Vi siete mai chiesti dove si trova, in quel pentagono sghembo che è la Francia, la città di Lille? Nessuno se lo chiede mai dove si trovano le città, se non si finisce per caso a doverci andare, come è successo a noi. Lille si trova a pochissima distanza dal Belgio, più o meno a metà di quella linea di confine tanto famosa che i tedeschi hanno attraversato per ben due guerre mondiali. È così vicino al Belgio che quando ci siamo posti il problema di come arrivare, un aereo low cost per Bruxelles è sembrata subito la soluzione più logica. Noi siamo finiti a Lille perché qui l’Italia ha affrontato l’Irlanda.
Andare fisicamente a seguire l’Italia significa anche passare per un aeroporto di Bruxelles, uno dei simboli della nuova idea di attentato terroristico in Europa, e soggiornare a Lille, città ospitante di diversi incontri degli Europei, oltre che di diverse risse tra hooligans, e quindi a rischio in quanto tale.
Il rischio, più che una reale preoccupazione – l’idea di poter finire in un attentato mi è parsa sempre quasi astratta, impossibile per definizione – è stato un rumore di sottofondo nella nostra organizzazione. Tirato fuori prima dagli amici in maniera scherzosa, poi dai parenti in maniera ansiosa.
Il fatto che l’Italia abbia già superato il girone, e che sia già prima, ha reso questa partita ininfluente per noi su qualsiasi piano sportivo, spostando le nostre attenzioni dalla partita in sé all’esperienza partita della Nazionale. Qualcosa da cui non sapevamo davvero cosa aspettarci.
Nei primi giorni di torneo i tifosi irlandesi avevano già vinto lo scettro di tifoseria più simpatica d’Europa. Avevano già vinto il premio dei più romantici, cantando una serenata per una bella ragazza francese, che li ha poi ricompensati con un bacio. Avevano vinto il premio dei più divertenti, dedicando un’orgia di cori a uno sconosciuto signore francese di mezza età su un balcone, dimostrando un’ironia quasi grottesca. Avevano vinto il premio dei più dolci, cantando una ninna nanna a un neonato sulla metro. Avevano vinto il premio dei più politicamente corretti, tributando canzoni a suore e polizia francese. Avevano camminato fianco a fianco con gli storici nemici nord-irlandesi, ballato insieme ai belgi e ripulito le piazze cantando “clean up for the boys in green”, vincendo infine anche il premio di tifosi più eco-friendly.
I tifosi italiani avevano invece vinto il premio dell’anonimato. Dalla tv sembriamo sempre pochi e tristi, dei piccoli presepi di stereotipi nazionali, delle piccole tribù di migranti con la valigia di cartone. Sempre surclassati nel numero e nell’entusiasmo dalle tifoserie avversarie. Sia contro il Belgio che contro la Svezia rappresentavamo dei puntini anonimi e scoordinati, sparsi nello stadio quasi solo per spezzare le armonie cromatiche rosse e gialle.
Volevamo capire qualcosa di questi tifosi di cui personalmente non ho mai capito nulla, forse perché il mio tifo per la Nazionale rappresenta una forma minore e sbiadita del tifo per la mia squadra del cuore. Forse perché da fuori questi tifosi sembrano avere logiche meno codificate, meno radicate dentro un’identità quotidiana rispetto a quelli dei club.
Cosa c’è dietro il mistero dei tifosi italiani? Perché sono così pochi? Perché sono così strani? Come si chiamano? Da dove vengono? Sono persone normali, che vivono in mezzo a noi ogni giorno, o esistono solo in quanto tifosi della Nazionale?
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All’aeroporto di Bruxelles l’intensità del grigio circostante fa impressione. Grigio è il cielo, grigie sono quasi tutte le strutture e le palazzine spettrali abbarbicate attorno all’aeroporto; grigie le strutture, la segnaletica, i mattoncini a vista di un autolavaggio. Come grigie sono le cravatte dei burocrati europei e l’aria cupa dei militari, discreti ma presenti.
