Semplicemente Elena
La storia di Elena Delle Donne, la giocatrice di basket più forte del mondo.
Giocatrice franchigia
Nel Draft del 2013 Elena fu la seconda scelta assoluta, dietro il centro di Baylor Brittney Griner. La scelta, come si ricorderà chi seguiva anche solo distrattamente la NCAA femminile dei tempi, non faceva una grinza. E ancora oggi, a livello tecnico, è difficile valutare chi avesse ragione. Delle Donne era stata la protagonista assoluta di una squadra modesta, portandola semi miracolosamente a giocarsela contro avversarie più forti. Ma Griner si era imposta come il centro più devastante di tutta la storia del basket femminile collegiale, prima stoppatrice di sempre — ne rifilò 14 in una partita — e punto di riferimento di una squadra ambiziosa, capace di arrivare al titolo del 2012. L’ultimo a non essere stato vinto dalla Connecticut di Geno Auriemma, sempre lui. Al di là del discorso su chi meritasse la prima chiamata, per Elena finire a Chicago si sarebbe rivelato un affare. All’inizio non mancarono le preoccupazioni: lontana da casa, pagata per giocare, con tante aspettative. E in una città tanto affascinante quanto potenzialmente difficile, soprattutto per chi ha sempre vissuto in posti a misura d’uomo, a continuo contatto con parenti e amici. Il rischio di un nuovo burn out era altissimo, e tornare indietro avrebbe voluto dire smettere per sempre. E invece tutto andò per il verso giusto. «In un Draft decidono gli altri per te. Non sei tu a scegliere, come per il college. È tutto più semplice» disse dopo poche partite della sua stagione da rookie, quando era ormai chiaro che l’esperienza brutale di Connecticut non si sarebbe ripetuta.
Alla sua stagione di esordio, Elena si presentò dalla prima partita come un tipo di giocatrice mai visto prima nella storia della WNBA. La sua completezza offensiva, e soprattutto l’incredibile abilità di giocare indifferentemente dentro, fuori e nelle zone intermedie, la rese immediatamente un enigma indigesto per tutte le difese avversarie. Di atlete dominanti ce ne erano, e ce ne erano state. Ma nessuno aveva mostrato una facilità del genere a fare canestro, abbinata a quella mobilità, e a un’altezza da lungo, più che da esterno. Mutatis mutandis, erano grattacapi difensivi simili a quelli portati da Dirk Nowitzki, a cui Elena stessa si è più volte paragonata. E così, le Chicago Sky passarono da tappetino a mina vagante, forti della giocatrice con più punti nelle mani della lega — Elena, appunto — e quella più solida in difesa, Sylvia Fowles. Delle Donne fu Rookie dell’anno: arrivò il primo posto nella Eastern Conference e con esso la prima qualificazione ai playoff nella storia delle Sky. E non bastò certo l’immediata eliminazione per mano di Indiana al primo turno a lenire l’ottimismo di un ambiente che, dopo anni di mediocrità, sembrava destinato ad aprire un ciclo destinato a durare nel tempo. La stagione dopo andò ancora meglio: nonostante una lunga assenza per una manifestazione acuta della malattia di Lyme con cui Elena deve periodicamente fare i conti, le Sky arrivarono in finale. Elena giocò i playoff in condizioni menomate, tirando avanti a suon di anti-dolorifici. Phoenix, proprio la Phoenix di Brittney Griner, si impose però per 3-0. Seguirono altri due anni sulla cresta dell’onda: nel 2015 arrivò anche il titolo di MVP, praticamente all’unanimità, prima di un’altra solida stagione.
Ma il vero miracolo, al di là delle vittorie, è stato quello di rendere le Sky una squadra con un seguito, e non solo un esperimento di marketing riuscito male. Un compito arduo, se si pensa al peso politico, storico e culturale che hanno i Bulls in città. E se si tiene a mente che Chicago rimane una delle rare città americane ad avere almeno una squadra professionistica in tutti e quattro gli sport maggiori, creando così una mercato vicino alla saturazione. Eppure, emergendo nella doppia veste di fuoriclasse sul campo e personaggio di immagine fuori, Elena è riuscita nell’impresa di far sembrare questa franchigia una parte della città. Con la media WNBA che si è mantenuta tra 7.000 e 8.000 spettatori, Chicago è passata dai 5.000 spettatori di media del 2012, sin lì record per la franchigia, ai 6.960 della stagione quella appena passata, restando sempre sopra ai 6.000 di media (e 100.000 totali) nelle sue quattro stagioni. Un risultato clamoroso, soprattutto se si considera che le Sky giocano alla Allstate Arena di Rosemont, a pochi passi dall’aeroporto. Un palasport vecchio, buio, lontanissimo dai comfort di un’arena NBA. E tragicamente scomodo come posizione, disperso lungo uno dei tratti di rete autostradale a più ampia densità di traffico degli Stati Uniti, con code e rallentamenti a qualsiasi ora del giorno. Domeniche comprese. E così, contro tutti questi ostacoli logistici, l’atmosfera simil-frizzante che si creò alle partite delle Sky era la testimonianza più vivida dell’impatto che Elena ha avuto sulla franchigia. Al pari delle sparute canotte giallo-azzurre che negli ultimi anni si sono iniziate a scorgere lungo le spiagge di Lake Michigan — macchie isolate in mezzo a magliette Bulls, Cubs e Bears, ma segni tangibili che le Sky un fazzoletto di terreno se lo sono finalmente conquistato. Grazie a lei.
