partite disputate dai suoi compagni.
L'ex-primattore della Fiorentina si è trovato a dover combattere una concorrenza spietata. Nonostante la sua adattabilità a più ruoli (ma non parlerei di duttilità), per poter giocare doveva convincere Pellegrini a mandarne in panchina quattro tra Agüero, Dzeko, David Silva, Jesús Navas, Milner, Nasri e Negredo, ovvero l'impressionante batteria di centrocampisti offensivi/esterni/attaccanti del City 2013/14. Alla fine, un po' per i problemi fisici, un po' per scelta tecnica, ha giocato nettamente meno di tutti quanti.
Spesso gli è stata riservata l'ultima mezz'ora di partita, a risultato già acquisito, o nel tentativo di sbloccarlo: minuti troppo rilassati o troppo disperati. In molte statistiche, come la frequenza di tiro e di dribbling, proprio nella sua prima stagione a Manchester ha fatto registrare i valori più alti della carriera. Ossessionato dalla voglia di conquistare il posto, ha forzato le giocate, quasi cercando di concentrare nei pochi minuti a disposizione quello che prima faceva in 90. Paradossalmente l'ha fatto guadagnando efficienza, visto che tra le categorie in cui ha migliorato sé stesso ci sono anche il numero di minuti per segnare, la precisione di tiro e quella di passaggio.
Lampi di classe.
Tutto lasciava pensare che, spalmando certi dati su un minutaggio maggiore, si sarebbero create le condizioni perché Jovetic conquistasse il City. Le buonissime prestazioni offerte nelle amichevoli dell'estate successiva erano un segnale che andava nella medesima direzione. Alla fine ha giocato più del doppio dell'anno prima, ma comunque poco rispetto agli altri, e quelle cifre sono calate di netto.
Sin dal principio della scorsa annata Pellegrini ha puntato forte su di lui, schierandolo come seconda punta nell'undici iniziale dei primi impegni ufficiali. Alla seconda di campionato ha riscoperto il gusto che si prova nel segnare una doppietta al Liverpool, seguita da un'intervista a CityTV in cui la giornalista ha esclamato: «Dopo quello che hai fatto in preseason sembra proprio che tu non riesca a smettere di segnare!». E invece ha smesso subito, ma non per sua colpa: l'ennesimo stiramento alla coscia, patito pochi giorni dopo, gli ha fatto perdere posizioni nelle gerarchie. Sostanzialmente senza riuscire più a recuperarle, a parte i soliti camei nei secondi tempi.
Al di là degli infortuni e della concorrenza, si è avuta l'impressione che l'ecosistema del calcio inglese non fosse il suo. In Italia era un giocatore che dava lo strappo a partite dai ritmi blandi; messo nella centrifuga della Premier League, dove tutto gira alla massima velocità e non c'è un attimo di sosta tra un azione e l'altra, la capacità di Jovetić di imprimere il suo marchio ne usciva ridimensionata. Qualcuno l'ha visto anche più appesantito (per via di un aumento di massa magra, forse voluto per resistere alla fisicità di quel campionato), certamente meno brillante dei migliori giorni fiorentini.
Lo scorso febbraio, nella lista UEFA per la fase a eliminazione diretta della Champions—che per il City doveva essere ridotta a 21 giocatori come sanzione per aver violato le norme del Fair Play Finanziario—il suo posto è stato occupato dal nuovo acquisto Bony. Si trattava della prima bocciatura grave di una carriera in ascesa costante. Fino ad allora pareva che solo gli infortuni potessero frenarlo: per la prima volta Jovetic non vedeva riconosciuto il suo talento. Per reazione, è esploso sulle colonne del Sunday Mirror: « Il manager mi ha ucciso con questa decisione. Credevo di meritare quel posto e altre persone mi hanno detto la stessa cosa. Ne ho parlato con lui, ma non mi ha voluto ascoltare. Ero venuto qui per giocare la Champions League».
Ai tempi, Pellegrini ha negato che quell'esclusione fosse un indizio su un suo futuro lontano da Manchester: «Da ora fino alla fine della stagione è molto importante per Stevan provare a giocare più partite possibili, senza infortunarsi e producendo performance di alto livello». Peccato che da lì fino alla fine sia stato messo in campo solo in due spezzoni di partita per un totale di un'ora di gioco scarsa, anche per via di un infortunio che gli ha fatto perdere più di un mese. Qualche giorno fa, l'Ingegnere l'ha salutato così: «Purtroppo, Stevan doveva andar via. È davvero un buon giocatore, uno dei migliori che abbia mai visto, ma ha avuto troppi infortuni ed è per questo che non ha potuto giocare molte partite di fila. Gli auguro il meglio per il futuro e sono sicuro che sarà davvero un giocatore importante per l'Inter».