L’uniformità cromatica è rotta dalle prime maglie verdi, dalle bandiere e dai trifogli irlandesi che iniziano a spuntare come detriti di una festa che si sta svolgendo altrove. I primi irlandesi che incontriamo corrispondono così esattamente all’immagine tipo del tifoso irlandese – faccia rubiconda, cappello verde gigante e peloso, aria allegra ai limiti del molesto – che sembra uno scherzo. È appena mezzogiorno e sono seduti sugli sgabelli dei brutti bistrot dell’aeroporto con una birra media davanti, un pugno poggiato sui fianchi, preoccupati solo di godersi il cuscino di tempo che li separa dalla partita. Se prima di partire mi avessero chiesto di disegnarli li avrei fatti così. Avvicinandoci al pullman sentiamo un grido forte dietro di noi: “FABIOOOOO! ABBAAASHHH!”. Il primo tifoso italiano che vediamo non ha la maglia dell’Italia ma quella del Foggia.
Nel viaggio verso Lille, mentre attraversiamo pianure piene di minuscoli paeselli gotici, tutti dormono. Gli irlandesi dormono per prepararsi a sostenere i loro beniamini impegnati nella rincorsa di uno degli ultimi posti validi negli ottavi, gli italiani dormono perché non c’è nient’altro da fare. Tutta l’ansia per la partita è incarnata da un singolo tifoso italiano che passerà tutto il viaggio in piedi a leggere il giornale. In mezzo al corridoio del pullman, con la t-shirt da bancarella con scritto ITALIA, sembra stare nel salotto di casa sua. Un agio nel prendere possesso degli spazi pubblici che appartiene forse solo agli italiani.
Il pullman raggiunge il cuore di Lille semplicemente facendo una curva all’improvviso, e tutto quello che si apre davanti a noi sono palazzi, palazzi pieni di ferro e vetro. Questo pezzo di Nord-Europa, afflosciato tra Copenaghen e Parigi, si somiglia tutto. Il cielo ha la stessa tonalità di grigio sfinito, l’architettura attorno alla Gare de Flandre ha lo stesso stile high-tech. Siamo a Lille, ma potremmo essere in qualunque altro posto scolorito del mondo, per quell’idea mondiale secondo la quale tutto ciò che circonda una stazione centrale deve essere insignificante, il vestito adeguato ad i colletti bianchi che la vivono ogni giorno.
Scesi dal pullman un ragazzo corre verso una tifosa dell’Italia. Indossa una maglia azzurra, ha gli occhi scuri e i capelli mori come ci possiamo immaginare una tifosa della Nazionale su di un cartellone pubblicitario. A differenza dell’archetipo della tifosa da copertina, lei indossa un cappello veramente molto brutto. È una specie di sombrero bianco rosso e verde ricolmo di fettucce rosse alla cui fine si trovano dei campanellini dorati. Non sembra avere nessun appiglio nazionalistico, né tradizionale, che lo giustifichi. L’unica giustificazione possibile è che il tifo inibisca quella parte del nostro cervello deputata al controllo del limite.
La passione con cui si abbracciano, quella con cui si baciano per quasi un minuto, è così più intensa di quella mostrata dai tifosi italiani in queste prime partite che non possiamo non fermarli e fargli raccontare la loro storia, perché si rincontrano qui, quasi in Belgio, per seguire la Nazionale italiana.
Sono, ovviamente, una coppia. Molto giovani, originari della Basilicata come Zaza, lui vive e lavora a Catania, mentre lei fa lo stesso, ma a Parigi. Hanno deciso di ritrovarsi a Lille, un po’ perché lei ha fatto l’Erasmus qui, un po’ perché tengono alla Nazionale. Ed è questo l’aspetto più particolare: quando gli chiediamo se tifano una squadra di club rispondono che no, seguono solo gli azzurri. Sembrano un romanzo rosa di Liala ambientato nel 2016, uno in cui l’orgoglio per la Nazionale italiana riunisce ciò che l’Italia, con tutte le sue problematiche attuali per i giovani, ha diviso.
