Con la palla tra i piedi Sergio Busquets non è particolarmente creativo e non ha un piede molto sensibile nei lanci lungi. Senza palla il suo corpo è un problema: ha un baricentro troppo alto per poter andare in tackle in modo efficace, è troppo lento per difendere all’indietro e in fase di difesa posizionale la sua scarsa attitudine a marcare lo rende un problema per la sua squadra. In più, è alto ma è un pessimo colpitore di testa.
Sergio Busquets ha giocato nel ruolo meno congeniale a un calciatore con questi difetti: davanti alla difesa, dove stanno il regista o il mediano. E nonostante tutto, è riuscito a diventare uno dei giocatori più influenti del calcio contemporaneo. In un certo senso, Busquets è un mistero nella sua semplicità. Capire ciò che lo rende speciale significa penetrare a fondo gli abissi più essenziali del calcio.
Riconoscere la grandezza
Busquets compensa col cervello e l’intuizione la poca mobilità senza palla, intervenendo in anticipo sulle linee di passaggio prima ancora che la lentezza diventi un fattore. Col pallone mette le proprie gambe da fenicottero a disposizione della squadra, per far circolare palla a una velocità costante che permetta alla squadra di riordinarsi e sviluppare la trama offensiva. La missione calcistica di Busquets ha qualcosa di religioso: rendere più facile il lavoro degli altri.
Se volessimo riassumere Sergio Busquets in una gif.
I pregi e i difetti di Busquets sono talmente marcati da renderlo un giocatore speciale fino all’unicità. Se fosse nato in un tempo e in un posto diverso da Barcellona all’alba dell’era Guardiola, probabilmente non sarebbe neanche diventato un calciatore professionista. Ma il fatto che un giocatore dalle caratteristiche così definite sia nato nel posto giusto al momento giusto è ciò che ha permesso al Barcellona e alla Spagna di raggiungere, anche grazie a lui, l’apogeo della propria filosofia calcistica. Un momento molto alto nell’espressione di un’identità su un campo da calcio.
Eppure non è facile riconoscere questa centralità a Sergio Busquets, che dopo dieci anni di carriera giocati a livelli celestiali è ancora ricordato soprattutto per la simulazione contro l’Inter.
Con la palla che scivola verso il fallo laterale Motta la difende allargando la mano verso il viso di Busquets, che all’impatto crolla a terra. Mentre si rotola a terra apre un secondo le mani, mostrando l’occhio consapevole verso le telecamere. Un momento iconico, degno di Alfred Hitchcock.
Il fatto che Busquets abbia messo in bacheca sei campionati, quattro coppe del Re, tre Champions League, un Mondiale, un Europeo e una decina di titoli minori, non può evitarci il discorso sul suo fair play, centrale nella sua immagine. L’episodio contro l’Inter, in fondo, è solo la punta dell’iceberg. Dopo di quello Busquets non ha fatto nulla per togliersi l’etichetta di giocatore scorretto. Simulare, fare falli scorretti, provocare, usare il trashtalking fa parte dello stile di gioco di Busquets. Con l’idea sottintesa che “si gioca come si vive”, ci fa impressione che un calciatore che gioca in modo così elegante possa comportarsi in modo così sporco.
Per questo quando si parla di Busquets il discorso, prima o dopo, finisce su topos del gioco scorretto. Fa specie, quindi, che nelle poche interviste che gli sono state fatte, non gli è mai stato chiesto di questa parte del suo gioco. Senza sue dichiarazioni dirette, bisogna scavare più in profondità per provare a capire questi comportamenti: alla sua storia personale e alla sua attitudine in campo.
Dall’oro non nasce niente, dal letame nascono i fiori
Giocare per gli altri è forse il principale talento naturale di Busquets, ma anche probabilmente qualcosa che ha imparato a fare. Senza doti calcistiche appariscenti, giocando da centravanti, Busquets fu scartato dal Barcellona. Nonostante suo padre, Carles, fosse stato portiere nel Barcellona di Johann Cruyff e ancora collaborasse per il club, non deve essere stato facile.
A quel punto ha dovuto iniziare la propria peregrinazione nell’inferno delle squadre della periferia catalana: Badia, Barberà, Lledia, Jàbac Terrassa. Man mano arretra il proprio raggio d’azione finché, a 16 anni, nel 2005, gli osservatori del Barcellona convincono la squadra a prenderlo. Giocando a centrocampo, il DNA blaugrana comincia a venire a galla e il club lo fiuta.
La foto è del 1994, periodo in cui Carles è il portiere titolare del Barcellona. A sinistra si riconosce Sergio, a destra invece Aitor, diventato calciatore tra i dilettanti. Qui invece Busquets da adolescente sempre con il padre accanto ma non più a Barcellona.
