“Le persone tendono sempre ad innamorarsi di me
Penso soprattutto perché sono basso e un ragazzo normale”
Isaiah Thomas
Serendipity
Per spiegare che tipo di scintilla sia scattata tra i Boston Celtics e Isaiah Thomas nel momento in cui la 60esima scelta nel Draft 2011 ha scoperto di essere stato scambiato da Phoenix servirebbe un film romantico, di quelli che si facevano una volta, prima che il mondo diventasse così cinico e spietato. Ma, essendo questo un articolo, ci affidiamo al suo racconto su The Players’ Tribune:
«Era la prima volta che giocavo a Boston, ero con la squadra solo da tre partite e uscivo ancora dalla panchina. Quando ho fatto per la prima volta ingresso in campo, ho sentito questa scarica elettrica riempire il palazzo. Quando mi sono alzato per entrare in campo l’intero palazzetto si è alzato insieme a me, e sono tutti impazziti. Era la prima volta che giocavo al Garden e mi hanno tributato un’ovazione come se fossi un Celtic da tutta la vita».
Ci sono coppie sposate da trent’anni che non hanno vissuto neanche per un minuto questa liberatoria sensazione di abbandono tra le braccia dell’amato che Isaiah vive ogni volta che mette piede sul parquet del TD Garden. I più romantici per descriverlo usano il termine serendipitità (o serendipidevolezza); Kate Beckinsale davanti ad una coppa di gelato affogato la descrive come “un fortunato incidente”. Ora immaginiamo che dietro l’altra coppa di gelato non ci sia John Cusack ma Danny Ainge e che questa conversazione si svolga a poche ore dalla chiusura della trade deadline. In un clima da Vietnam, tra i tweet di Woj che esplodono come granate e gli accordi che si succedono con ritmo marziale, mentre tutti si sono distratti dall’affaire Goran Dragic, Ainge si intromette con risoluta abilità nello scambio tra Phoenix e Detroit e riesce ad assicurarsi il playmaker tascabile che tanto voleva.
Sembra un affare da poco, di quelli che si fanno all’ultimo secondo mentre impazza la frenesia dei saldi. Invece è l’ultimo atto di una lunga rincorsa. «Isaiah è un giocatore dinamico, capace sia di segnare che di costruire per i compagni, è un aggiunta perfetta ad un backcourt con Marcus Smart e Avery Bradley» dichiarerà Ainge alla stampa ad operazioni concluse. I suoi più stretti collaboratori giurano di averlo sentito sussurrare “amo l’odore del Naplam, sa di vittoria”.
Mentre Ainge si muove silenzioso in tuta mimetica, Isaiah è dentro il bus dei Suns. Sono ancora fermi, Goran Dragic ha appena salutato tutti, preso il borsone e messo su gli occhiali specchiati, pronto per Miami Beach. Isaiah sta già sognando i minuti in più che giocherà ora che lo sloveno è destinato ad altri lidi. Il suono metallico delle notifiche lo sveglia bruscamente, il più veloce è Brandan Wright, seduto un paio di file avanti a lui: «I.T. sei stato appena scambiato con Boston». Sempre Kate Beckinsale, davanti alla medesima coppa di gelato, affermava: “Gli incidenti non esistono, c’è sempre il destino dietro”.
Isaiah incontra Ainge pochi giorni dopo, durante la visita annuale all’Arco Arena di Sacramento, vale a dire il palazzetto che era casa sua fino alla stagione precedente. È uno di quei primi appuntamenti in cui inizialmente si rimane in silenzio, quelli in cui sai già tutto della persona che hai a fianco ma eviti di fare la prima mossa perché ti sei già fatto milioni di film in testa e hai paura di farti male. Ad un certo punto però, pur di non vedere giocare i Kings, si comincia con le frasi di circostanza, tipo “ma davvero questi ti hanno lasciato andare a gratis per prendersi Darren Collison?” (true story). Isaiah sorride e annuisce. Poi, mentre si è in pieno garbage time, Danny si gira verso il suo nuovo pupillo e dice «Isaiah… il modo in cui giochi a basket ti farà diventare una leggenda dei Celtics». Così, come si sussurra tra le lacrime un non ci lasceremo mai mentre la colonna sonora impenna in un trionfo di violini. Sono frasi sbilanciate, volutamente iperboliche, che gli sceneggiatori inseriscono sapientemente per farti svoltare il San Valentino. Però Isaiah è uno degli ultimi veri romantici e ci casca con tutte le Jordan. A volte è bello chiudere gli occhi e buttarsi senza rete.