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Scendendo dalla Gare de Flandre ci si para davanti una gigantesca scritta EURO 2016, come se quelle quattro lettere rappresentassero l’unico motivo per stare lì. Lille è invasa dall’universo visivo degli Europei, dalle sue grafiche rosse e blu, dai suoi omini stilizzati dalle forme morbide, dalle sue brevi musichette martellanti in filodiffusione. Dopo USA 94, le estetiche dei tornei hanno finito per somigliarsi tutte, formando uno standard artificiale e mondializzato. Frutto dell’attenzione dei grandi organismi internazionali nel negoziare fra le varie estetiche per ottenere un grado di asetticità pressoché perfetto.
Attorno alla metro vediamo raccolti i tifosi irlandesi che hanno anticipato drasticamente il pre-partita, rischiando di collassare con troppo anticipo. Bevono Kronenbouerg da 25 cl, vino rosè caldo del Carrefour e birre medie tiepide spillate dalle brasserie gonfie di gente.
Lille si è staccata dalla Francia, unendosi alla geografia astratta di Euro 2016, a cui la Francia fa da mero supporto fisico.
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Puntiamo dritti ai nostri alloggi, sfruttando la misura ridotta del centro città. In pochissimo tempo lasciamo il bagaglio leggero, ci coloriamo di azzurro come chiesto da Conte e ci rifocilliamo. Giusto il tempo per scoprire che è scoppiato davvero un allarme bomba allo stadio. Il nostro air b’n’b è a Wazemmes, un quartiere popolare non lontano dal centro, che negli ultimi anni ha conosciuto una forte gentrificazione. Nonostante questo, arrivando dalla Gare de Flandre, sembra di aver cambiato paese. Sembra di essere passati dal mondo delle identità a quello delle differenze: ci sono macellerie halal, boulangerie, spacciatori, bistrot pieni di studenti, birrerie artigianali, bambini che escono da scuola. In questo spicchio di città gli Europei arrivano sotto forma di maglie verdi che, più discretamente che altrove, prendono possesso dei bar.
Dopo questo primo, sommario giro della città, il rapporto tra tifosi irlandesi e italiani sembra all’incirca di 50 a 1.
Quando ci spostiamo di nuovo verso il centro nevralgico delle operazioni il rapporto è diventato di 500 a 1.
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Nel giro di un’ora Lille è diventata completamente verde. Se i tifosi italiani hanno avuto bisogno della strigliata di Conte per sposare svogliatamente i colori nazionali, con gli irlandesi questo problema non si è mai posto nella storia. Verdi sono le maglie che tutti indossano, verde il loro quadrifoglio, verde la loro festa nazionale, verdi – ci viene da credere – anche i loro cuori. Sono tutti radunati in una grande piazza in stile gotico-rinascimentale nei pressi della stazione di Lille Flandres, che riconosco subito come protagonista degli scontri tra gli hooligans inglesi e la polizia dei giorni precedenti. Oggi la polizia quasi non si vede, ci sono solo irlandesi a perdita d’occhio: hanno completamente invaso la piazza con una marea di cori, birra e urina.
Un tipo uscito direttamente da David Copperfield.
Mancano ancora cinque ore alla partita e non riusciamo davvero a credere che qualcuno di loro ci possa arrivare vivo. In tutto questo gli italiani rappresentano meno della famosa sparuta minoranza: sembrano un glitch nel sistema, una punta blu in un mondo completamente verde. Sempre in gruppi di massimo tre o quattro persone, si scambiano sguardi d’intesa tra loro, ma non familiarizzano, non sembrano condividere nessun codice comune, neanche nel linguaggio.