È paradossale: Busquets è letteralmente cresciuto nell’ambiente del Barcellona, ma ha iniziato a diventare un calciatore allontanandosene. Cercando di sopravvivere in ambienti dove è essenziale sapersi arrangiare, anche giocando sporco. Nei campi in terra dietro alla maglia tiene scritto solo “Sergio” per non passare da “figlio di” e diventare un bersaglio ancora più chiaro per gli avversari.
È forse in questi anni che Busquets ha imparato la sua maestosa protezione del pallone sotto pressione, ma anche il valore del gioco sporco. L’idea cinica per cui ogni mezzo è legittimo per sovrastare l’avversario. Xavi, volendogli fare un complimento, dice che: «”Busi” è il giocatore più da strada che abbiamo in squadra». Questo certo per la padronanza con cui accarezza il pallone in spazi ristretti, per lo stile spigoloso con cui usa il corpo, ma anche per i messaggi esterni che vuole continuamente lanciare. Per l’istinto a ingaggiare duelli psicologici, anche ben oltre il regolamento.
Per cogliere le sfumature del gioco da campetto di Busquets spesso bisogna ricorrere a telecamere esclusive.
Ma oltre alla sua formazione, ci deve essere anche qualcosa di più profondo che porta Busquets ad apprezzare il gioco sporco. Quando parla di sé stesso ama definirsi come un eroe altruista: «Sono un giocatore di squadra che deve lavorare tanto e sacrificarsi per il successo del gruppo». Busquets parla come se avesse sacrificato sé stesso, e pezzi di sé, per permettere agli altri di spiccare. Andare al di là del lecito, se lo si fa per gli altri, allora può diventare legittimo, persino giusto.
Per un giocatore arrivato a realizzare il proprio sogno tardi, solo passando dalla porta di servizio, esiste forse il bisogno di dover continuamente dimostrare la propria utilità. Cosa che forse porta Busquets alla totale noncuranza di ciò che sia giusto o sbagliato pur di dare un piccolo vantaggio in più alla propria squadra, alle stelle di cui si sente una semplice spalla. Da qui una certa impermeabilità alla fama: Busquets non rilascia quasi interviste, parla controvoglia in conferenza stampa, non cambia taglio di capelli, non ha nessun account sui social.
Per quanto Busquets sia indispensabile per far brillare il sistema, la coscienza – persino esagerata – dei propri limiti lo ha portato immolarsi, calcisticamente e a livello di immagine, per il bene del sistema.
Lo Spazzaneve
Busquets è un continuatore della giocata, il suo lavoro è far muovere la palla con la stessa velocità con cui gli è arrivata. Non è in campo per fare cose belle o creative, ma solo giuste e precise: col piede giusto, nel tempo giusto, alla velocità giusta. In un’intervista a El País riassume il suo gioco a un livello elementare: «Lavoro per offrire soluzioni alla squadra, questo è il mio gioco». È possibile riconoscere la partita perfetta di Busquets quando non risalta in nulla, raggiungendo un livello di trasparenza totale tra sé e il sistema.
È uno spirito zen paradossale per un giocatore così incline ad andare sopra le righe. Ma la forza mentale di Busquets è meno banale di come la si vuole far passare. Anche Guardiola, quando deve cominciare a parlare di lui, lo fa approcciando l’aspetto psicologico: «Apprezzo la sua umiltà. (…) il fatto che sappia vivere senza dover essere il protagonista. Sa che i suoi compagni sanno che senza di lui non potrebbero fare molte delle cose che sono in grado di fare». Poi descrive in poche parole la presenza tecnica ieratica di Sergio Busquets: «Ha la pausa, ha la tranquillità, mantiene l’equilibrio tattico».
Non è difficile capire perché Guardiola intendesse insistere, appena arrivato in prima squadra, su un ventunenne sconosciuto. Perché lo vedesse così perfetto per condividere il campo con le tre stelle principali del suo sistema: Xavi, Iniesta e Messi, che hanno disegnato il rombo centrale su cui si è innalzata la cattedrale del Barcellona di Guardiola.
Per un caso più unico che raro, le tre stelle della squadra corrispondevano a tre giocatori sommamente associativi. Il risultato è la nascita di un sistema basato su questo stile di gioco. Busquets, con i suoi imbarazzanti difetti e i suoi intangibili pregi, era il moltiplicatore perfetto per potenziarli, mettendosi sempre a disposizione, ricucendo con rammendi invisibili le smagliature del sistema.
Nel giro di un anno “Busi” è passato dalla terza serie con il Barcellona B a una finale di Champions League giocata da titolare.
Sarebbe un grave errore però considerare Busquets il regista di quel Barcellona. La regia di quella squadra era in realtà spostata più avanti, nella casella della mezzala destra occupata da Xavi. Non è un contesto tattico da sottovalutare per capire come ha fatto Busquets a trovare subito terreno fertile.