L’esordio in maglia C’s è allo Staples Center contro i Los Angeles Lakers, la rivalità NBA per eccellenza, amplificata dal fatto che il padre di Isaiah, nato e cresciuto in California pur vivendo a Tacoma, nello stato di Washington, lo ha iniziato fin dalla culla al culto gialloviola — tanto che per una scommessa aveva deciso di chiamare il figlio Isiah come il Thomas dei Pistons, giungendo poi al compromesso con la moglie aggiungendo una “a” per renderlo biblico. Isaiah, durante l’estate 2014, aveva lanciato messaggi di amore – non corrisposti – verso i Lakers. «Sono stato sottoposto ad un lavaggio del cervello» ripete spesso, «Kobe era il mio idolo, avevo la sua maglietta autografata in camera».
Bryant questa volta non c’è, alle prese con l’ennesimo infortunio alla spalla e Thomas, uscendo dalla panchina, segna 21 punti. Ma a cinque minuti dalla fine, con i suoi sotto di quattro, viene espulso per doppio tecnico per essersi lasciato andare dopo una discutibile chiamata di passi. Rientra nello spogliatoio a testa bassa, pensa di aver tradito subito il suo nuovo pubblico. Incrocia un preparatore atletico di Boston.
«Man… I tifosi dei Celtics ti ameranno»
«Abbiamo appena perso per colpa mia, e tu dici che mi ameranno?»
«Oh yeah, man. Hai segnato 21 punti e ti sei fatto espellere nella tua prima partita? Boston ama questo tipo di cose».
Neanche il tempo di riflettere sulle parole profetiche del massaggiatore — che poi scomparirà in mille lustrini come i vecchi saggi dei film Disney tipo Maestro Oogway — subito l’NBA offre un riposante back-to-back. E visto che gli sceneggiatori sono i migliori sulla piazza, si vola a Phoenix. «Non ci sono hard feelings tra me e i Suns» dice Isaiah. La versione cestistica di “proviamo almeno a rimanere amici”. Poi però si scende in campo e le cose cambiano.
Gioco da quattro punti, recupero e lay-up acrobatico, tiri liberi per la ceralacca. Tutto negli ultimi due minuti di gioco. Amici mai.
Quando incroci la tua ex in corridoio
Lasciato per sempre il deserto dell’Arizona finalmente si atterra a Boston. È la prima volta ma è come se la conoscessi da sempre. Dentro al TD Garden l’atmosfera è surreale: una marea verde attende IT fin dal primo riscaldamento. Meno di una settimana prima era seduto in un bus fermo a Phoenix, ora tra le canotte sbiadite con dietro il 33 di Bird e quelle un po’ più nuove con il nome di Pierce comincia a spuntarne anche qualcuna con il numero 4 — scelto perché i numeri che ha indossato in carriera, il n.22 e il n.3, sono appesi al tetto del palazzetto insieme ai nomi di Ed Macauley e Dennis Johnson. Un numero già utilizzato da un altro figlio di Seattle, il suo amico Nate Robinson, del quale Isaiah aveva già indossato lo stesso numero un’altra volta, ai tempi di Washington University.
Poi ha cominciato anche ad andarci in vacanza insieme
La partita è contro New York, il perfetto sparring partner per una notte da passerella. I Knicks ci provano pure, ma verso la metà del terzo quarto beccano un parziale da 24 a 2 (!!!) che trasforma gli ultimi minuti in una celebrazione dei nuovi acquisti: Jonas Jerebko, che ne mette 20, e ovviamente Isaiah Thomas.
L’emozione è tanta e l’inizio non è dei più esaltanti («Non riuscivo a mettere un tiro»), poi grazie anche alla difesa da Washington Generals dei Knicks Thomas si scioglie e si prende tutti gli applausi del suo nuovo pubblico. Dirà poi: «Subito dopo essere stato scambiato con Boston mi è arrivato un messaggio da Isiah il Vecchio [sì, l’Hall of Famer, ndr] che diceva: “QUESTA È LA COSA MIGLIORE CHE SIA MAI SUCCESSA NELLA TUA CARRIERA. Finalmente capirai cosa significa giocare in una vera organizzazione [sorry Kings 🙁 ] e i tifosi si innamoreranno di te”».
Ora che ha vestito la leggendaria canotta con il quadrifoglio al Garden dice: «Giocare per Boston è un esperienza per la quale non ti puoi preparare, la capisci solo quando la vivi».
Sotto la spinta del loro Pizza Guy, Boston chiude la stagione regolare al settimo posto a Est. Isaiah segna 19 punti di media in 26 minuti, tutti uscendo dalla panchina, un rendimento che lo proietta in seconda posizione nella corsa al premio di Sesto Uomo dell’Anno, dietro solo a Lou Williams. I playoff sono una novità per il roster di Boston, visto che dieci giocatori sono alla prima esperienza a cui si aggiunge anche coach Stevens. La serie con i Cavs è una learning experience, ovvero un secco 4-0 con dieci punti di scarto di media per incontro.