Proviamo ad approcciarci a loro con la delicatezza che va riservata agli animali selvatici a rischio estinzione. I primi che puntiamo sono un gruppo di cinque ragazzi trentenni tutti con la maglia nuovissima di quest’anno, che sembra disegnata su misura del loro fisico palestrato. Sono in piedi a un angolo della strada, in una via più nascosta, di fronte a una birreria sventrata, e fischiano divertiti a tutte le ragazze che passano.
Partecipare agli Europei è soprattutto un pesante confronto con gli stereotipi nazionali. Hanno le barbe curate, il pettorale bene in vista, gli occhiali Carrera bianchi. Non so se è per effetto del contrasto, ma non credo di aver mai visto italiani così italiani neanche in Italia. Eppure quando ci parliamo ci dicono di essere nati a Londra, da genitori migranti, provenienti da Avellino, dalla provincia di Cosenza, da quella di Potenza. Non riesco a immaginare quanto abbiano lavorato su sé stessi per aderire così perfettamente alla loro idea di Italia.
«Noi nati in Inghilterra ma sangue sempre italiano». Parlano tutti una strana lingua ferma a un punto indefinito tra il dialetto calabro e l’inglese, uno slang che si è impastato nei pranzi e le cene a casa, nelle sporadiche visite alle famiglie d’origine. Uno di loro ha invece l’accento milanese perché ha lavorato a Milano un anno, pur avendo i genitori nati a Praia a Mare. Gli chiediamo se stanno seguendo in giro per la Francia tutte le partite dell’Italia e ci rispondono con un quasi offeso «Vedi tu…». Scopriamo che hanno già seguito l’Italia a Euro 2000 e ai Mondiali del 2006. Sono dei veri tifosi della Nazionale: «Diciamo che italiani che stanno qua non sono di Italia. Sono di Inghilterra, Belgio, Francia, Germania», quando gli chiediamo un loro parere sulla cosa hanno le idee chiare: «Non c’è orgoglio. Guarda qua, tutti irlandesi, è na vergogna». Secondo loro incide la situazione economica? No: «Ah non ci stanno i soldi?! E i soldi per anda al bar però ci stanno». Si tratta di quel tipo di persone che da ubriachi sentono il bisogno di spostare sempre il discorso sulle donne, su quanto sono belle le donne, su quanto gli piacciono le donne, e così via. Così in qualche modo arriviamo a chiedergli il perché ci sono così poche donne all’Europeo: «Nel calcio vuoi vede anche le donne?! Forse tu vedi un calcio diverso, vedi che bordello che c’è nel calcio?! E tu vorresti anche le donne, e magari anche i bimbi?! Non esiste!». Prima di andare via ci lasciano con un ammonimento: «La situazione del tifo in Italia è uno schifo, non è giusto, vedrai che figura di merda faremo stasera».
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Tutte le città che ospitano gli Europei contengono nel loro ventre una “Fan Zone”, un’area con un maxi-schermo, stand degli sponsor e mini-campetti da calcio con le porte strette e basse. Per entrare bisogna passare quattro perquisizioni e una volta dentro il confronto con la piazza è sconfortante: al clima gioioso e picaresco della grande famiglia irlandese, la fan zone risponde con una burocratizzazione del tifo. Tutta l’area sembra approvata a colpi di timbro da qualche solerte impiegato della UEFA direttamente dal suo stanzino di Nyon. Non c’è niente che esprima l’idea universale di tifo, come se volessero far passare il messaggio che gli Europei non sia una competizione per tifosi, ma un grande intrattenimento collettivo come può esserlo un blockbuster holliwoodiano. Come se il tifo della Fan Zone stesse al tifo nella piazza come il turismo di massa sta al viaggio.
Dentro troviamo mischiato qualche abitante di Lille che segue svogliato la partita delle 18 sul maxi schermo più grande che vedrà in vita sua, o che gioca nei campetti allestiti, totalmente monopolizzati dai ragazzini delle seconde generazioni nord-africane. Hanno i completini originali più vari e toccano la palla con la suola un numero irragionevole di volte.