Interpretare come un “correttore”, un “continuatore”, il ruolo di vertice basso è qualcosa di originale che va ascritto al genio di Busquets. La sua forza è stata quella di elevare alla perfezione – ossessiva, autistica – il ruolo che in Spagna definiscono “parete”: colui che costruisce triangoli facendo da terzo uomo o restituendola a quello di partenza; un giocatore che possiede un istinto innato ad andare in pressione con il giusto tempo. Un giocatore che aiuta il possesso con calma, e che aiuta la riconquista con aggressività. Due caratteristiche che non combaciano con l’ideale classico del regista: una posizione in cui creare pareti può risultare ridondante ed essere aggressivi in pressione rischioso, perché porta a seri problemi di posizionamento se la squadra non è compatta e non difende alta.
Non è certo per capriccio quindi che proprio Guardiola l’abbia scelto per giocare in quella posizione davanti a chi, come Yaya Touré, gli era superiore in tutto. Il giorno dopo il suo debutto, nel suo articolo settimanale sul Periodico, Johann Cruyff gli dedica una menzione: «Dal punto di vista tecnico è superiore a Touré e Keita. Senso della posizione da veterano. Con e senza palla. Con la palla ha reso facile il difficile: far muovere la palla a uno o due tocchi. Senza palla altra lezione: situarsi nella posizione giusta per intercettare e recuperare correndo il giusto. E questo essendo giovane e inesperto».
Quando Cruyff parla di tecnica si riferisce a qualcosa di specifico: alla tecnica “per il sistema”. Sebbene Yaya gli sia superiore in tantissimi aspetti tecnici del gioco – conduzione del pallone, conclusione in porta, colpo di testa – Busquets sa fare meglio di lui le due cose che servono in quel momento al Barcellona: far correre il pallone a terra con meno tocchi possibili e resistere alla pressione avversaria senza lasciare la sua posizione e squilibrare il centro del campo. Una vera ode al minimalismo.
Ad essere pignoli, poi, Busquets non ha neanche una protezione del pallone così varia. Il suo sembra un gesto mutuato dal futsal, che diventa efficace soprattutto grazie alle sue lunghe leve: invita la pressione avversaria e poi, spostando palla con la suola, manda a vuoto il tackle. Un gesto che, in perfetto stile Busquets, risulta sobrio e molto semplice da eseguire.
Un movimento che non ha neanche un nome come quelli di Iniesta o Xavi, ma che risulta altrettanto efficace. Non solo per rimanere in possesso, ma anche per permettergli di mettersi il campo davanti per la prossima giocata.
Anche la sua aggressività senza palla si è incastrata alla perfezione con il sistema di Xavi, Iniesta e Messi. Se Busquets si avvicinava a loro per fare da braccio meccanico, quando la palla veniva persa era già lì per recuperare palla senza doversi muovere più di tanto. L’avversario già si trovava nella sua zona, davanti alla bocca del leone. La reattività con cui saliva in pressione nelle giovanili ora gli permetteva fare un passo e allungare la gamba per riprendere palla.
Busquets si impone nel Barcellona perché è il sistema stesso a chiederlo. La stessa dinamica di qualche anno prima, quando Cruyff aveva messo le mezzali alle spalle della seconda linea di pressione avversaria, e allora aveva inserito Guardiola davanti alla difesa: perfetto nel saper difendere la posizione e unico giocatore in grado di far filtrare la palla dietro quella linea.
I dubbi attorno a un giocatore ritenuto troppo lento e troppo poco fisico per poter giocare davanti alla difesa, sono stati insomma dissipati dal sistema stesso. Cruyff lo ha spiegato più volte con l’esempio della stanza: «Se io devo difendere questa stanza da solo, sono un disastro, tutti entrano da tutte le parti; se invece io devo difendere solo questa sedia, allora sono il migliore». Se c’è attenzione alla posizione da parte del collettivo ecco che automaticamente c’è equilibrio, quello che fa la differenza è la distanza che c’è tra i giocatori in campo: «Se non puoi correre, devi trovare la posizione» diceva sempre Cruyff.
Un modo semplice per far passare un messaggio complesso: se “prevenire è meglio che curare” allora il modo migliore per recuperare la palla non è correre per il campo ma trovarsi nella posizione giusta al momento giusto, inghiottendo nella propria zona di campo il giocatore in possesso. Una cosa che somiglia più alla pesca che alla caccia.
Quindi il giocatore davanti alla difesa deve pensare più a sé stesso che alla palla: il cervello fa la differenza quanto le gambe. Busquets è proprio l’incarnazione di quell’idea: non a caso è il migliore quando si tratta di difendere una porzione di campo ristretta ed è invece un giocatore normalissimo quando si trova a difendere troppo spazio.