Alta Fedeltà
Gli amori che bruciano rischiano di spegnersi velocemente, quindi Isaiah decide di lasciare la relazione respirare e risale la corrente fino a Seattle, insieme a tutti i giocatori della città che tornano ad allenarsi in offseason. Si torna all’Università di Washington e alla ProAM, ai pick-up games che hanno rappresentato la sua infanzia. Isaiah inserisce nel suo tour una fermata nel luogo più spirituale della città dello smeraldo, la tomba di Bruce Lee.
Bruce, lui sì che capiva le donne
Nessuno saprà mai cosa si sono detti i due in quell’incontro, ma quando Isaiah torna a Boston è visibilmente cambiato. I tifosi se ne accorgono ma non dicono nulla: sarà una fase, pensano. IT invece non ha alcuna intenzione di tornare indietro. Ainge dichiara di vederlo ancora come un perfetto sesto uomo, una scintilla dalla panchina, e lui non la prende bene. Litigano in cucina, i vicini sentono il suono di qualche piatto in frantumi. Vuole rompere il cliché secondo il quale tutti i giocatori sotto il metro e ottanta sono dei giocattolini che servono a far divertire il pubblico. Isaiah invece ha lavorato una vita intera per poter competere ogni giorno con gente a cui arriva ai fianchi. Lui non vuole essere amato dal pubblico perché è come loro, vuole essere il loro leader.
Essendo arrivato in piena stagione, l’impatto con l’organizzazione è stato travolgente ma allo stesso tempo asfissiante. I ritmi a cui ti sottopone la regular season consentono al massimo di lavorare su qualche aggiustamento qua e là, figuriamoci cambiare un sistema di gioco. Quindi quando Isaiah entrava in campo si giocava un pick and roll e gli si lasciava carta bianca di inventare. Ora, dopo l’estate passata a lavorare con allenatore e compagni, questo ruolo comincia ad andargli stretto. L’attacco di Boston si regge quasi esclusivamente sulle sue scelte palla in mano e non capisce perché quella palla non dovrebbe averla dal primo minuto di gioco. Entrare a metà primo quarto gli sembra come uscire dalla porta di servizio quando rientra il marito.
Non vuole più essere l’amante, vuole sentire lo speaker chiamare il suo nome tra i titolari, a five foot nine guard from Washington University… Vuole che il suo pubblico renda ufficiale il fidanzamento. Ma nonostante le richieste del loro giocatore simbolo, la dirigenza preferisce non spezzare il rapporto magico che si era costruito la scorsa stagione e lascia le cose come sono. Boston vince la prima partita (contro Phila) ma perde le successive due. Brad Stevens, che con Isaiah ha sviluppato un rapporto simbiotico basato esclusivamente sull’amore per il gioco, capisce che è tempo di portare la relazione ad un livello diverso e lo promuove in quintetto. È l’anello di fidanzamento.
Con Isaiah dal primo minuto i Celtics alla pausa per l’All-Star Game scolpiscono un 32-23 che garantisce un comodo terzo posto a Est. È un risultato inaspettato per una squadra che dovrebbe essere in piena ricostruzione per puntare su qualche appetitosa scelta ai prossimi Draft. Invece i ragazzi di Stevens giocano ogni partita con il coltello tra i denti, fregandosene di ogni tentazione di tanking e costruendo una cultura vincente basata sul prendersi continue rivincite.
A guidarli è colui che più di tutti vive con la pressione addosso di dover dimostrare di meritare ogni minuto sul parquet, e in molti si accorgono che se li merita davvero. Si comincia a formare un fronte comune, che parte da Boston e arriva fino nella natìa Seattle, per sponsorizzare la candidatura di IT per l’All-Star Game di Toronto. In prima linea ovviamente tutti quelli che hanno tatuato “206” sul corpo, a partire dai suoi mentori Jamal Crawford, Nate Robinson e Jason Terry, fino ad arrivare al suo sponsor Numero Uno, Floyd Mayweather. E quando si ha “Money” al proprio angolo la sconfitta non è un’opzione.
La love story tra Isaiah e Mayweather, scoccata durante un concerto di Robin Thicke, merita una trattazione a parte, per ora accontentatevi di un esempio dell’Instagram di Nate Robinson.
La sera in cui può esibire davanti al suo pubblico la canotta numero 4 che indosserà nel weekend a Toronto ci sono i Clippers in città: stimolato dallo scontro diretto con CP3, Thomas gioca una delle migliori partite della sua carriera, si prende la squadra sulle spalle e guida una furiosa rimonta conclusa con successo nei supplementari. Ai microfoni dichiarerà «Siamo un gruppo di ragazzi che sono stati sottovalutati per tutta la loro carriera e usiamo questa benzina per far girare il nostro motore». Isaiah è il loro profeta.