È lo scenario che ci immaginiamo in ogni grande torneo internazionale, quello che forse contribuisce a spersonalizzare queste competizioni, a risucchiare le diverse identità Nazionali dentro un apparato di luoghi comuni rassicuranti. Forse è questa atmosfera, questo tono sintetico, a far sembrare tutti questi tifosi dei turisti dello sport. L’ostentazione dei simboli nazionali più consumati è continua e quasi incredibile. Gli irlandesi indossano cappelli ridicoli a forma di boccale di birra; alcuni italiani, addirittura, si fanno fotografare con un cartone di pizza attorno alla faccia. Non si capisce bene quale sia il confine tra l’auto-ironia e una forma divertita di orgoglio nazionale.
Immagini forti.
La frase che più spesso sentiamo ripetere, quando si parla di nazionale, è che l’Italia ha 57 milioni di CT, ma è davvero giusto che sia così? Che il rapporto tra noi tifosi e chi indossa la maglia sia così unidirezionale? È giusto fare i maestrini verso atleti che – per quanto enormemente privilegiati – tolgono tempo alla propria vita personale per difendere i colori della Nazionale, quando poi il loro unico supporto è fatto da Erasmus coi soldi di papà e figli dei figli degli italiani emigrati in giro per l’Europa?
La Fan Zone è l’unico luogo della città in cui i rapporti di forza tra italiani e irlandesi sono invertiti. Cogliamo allora l’occasione per capire chi sono, venendo investiti da un’ondata di positività che distrugge il nostro nichilismo da millennials.
Qui a Lille, per la prima volta, abbiamo sentito parlare solo bene della Nazionale. Il campanilismo che da sempre guida i nostri giudizi verso questo o quel giocatore, per quei pochi che si prendono la briga di seguire la Nazionale non esiste. Bonucci è “un grande”, Pellè “si sbatte ed è forte”, Giaccherini è “un vero idolo”, ci dice, senza nessuna ironia, un ragazzo di Treviso juventino. Se ne va spavaldamente in giro con la maglia del “Giak”, fascia di capitano al braccio (quella sì, forse un po’ ironica).
Anche quando non giocano bene è importante essere positivi, e tutti quelli che sentiamo sono ottimisti per la partita con la Spagna. Il motivo di questo tifo risiede forse nella loro minoranza quotidiana: cresciuti in famiglie che hanno vissuto sulla loro pelle la difficoltà di essere un migrante, sentono fortissimo l’orgoglio di essere italiani, molto più di chi in Italia ci vive. Per certi versi non sono così diversi dai tanti ragazzi che girano per le strade francesi con la maglia dell’Algeria.
Le 4 migliori interviste ai tifosi
- I newyorkesi
Sei ragazzi del Queen’s, New York, nati da emigranti irlandesi. Erano talmente ubriachi da guardarci come visioni stupende e spaventose. Tranne uno di loro, vagamente somigliante a Sam Tarly, che aveva la polo dell’Arsenal. Quando ha saputo che uno di noi era juventino ci ha detto con mente algebrica: «Liam Brady! Irish>Arsenal>Juventus». A un certo punto uno di loro apre una birra con i denti, e un tipo paonazzo e quasi completamente sdentato gli fa «Non si apre con i denti, si apre con l’accendino!».
- Lo sperduto
Un diciottenne romano, liceo Giulio Cesare, Corso Trieste, arrivato a Lille da solo per guardare la Nazionale. Ma non allo stadio, nella Fan Zone. Non sono sicuro sia riuscito a spiegarsi.