Predestinato
Prima di fallire in Inghilterra, per buona parte della sua vita Jovetic è stato considerato un predestinato: «Ho imparato prima a giocare con la palla che a parlare o a camminare». Questo a Podgorica, città che una ventina d'anni prima aveva dato i natali anche a Dejan Savicevic. Quando a quest'ultimo è stato chiesto un parere sul giovane connazionale, l'ex Genio rossonero ha risposto così: «Gioca senza paura e non vedo limiti al suo potenziale. è lui il nuovo Savicevic? No, può diventare anche più forte di me. Mi ricorda Johan Cruijff».
Mentre Jovetic veniva alla luce, Podgorica era ancora chiamata Titogrado, nome che assunse dopo la seconda guerra mondiale, quando il Montenegro divenne una delle repubbliche socialiste della federazione jugoslava. Il 24 marzo 2007 in campo a Podgorica c'è anche lui, diciottenne, per la prima partita disputata dalla Nazionale montenegrina dopo il referendum che sancì la separazione dalla Serbia. A esprimersi positivamente fu il 55,5% dei votanti: «Serbia e Montenegro sono una cosa sola, secondo me. Mi piacerebbe molto se fossimo ancora insieme in un'unica squadra nazionale».
L'esordio così anticipato con i colori della propria bandiera non dà piena contezza della precocità di Joveta, come lo chiamano da quelle parti. A 13 anni e mezzo saluta i genitori e si trasferisce a Belgrado, che dista 500 chilometri da casa. Dopo poco viene raggiunto dall'affezionata sorella Bojana, che prosegue gli studi nella capitale serba; lui, invece, è lì perché l'aveva chiamato il Partizan. A 16 anni ha già debuttato in prima squadra, a 17 è il capitano del prestigioso club bianconero, con cui nel 2008 vince campionato e coppa nazionale, al termine di una stagione in cui segna 19 reti.
Alcuni gol realizzati in Serbia: già allora quando riceveva il pallone sapeva cosa farne.
Nel frattempo, dalle parti di Belgrado avevano iniziato a farsi vedere emissari dei più importanti club d'Europa. La Fiorentina si muove meglio di tutti: «Corvino, che era venuto più volte per vedermi giocare, mi invitò a Firenze, con la mia famiglia, a scoprire la nuova realtà. Il direttore mi fece anche entrare negli spogliatoi, per farmi sentire subito un giocatore viola: lo fece appositamente in un orario in cui non era previsto l’allenamento, per evitare di incontrare gli altri giocatori. Con sorpresa invece trovammo Liverani e Donadel, che erano lì per le cure, e ci fu un attimo di disagio».
Nonostante i paragoni impegnativi e le lusinghe delle grandi squadre, lo Jovetic che si presenta a Firenze appare molto timido, sembra un ragazzo qualsiasi, che nelle partite con gli amici vuole imitare i calciatori più in voga del momento. «Non vedo l'ora di segnare il mio primo gol e di fare come Kaká. Esultare con le due dita al cielo, come lui», ammette candidamente nel corso della prima stagione in viola, in cui il suo talento si intravede soltanto. A Fiebre Maldini (programma della spagnola Canal+, da cui tra l'altro scopriamo come abbia imparato la lingua di Cervantes, ovvero guardando telenovelas latinoamericane) spiegherà: «C'è una grande differenza tra il calcio serbo e quello italiano, soprattutto tatticamente. All'inizio non conoscevo i movimenti, non sapevo cosa fare in campo, a volte mi perdevo». Dall'annata successiva dimostra di aver trovato la bussola, specie nelle notti europee.
Nella gara d'andata dei preliminari di Champions League la Fiorentina aveva pareggiato 2-2 a Lisbona. Al ritorno si trova sotto 0-1 prima della decisiva rete di Jovetic.
Gli basta un solo tocco di palla per far capire di essere un giocatore speciale agli spettatori del Franchi: uno stop che è al contempo una finta di tiro e un dribbling; il marcatore si sbilancia e gli apre lo spiraglio per far passare il destro sul primo palo. La Fiorentina è ai gironi della massima competizione continentale.