Fragile e forte
A Chicago, Elena si è trovata bene da subito. Si presentò con un tweet in cui elogiava la deep dish pizza, primizia gastronomica della Windy City. Una torta salata profonda cinque dita e carica di formaggio fuso e salsa di pomodoro, cotta per 45 minuti in forni da acciaieria. Non il segno di italianità più distintivo, ma certo un apprezzamento gradito verso un piatto altamente contestato, simbolo principe della rivalità tra Chicago e New York. Da lì, tutto sarebbe andato in discesa: gli eventi con Nike, le interviste, le campagne promozionali. Ma pure una routine normalissima nei sobborghi benestanti della città, dove inizialmente andò a vivere con lei Meghan McLean. Prima compagna a Delaware, e poi assistente, manager, autista, consulente nei primi passi della carriera. Venivano a trovarla spesso i genitori e il fratello. Le teneva compagnia Wrigley, l’alano che prese appena arrivata in città, dandogli il nome del celebre stadio dei Chicago Cubs. «Se sono al parco e lo devo chiamare, difficile che gli altri proprietari si confondano» ama scherzare lei. Lo stesso Wrigley ha pure un profilo Instagram, dal quale i fans possono rubare qualche istante nella quotidianità di Elena. 36 mila followers, 180 post pubblicati. E, in bella vista, due contatti: quello al profilo Instagram di Elena; e quello di Eric Kane, la manager della nota agenzia Octagon che gestisce gli interessi e l’immagine di Elena dall’agosto 2015. Una scelta che rientra in un piano più ampio: diventare una star dello sport globale, in stile sorelle Williams. La cui influenza si estende ben al di là della propria lega professionistica.
A 27 anni, nel pieno della maturità agonistica, ha tutte le carte in regola per riuscirci. «Il suo modo unico e globale di giocare è già un modello e un riferimento nel basket femminile mondiale. Ed è un esempio per le giovani per la modestia, la passione e la determinazione con cui affronta le partite» spiega ancora Masciadri. Ma la sua presa magnetica sul pubblico va al di là delle doti tecniche e caratteriali che mostra sul campo: è anche frutto di un equilibrio perfetto tra apparizioni e vita privata, tra presenza pubblica e discrezione. E di una storia personale unica, in cui sono state le sue scelte, più che le circostanze esterne, a dettare il corso degli eventi. «L’attaccamento alla sua città natale non può ne far crescere la stima e l’amore dei suoi connazionali. Viene vista come una fedeltà incondizionata alla terra che le ha dato le origini e alla popolazione che l’ha sostenuta fin da quando era piccola» dice ancora “Mascia”. E così, Elena è emersa come un personaggio fragile e forte, coraggiosamente pronta a mostrare limiti e crepe, a parlare delle proprie debolezze, e mostrando una spontaneità che l’ha sempre fatta percepire come una donna in carne ed ossa, più che come un semplice idolo. La stessa naturalezza è emersa quando, per la prima volta, Delle Donne ha parlato ufficialmente della propria vita coniugale. Accadde lo scorso settembre, in un’intervista a Vogue prima delle Olimpiadi di Rio. «Vennero a casa mia, la mia fidanzata Amanda è una parte fondamentale della mia vita. Non aveva senso nascondere la cosa, o far finta di niente» disse poi a ESPN. «Non si trattò di coming out. Chi mi conosce conosce bene anche Amanda, e conosce la nostra vita di coppia» aggiunse. Si sposeranno ad agosto. E intanto The Knot, celebre organizzazione che pianifica matrimoni, le ha scelte come coppia dell’anno. Un altro passo verso la celebrità mondiale, qualora ce ne fosse bisogno.
Nuova avventura
Voglio esplorare tutte le opzioni a disposizione. Ovvero “non credo proprio di restare”. E così, puntualmente, è andata. Il 2 febbraio arriva l’annuncio ufficiale: Elena viene scambiata con le Washington Mystics, fanno il viaggio inverso di Stefanie Dolson, Kahleah Copper e la seconda scelta al prossimo Draft. Per Elena è un modo di tornare, nuovamente, vicino a casa, almeno per la distanze americane. 180 chilometri, due ore di macchina scarse, Lizzie a portata di mano un giorno sì e uno no. Quasi come al college. Ma le ragioni personali si sommano a quelle tecniche, dopo quattro anni in cui le Sky, pur arrivando una volta in finale, non erano mai sembrate veramente in grado di competere per il titolo.
Le avvisaglie c’erano state sin dalla fine del 2016, quando in un’intervista radiofonica Delle Donne disse, appunto, di voler considerare tutte le opzioni possibili. A partire da quella di spostarsi altrove. Avrebbe affrontato la sua ultima stagione a Chicago da restricted free agent. Era pronta anche a stare lontano dal campo per forzare la mano della propria squadra, come fatto dalla compagna Sylvia Fowles la stagione precedente. Una mossa in apparenza drastica, ma in WNBA è l’arma più forte a disposizione delle atlete per far valere la propria volontà, in un contratto collettivo in cui sono le franchigie ad avere il grosso del potere contrattuale (qui dei dettagli ulteriori, per chi fosse interessato). Dello sciopero però non c’è stato bisogno. Appena aperto il mercato, è arrivato l’annuncio. E così Washington, l’unica squadra a non aver mai raggiunto la finale WNBA da quando la lega è stata fondata nel 1998, si trova improvvisamente catapultata tra le pretendenti, forte della giocatrice perimetrale più pericolosa di tutta la nazione. È un nuovo capitolo di una storia che avrebbe potuto non esserci mai stata. E che ora sembra lontanissima dalla fine.