- La famiglia
Mamma, papà e due figli piccoli. Tutti di Genova, con le facce pitturate col tricolore e la bandiera del Genoa vicina a quella dell’Italia. Stanno seguendo gli azzurri dalla prima partita ed è chiaro che per il figlio piccolo, forse 12 anni, è tipo un’esperienza magica. È lui l’esperto di calcio e ci dice subito: «Mi sono fatto i calcoli. Se vinciamo con la Spagna giochiamo matematicamente con la Germania», come se la partita con la Spagna fosse di fatto già vinta. Gli chiediamo se è fiducioso per la partita contro la Spagna, e ci risponde come se non vivessimo sul suo stesso pianeta: «Sìììì ehhh… L’unico problema è la Germania che quelli ci mandano subito a casa». Si dice rammaricato dell’esclusione di Pavoletti («Più forte di Zaza e Insigne è») e il suo giocatore della Nazionale preferito è Giaccherini.
- Il milanista
Un tipo con la maglia di Montolivo, belga, di origini italiane, tifoso del Milan e dell’Italia. Gli chiediamo perché ha una maglia di Montolivo, ma lui è più che altro sorpreso dalla nostra domanda. Gli spieghiamo che Montolivo è molto criticato in Italia, lui fa una faccia metà disinteressata, metà disgustata: «Io sono milanista e Montolivo è il mio capitano».
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Se non puoi batterli, unisciti a loro. Ed è questo che fanno i tifosi italiani nel percorso verso lo stadio, che facciamo anche noi che dovremmo raccontarla questa differenza tra tifoserie che però si esaurisce nel fatto che una è una tifoseria e l’altra no.
Gli italiani si impegnano nel cercare il consenso degli irlandesi, cantano i loro cori, dividono la strada con loro, si fanno partecipi del loro entusiasmo nella speranza che sia contagioso, che all’improvviso dal nulla si crei una muraglia azzurra uguale e contraria a quella verde. La realtà è che questo atteggiamento è utile solo a creare un bellissimo clima di fratellanza, annullare le residue spore negative del tifo per creare una festa: la festa degli irlandesi alla quale noi siamo ospiti. Il tragitto verso lo stadio è come l’ultimo chilometro di una maratona: ci sono quelli che non fanno altro che cantare stand up for the boys in green sulle note di Go West dei Pet Shop Boys, ci sono francesi furbi che vendono birra di scarsa qualità a prezzi altissimi, ci sono quelli che mangiano hamburger arrostiti su griglie di fortuna.
C’è sempre più gente, una folla che esplode ai piedi dello stadio Pierre Mauroy, eccezionalmente con il tetto chiuso, chissà perché. A differenza di tutte le altre partite a cui ho assistito, non c’è un filo di tensione. Proviamo a chiedere qualcosa ma dopo un pomeriggio di birra e prima della partita si è in quel momento in cui articolare dei pensieri sembra completamente inutile. Quando chiediamo a un gruppo di italiani perché siamo così pochi uno di loro indica un altro e fa: «Perché non è venuto suo fratello». Tutti scivolano verso gli ingressi sfatti, come lasciandosi trasportare da scivoli immaginari di birra. Tutti tranne un signore veneto sulla cinquantina che, bloccato in fila, esprime un’indignazione generica senza bersaglio: «È uno schifo. Un vero schifo. L’organizzazione è pessima. Pessima!».
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Dentro lo stadio, prima della partita, rientriamo in pieno clima UEFA. Ripartono le musichette martellanti di origine occulta, le grafiche spente, gli spettacoli pre-match dei bambini, ancora più grotteschi dallo stadio a causa del loro senso tutto televisivo.
Le ritualità del riscaldamento pre-partita, di solito accompagnate solo da un brusìo distante che somiglia a un silenzio, non sembrano avere niente di religioso. A un certo punto dai maxi-schermi parte addirittura una love cam in stile NBA: per chi non la conoscesse, una coppia viene inquadrata per tutto lo stadio con attorno una cornice a cuore. È questa a regalarci la metafora più facile: una bionda ragazza italiana viene inquadrata, bellissima, tutta sola. La telecamera prolunga l’inquadratura e l’imbarazzo generale, tutti che pensano “ma dai, perché nessuno la bacia?!”, e poi arriva un ragazzo irlandese a raccogliere l’onere, e a darle un bacio sulla guancia.