La Isaiah Mania supera velocemente i confini della Bean Town, del Massachusettes e degli States. A Toronto, tre giorni dopo, diventa il primo Celtics a giocare in un All-Star Game dall’epoca dei Big Three, il secondo sotto il metro e ottanta dopo Calvin Murphy nel 1979 a scendere in campo tra i ventiquattro migliori giocatori dell’anno.
Il trionfo dell’amore sull’odio e l’invidia. È una rivincita, ma non ha il sapore della vendetta. Non sembra essere rivolta contro qualcuno in particolare se non contro le stesse leggi biofisiche del gioco. La struttura di Isaiah non è adatta al basket, ma lui se ne frega e gioca comunque. Non è più l’underdog, è il giocatore per cui si va allo stadio.
“Voglio che le persone dicano: Wow, mi piace vedere Isaiah giocare”
Ma anche in Canada, con la sua bella casacca biancoblu con il 4 cucito in rilievo, Thomas è per prima cosa un Celtic: ad ogni intervista nel weekend ci tiene a precisare quanto il contesto sia stato fondamentale e che il suo non è altro che un premio al duro lavoro di tutta la squadra.
La coesione del gruppo è l’ingrediente magico dello stregone Stevens. La prestazione che definisce al meglio lo spirito del gruppo “No Ego, No Beef” coniato da Isaiah è rappresentata da quella con cui fermano la striscia di vittorie dei Golden State Warriors all’Oracle Arena, che andava avanti da 53 partite. Boston è la prima a sconfiggere i Dubs non solo sul loro campo ma anche sul loro terreno, ovvero sfruttando le armi che solitamente la squadra della Baia usa per mettere alle corde i propri avversari. Ritmo folle, grande applicazione difensiva ed esecuzione sotto pressione.
Dopo un primo tempo contrassegnato da errori forzati da ambo le parti, con Curry costretto a sette palle perse, appena i giocatori tornano in campo per il terzo quarto la partita esplode. Steph segna due triple in meno di un minuto, infiammando il pubblico di casa. Ma nel momento in cui Golden State lancia il suo “quarto d’ora granata” (cit.), Isaiah, che non aveva segnato un singolo punto nel primo tempo, ribatte colpo su colpo. I suoi 18 punti nel quarto tengono in linea di galleggiamento Boston, che nel concitato finale riesce ad eseguire meglio ed esulta appena la tripla non contestata di Curry sbatte sul ferro.
«Ho cambiato le scarpe all’intervallo, quelle di prima non avevano canestri dentro» dichiarerà poi in pieno stile Isaiah
I Celtics chiudono la stagione con un record di 48-34, a pari merito con Hakws, Hornets e Heat, ma a causa della classifica avulsa, sono sesti.
Le prime due gare ad Atlanta sono un disastro completo. In Gara 1, dopo essere sprofondata nel primo tempo a -19, Boston torna a contatto sul rettilineo finale prima che Avery Bradley venga costretto ad uscire dal campo aggrappato alle braccia dei suoi compagni di squadra. Stiramento, serie finita. Cosa c’è di peggio di una serata in cui tiri 12/52 nella prima frazione? Segnare 7 punti di squadra nel primo quarto, ad esempio, peggiore prestazione dei C’s nei playoff da quando è stata fondata l’NBA. Isaiah ci mette del suo, segna 16 punti con 15 tiri e contribuisce al 18% da tre che sacrifica Boston a una lunga processione di stoppate dei lunghi di Atlanta.
Sotto due a zero, senza il loro miglior difensore perimetrale e perfetto complemento a I.T., Boston torna in Massachusetts con la speranza di allungare la serie tra le mura amiche ma senza avere le giuste contromisure per inceppare i meccanismi di Coach Bud. La cronica incapacità dei verdi di aprire il campo dall’arco li costringe infatti a sfidare Atlanta del pitturato, dove il confronto tra i lunghi è ancora più impari. Per far esplodere le trincee degli Hawks l’unica scintilla può arrivare dal loro All-Star, che al Garden viene accolto come il Salvatore.
Contro una difesa costruita unicamente per ingabbiarlo, Isaiah mette sul parquet quell’incoscienza tutta Seattleite che ti porta a giocare sui playground cittadini in pieno inverno, a prendere (e mettere) i tiri che pesano una stagione e a caricarsi sulle spalle l’orgoglio di un’intera città. Isaiah, davanti al pubblico che lo invoca, non delude mettendo su un personalissimo show circense: IT scappa costantemente alla guardia dei suoi avversari come nei cartoni animati, con una studiata coreografia di giravolte, acrobazie al ferro, prove di astuzia e test di velocità che illustrano ma non spiegano come può un giocatore che non raggiunge il metro e ottanta decidere singolarmente uno scontro di playoff.
Ma come fai, dimmelo tu, col tuo pallone a volare lassù