C'è la firma di Jo-Jo anche nella più bella serata della storia recente dei "Gigliati", una doppietta contro il Liverpool (la sua vittima prediletta) con cui non fa rimpiangere lo squalificato Gilardino, dimostrandosi partner credibile di Mutu. C'è tanto Jovetic anche nell'ultima amara gara di quella Champions: Gila presente, Mutu assente, lui va comunque a segno due volte. La Fiorentina batte in casa il Bayern Monaco 3-2, ma deve dire addio alla Coppa per via del 2-1 subito all'Allianz Arena (con rete di Klose allo scadere, per di più in fuorigioco).
Negli anni a seguire, la Fiesole l'ha visto crescere davanti ai suoi occhi, lasciandosi incantare dal suo dribbling sinuoso, dai suoi tiri a giro, dalle sue visioni. L'ha visto assumere un allure modaiolo, con un taglio di capelli più corto e una discreta armatura di muscoli sotto la divisa sociale («Troppa palestra, forse» disse scherzando quando, dopo aver mancato un'occasione da rete, per stizza si strappò la maglia, in un'imitazione quasi perfetta di Hulk Hogan). L'ha visto maturare tecnicamente e tatticamente, sempre più vicino alla porta, sempre più presente sul tabellino dei marcatori.
Un'ordinaria domenica al Franchi. Il modo in cui sblocca il risultato è da virtuoso del pallone: viene incontro alla rimessa, ma all'ultimo momento lascia sfilare la sfera alle sue spalle; senza nemmeno toccare la palla è riuscito a inchiodare la difesa e procurarsi lo spazio necessario per il tiro.
Su quel prato Jo-Jo svolazzava leggiadro, agganciando in scioltezza palloni che piovevano dal cielo, accarezzandoli con la suola, cercando i compagni con passaggi di prima intenzione. A volte si estraniava dal gioco, ma da un momento all'altro poteva decidere la partita.
Il rapporto tra lui e Firenze subisce una profonda lacerazione a causa di un'intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport: «Sono giovane e ambizioso, è normale che possa sentire il bisogno di misurarmi altrove. Non credo ci sia nulla di male nel desiderarlo, e non faccio come altri che fanno casino dietro e poi non si espongono. Firenze e i tifosi viola mi hanno sempre chiesto di metterci la faccia: eccola. Ho bisogno di stimoli altrove, ho bisogno di consacrarmi in un top club». Che in quei giorni sembrava la Juventus: «Da un anno mi cercano, dicono che vogliono me, che nella loro lista vengo prima di Ibra, Tévez e Higuaín. Chi non sarebbe lusingato? Io lo sono, e non credo sia un tradimento ammetterlo». E nonostante le reazioni avvelenate, probabilmente i tifosi viola non l'hanno percepito come un tradimento, perché tra loro e Jovetic l'Amore, quello vero, non è mai sbocciato. I fiorentini, che per cliché sono sanguigni, al di là di qualche notte di passione, non hanno mai percepito il montenegrino come uno di loro.
I' bua
In molte, troppe interviste rilasciate da Jovetic nel corso degli anni si parla di infortuni da superare, di traumi lasciati alle spalle, di periodi di convalescenza.
Fa tenerezza sentirgli dire a Viola Channel: «Come regalo di Natale voglio guarire, poi il resto arriverà», con una voce non ancora da uomo e la sua abitudine di tirar fuori la lingua nell'attimo in cui prende fiato. Doveva ancora subire il suo infortunio più grave, la rottura del legamento crociato del ginocchio destro, che gli fece perdere tutta la terza stagione fiorentina.
Tornato in campo, ha iniziato a essere martoriato da problemi muscolari che ciclicamente si ripropongono. A Firenze ironizzavano sulla sua fragilità soprannominandolo "I' bua". Ai tempi di Manchester (dove ci sono state partite in cui ha lasciato il campo una decina di minuti dopo il suo ingresso) sul web spopolava l'hashtag #wheresjovetic per condividere fotomontaggi che lo ritraggono nei panni di un giudice di linea a Wimbeldon, ad Abbey Road con i Beatles, o dietro al bancone di un McDonald's.