L’autenticità dello spettacolo della curva irlandese fa da controcanto a tutto questo artificio. Rispetto al settore degli italiani non sembrano solo di più: sembrano più fitti, serrati, molteplici. Fatti di una pasta diversa. Saltano e cantano tutto il tempo, hanno un sacco di cori fantasiosi e vagamente surreali. Hanno anche ripreso il coro dei nord-irlandesi su Will Grigg adattandolo su Shane Long: Your defence is terrified, Shane Long’s on fire. Una proposta per i tifosi italiani che andranno a vedere gli ottavi, negli stadi o nelle piazze: Your defence is terrified, Zaza’s on fire. Pensate a quanto avrebbe senso.
Abbiamo dei posti in tribuna molto vicini, da dove il calcio è praticamente un altro sport. Facciamo ancora più fatica a seguire il gioco forse per disabitudine, perché la fruizione televisiva, la sua inquadratura standard, ci ha imposto una sola via per guardare e capire un campo da calcio. In fondo pensavamo che la terra era piatta anche perché le mappe ce la rappresentavano così.
La bruttezza della partita va oltre ogni aspettativa. Le squadre non sembrano avere nessuna intenzione di imbastire una singola azione, ma pensiamo che sia un nostro problema percettivo, dei posti vicini. Solo dopo la partita, a casa, scopriremo l’assurdo dato di partita con meno passaggi completati di tutto l’Europeo. Un Europeo peraltro non proprio spettacolare, diciamo.
Si sente bene il rumore del pallone, l’odore delle scivolate, si nota la leggerezza anti-agonistica con cui i calciatori abitano il campo da gioco. Da così vicino è anche molto chiaro quanto sia difficile per un giocatore dell’Italia giocare il pallone. In possesso le distanze sembrano scientemente strampalate, e chi ha il pallone non ha mai una linea di passaggio pulita.
Quando l’azione parte dai difensori il centro del campo si svuota come fosse abitato da un flusso magnetico contrario. L’Italia così sembra disposta a ovale, tutta attorno alle righe del campo. Le soluzioni di passaggio ricercate sono cervellotiche e quasi casuali. Il livello tecnico complessivo è sconfortante: seriamente, non credo ci fosse alcuna differenza tra il nostro e quello degli irlandesi. L’idea che arrivi un gol è remotissima.
Solo i nostri difensori sembrano avere un altro livello rispetto al resto dei giocatori. Si nota bene, da così vicino, il dinamismo di Barzagli, il suo posizionamento del corpo sempre impeccabile, il suo tempismo anche nel gioco aereo. Affrontarlo deve essere un vero incubo.
Quando entra Darmian al posto di Bernadeschi sembra che Conte ci stia trollando. È il momento preciso in cui capiamo quanto sia suicida decidere di andare a guardare le partite della Nazionale. L’emotività della partita del pubblico italiano può essere ridotta a quella finestra di dieci minuti in cui Insigne ha incendiato il campo. I tifosi italiani gli hanno tributato tre cori – gli unici della partita – e si riusciva a respirare un certo magnetismo ogni volta che entrava in possesso.
Nei minuti finali il gol di Brady è stato in fin dei conti una soddisfazione. Un sollievo al terribile stato di atarassia in cui eravamo piombati. A quel punto abbiamo almeno potuto godere della felicità degli irlandesi, davvero, indescrivibile.
Al fischio finale il tipo accanto a me, un irlandese di mezza età, ha le mani in testa: non ci crede.
Lui.
Piange a dirotto, mi abbraccia zuppo e mi ringrazia non so per cosa. Vi giuro, un abbraccio che è valso l’intero viaggio.