«Non ho potuto fare la preparazione per intero», ha detto per giustificare gli infortuni nella prima stagione oltremanica, «e stavo combattendo col mio fisico. Quando sono andato a giocare con la Nazionale ero ansioso di dimostrare il mio valore, così mi sono spinto al limite fino a infortunarmi». L'anno dopo, nella stessa situazione se l'è presa col fato e con la densità d'impegni che riserva il calcio inglese: «So che la gente dice che sono sempre infortunato ma è stato difficile soprattutto per me negli ultimi 18 mesi. Sono stato molto sfortunato. Altri giocatori subiscono infortuni, anche perché in Inghilterra secondo me si gioca troppo».
Ci sono state anche stagioni in cui il corpo di Stevan non ha sofferto più di tanto, come l'ultima a Firenze, in cui ha giocato 39 partite (impegni col Montenegro compresi) per un totale di 3264 minuti. All'Inter si augurano che ciò possa diventare la norma, ben sapendo che un giocatore del talento puro di Jovetic poteva essere pagato (relativamente) così poco (15 milioni in tutto) solo per via della sua pregressa tendenza a occupare l'infermeria.
Finalmente Mancini
I destini di Jovetic, dell'Inter e di Mancini si erano già incrociati più volte. I tre fanno conoscenza nell'estate del 2007, a Bolzano, dove i nerazzurri e il Partizan si sfidano in amichevole: il montenegrino colpisce un palo e spesso riesce ad andar via agli avversari. Piero Ausilio, allora responsabile del settore giovanile, chiede informazioni, con l'approvazione dell'allenatore jesino. La squadra di Belgrado, però, è disposta a cederlo solo dalla stagione successiva.
Contro l'Inter, Stevan ha segnato una delle sue reti più belle, nell'ultimo campionato fiorentino: prima esegue un'impercettibile finta di colpo di tacco, sufficiente per ritardare la chiusura di Ranocchia (un po' la traslazione sul rettangolo verde della finta di passaggio dietro-schiena con cui i playmaker si fanno largo nelle aree NBA), poi scarica un tiro a giro che lascia Handanovic fermo.
È la prima di due reti nel complessivo 4-1 sulla squadra di Stramaccioni.
Intanto Mancini aveva provato a portarlo anche a Manchester, ma quando il ragazzo di Podgorica firma col City il tecnico era già stato sollevato dall'incarico. Finalmente i due hanno la possibilità di lavorare insieme. Ma dove e come vuole farlo giocare Mancini?
Nel corso della preseason, prima e dopo la firma del montenegrino, gli esperimenti tattici sono stati innumerevoli. Ma indipendentemente dal modulo, va sottolineato come, per il solo fatto di avere Jovetic in campo, l'Inter guadagni una fonte di gioco. Il nuovo numero 10 nerazzurro ama venire a prendersi il pallone dal centrocampo, chiedere l'uno-due, alzare il ritmo con tocchi di prima, cercare il passaggio risolutivo e saltare l'uomo (ha un primo passo abbastanza esplosivo, ma non la forza per mantenere a lungo la velocità sviluppata in partenza). Tutti elementi che dovrebbero servire da antidoto alla banalità della manovra d'attacco vista nelle ultime stagioni al Meazza. La sua capacità di trovare la porta sia dall'interno dell'area che dalla distanza potrebbero aiutare anche a risolvere un altro problema dell'Inter dello scorso anno, cioè la bassa percentuale di conversione delle opportunità di rete create (solo 42 gol su 326 occasioni).
Le sue doti di rifinitore. Nella seconda stagione a Firenze era un giocatore capace di sfornare più 2 passaggi-chiave a partita.
In attesa della chiusura del mercato, il 4-3-1-2 è il modulo che sembra adattarsi maggiormente alla rosa attualmente a disposizione di Mancini. L'ultima opaca stagione di Palacio, anche per via dei problemi fisici, e il suo avvicinarsi ai 34 anni, fa pensare che Jovetic verrà impiegato principalmente come seconda punta al fianco di Icardi.
Già con Mihajlovic, poi stabilmente con Montella e a volte anche con Pellegrini, Jo-Jo è stato schierato come punta centrale insieme ad attaccanti mobili quanto o più di lui. Un falso nueve—vista la capacità di svariare, venire incontro e aprire spazi agli incursori—dotato del fisico e di alcuni istinti da nueve genuino (rivedere il secondo gol in Fiorentina-Liverpool per referenze). Una posizione che Jovetic, che pur potrebbe migliorare nella freddezza sotto porta e nel colpo di testa, non disdegna affatto; del resto, i suoi idoli d'infanzia erano Mijatovic (a cui si deve la passione per il numero 8), Batistuta («sul cellulare avevo i suoi gol») e Shevchenko. In assenza di Icardi (e di un suo ipotetico sostituto), la coppia Palacio-Jovetic sarebbe un'opzione più che credibile.
Sembrerebbe più complicata da un punto di vista dell'equilibrio difensivo la convivenza dei tre, con Jovetic in posizione di trequartista, a meno di grande spirito di sacrificio e della presenza alle loro spalle di un centrocampo estremamente dinamico e/o votato all'interdizione.
Il grafico mostra le zolle di campo più calpestate da Jovetic in una partita giocata al fianco di Dzeko (contro il Wigan nella League Cup 2013/14), esemplificativa della sua predisposizione a svariare soprattutto sul centro-sinistra.
E se arrivasse Perisic (o un giocatore dalle caratteristiche simili)? Appare piuttosto improbabile che, in una stagione senza coppe europee, uno dei due sia stato voluto per sedersi in panchina, o ancor di più per mandarci il capocannoniere in carica Icardi. Mancini deve avere in testa un modo per farli convivere. Il croato è sì un giocatore che si trova a suo agio nei pressi della linea laterale, ma nel 4-2-3-1 che gioca al Wolfsburg è solito svariare molto, scambiando non di rado la posizione col trequartista centrale. Soprattutto è dotato di grande generosità e prestanza atletica, che gli permette di interpretare al meglio entrambe le fasi. Jovetic, di contro, in qualunque posizione venga schierato, viene spesso a ricevere il pallone sulla fascia sinistra, per poi accentrarsi, magari arrivando a concludere col prediletto piede destro. I suoi tagli verso il centro, però, iniziano piuttosto distanti dalla porta, poco dopo la ricezione; sostanzialmente non arriva mai sul fondo. Quando la palla ce l'hanno gli altri, invece, non è uno di quegli attaccanti indolenti che si rifiutano di adempiere ai propri compiti di copertura, ma non sembra abbia la resistenza fisica per difendere con la continuità richiesta a un esterno.
Due accorgimenti che potrebbero contribuire a far funzionare il tridente:
- In fase d'attacco, la sovrapposizione costante del terzino sul lato di Jovetic (presumibilmente il sinistro), così da non regalare una fascia agli avversari. Forse non è una coincidenza che l'Inter stia provando ad acquistare proprio un esterno basso di spinta (pare che il preferito di Mancini sia Clichy, con cui, tra l'altro, Jo-Jo ha mostrato una buona intesa nei frangenti in cui sono stati impiegati insieme al City);
- In fase difensiva, l'arretramento di Perisic (o chi per lui) sulla linea dei centrocampisti; tutti, ovviamente, devono avere la prontezza di scalare con i giusti tempi. Com’è naturale sarebbe più facile evitare sbilanciamenti con un 4-3-2-1, piuttosto che con un 4-2-3-1 (sebbene in precampionato si sia visto soprattutto quest'ultimo modulo), a meno che sulla fascia opposta giochi un altro uomo più predisposto al sacrificio, facendo slittare Jovetic nella casella di trequartista centrale.
Innamorarsi di nuovo
Undici minuti non è il tempo in cui era mediamente in campo col Manchester City, ma il titolo di un romanzo di Paulo Coelho che Jovetic ha letto nel corso del secondo campionato in Italia e che attualmente figura come "libro preferito" sul suo sito ufficiale. È un romanzo di sesso, ma anche di amore.
Di amore Jovetic aveva parlato, con una frase un po' fuori dal personaggio, a metà del primo anno in Inghilterra: «Ho avuto prima un problema, poi un altro, ma questo è il passato e io non voglio pensare al passato. Conosco il mio valore e so che i tifosi mi ameranno». L'amore che, ad esempio, la gente del Partizan gli ha dimostrato in occasione della sua ultima partita in Serbia: i compagni lo abbracciano, il pubblico applaude, uno scalmanato invade il campo, si dimostra disposto a tutto pur di avere la sua maglia e, ottenuto il trofeo, gli molla un gran bacio sulla guancia.
La giovane protagonista della storia di Coelho, ripensando a uno dei primi amori, scrive sul suo diario: «Come può scomparire tanto rapidamente la bellezza che c'era pochi minuti prima?». Jovetic non può rassegnarsi all'idea che la bellezza del suo calcio sia prematuramente finita, che gli anni migliori della sua carriera siano già passati, sepolti da una valanga di infortuni.