Re di se stesso
Rui Costa, genio senza eccessi.
In maglia viola trascorse sette stagioni. “Non è giocare per un club, è giocare per una città” continua a dire a distanza di anni. Vinse due coppe Italia e una Supercoppa italiana. Non molto, forse, per la qualità che aveva quella squadra. Eppure il calore sa restituire molto altro. La festa notturna al Franchi, al rientro dopo la conquista della coppa Italia 1996, è qualcosa che appartiene alla memoria di tifosi e giocatori. Come anche la festa d’addio di Rui, dove quasi diecimila persone gli resero e al tempo stesso ricevettero gratitudine. C’è un video di quella festa, mi sembra un documento notevole: fa collocare Rui Costa e quel contesto intero in un calcio che si stava facendo moderno, ma ancora non lo era. O almeno, noi non eravamo pronti.
Il film della vittoria della Coppa Italia 1995/96.
È l’acquisto più caro della presidenza Berlusconi e dell’intera storia del Milan. Ci aveva provato il Parma, sembrava fatta con la Lazio, invece arriva la telefonata di Galliani e cambia il percorso. 85 miliardi di lire, che provano a salvare la società di Cecchi Gori dal naufragio. Cecchi Gori che pochi giorni prima spergiurava: “Macché, lo tengo, è il migliore”. Rui non smentisce che sul suo acquisto abbia pesato anche un’altra telefonata, fatta direttamente da Shevchenko a Berlusconi.
Per il Maestro, salutare Firenze è uno shock. Ha fatto resistenza al pensiero (“Quando ho saputo che la Fiorentina doveva vendere tutti, ero sicuro che la cosa non mi riguardava”), poi si è lasciato andare: “Mi sono sentito male, molto male, ho pianto” racconterà.
Un elemento di continuità è l’allenatore, Fatih Terim, che Rui ha già avuto a Firenze, dov’era stato il primo a concedergli massima libertà di movimento, senza sacrifici. Un modello, per lui: “Se diventassi allenatore vorrei essere come Terim. Crede nei suoi giocatori, sa stimolarli”. Non indugerò ancora sulla simbolicità dei soprannomi, mi limiterò a ricordare che quello dell’attuale Ct turco è l’Imperatore.
Il disordine quotidiano di atleti ordinatissimi: Nesta, Shevchenko e Rui Costa alle prese con un messaggio d’auguri.
A Milano il Maestro troverà le vittorie pesanti che non aveva trovato prima. La Champions League 2003, il campionato 2003/04 e la Supercoppa europea.
Stavolta non ha troppo spazio sul palcoscenico, la squadra ha molta bellezza e più fuoriclasse. Ma come aveva saputo convivere con Batistuta, e anzi si era esaltato al servizio di una stella, così Rui riesce a cantare nel coro del Milan.
In cinque stagioni e quasi duecento partite, si stabilisce un rapporto importante con i tifosi, a dispetto della natura policentrica della squadra. Anche a dispetto di un calcio meno vistoso, da parte sua: un calcio fatto di saggezza e lampi della consueta classe, ma senza troppi assist né gol. Si ricorda bene il mio amico del ’97: “Altra vaga reminiscenza che potrebbe essere falsa: non segnava tanto”.
Quando Rui torna da avversario con la maglia del Benfica, l’abbraccio di San Siro racconta l’intensità di quel periodo assieme.
Il rapporto con l’Italia ha radici ancora vive che continuano a segnarlo. In un programma tv dov’era ospite, hanno dedicato una parte a Rui Costa che parla in italiano. Gli hanno sottoposto lunghe frasi in portoghese e lui le ha tradotte. Questa cosa faceva molto ridere il pubblico e il conduttore, che commentava: “L’italiano è una lingua straordinaria”.
Si era parlato, quest’estate, di un ritorno a Firenze da direttore sportivo. A quarantaquattro anni, il doppio dei ventidue che aveva la prima volta. Non se n’è fatto nulla, ma sarebbe stato anche un bel modo di intrecciare il percorso, ancora una volta, con quello di Paulo Sousa.
Gli anni al Milan. Con tanto di Mozart.
Poi c’è la Nazionale. Una storia non lunghissima ma vibrante, che comincia nel ’93 e finisce con l’amaro Europeo 2004. La sconfitta in finale di una squadra che presentava contemporaneamente lui, Deco, Figo e il diciannovenne Cristiano Ronaldo.
“La mia generazione ha fatto qualcosa di unico” sosteneva Rui Costa nel 2008, quando gli veniva chiesto se avessero raccolto poco. Abbiamo gettato le basi, spiegava, portando la nazionale ad arrivare seconda a Euro 2004, terza a Euro 2000, quarta ai Mondiali 2006. In effetti, otto anni dopo quell’intervista, il Portogallo vincerà il suo primo trofeo internazionale. E oggi si dice “Ronaldo” e si pensa a Cristiano. E c’è un Rui Costa campione del mondo di ciclismo, pure…
La sconfitta in finale con la Grecia, comunque, nell’Estádio da Luz di Lisbona, tra le ultime luci della sua carriera, il Maestro la definirà come la peggiore sconfitta e l’unico rimpianto da calciatore. È anche la gara che segna il suo addio alla nazionale, come già aveva deciso, dopo 94 presenze.
Alle Águias torna per chiudere la carriera: “Una scelta molto sentimentale” ammette. Leggenda vuole che gli abbiano tenuto vuoto l’armadietto che usava da ragazzo, in attesa del ritorno. Nella prima stagione, 2006/07, gioca poco e sembra voler fare un cameo. L’ultimo anno si fa oltre quaranta partite, quasi tutte per intero, con 7 gol e 6 assist.
L’ultima volta in campo, l’11 maggio 2008, ha la dez addosso. Esce tra gli applausi del “Da Luz”, si toglie la maglia e la offre a suo padre, che lo abbraccia davanti alla panchina.
Alle Águias ci è rimasto, da direttore sportivo. Benfica, Lisbona. Le radici hanno per lui evidentemente un’importanza speciale. La casa d’infanzia di Damaia, il luogo che ricorda l’umiltà delle sue origini e che altri magari preferirebbero dimenticare, quella casa lui l’ha acquistata.
Forse non è riuscito a ricevere la corona che spetta a un principe. Non ha vinto il Pallone d’Oro, non ha guidato la sua nazionale a un grande trofeo. Resta e resterà nell’immaginario come un grandissimo, un maestro di calcio, e per qualcuno potrebbe non bastare. Qualcuno a cui l’ossessione della corona può impedire di essere felice. Qualcuno che abusa di una tecnica superiore per ricevere l’acclamazione. Qualcun altro. Perché invece Rui Costa sembra aver seguito le parole di un altro maestro portoghese, Fernando Pessoa: “Siediti al sole. Abdica e sii re di te stesso”.
Tommaso Giagni (1985) ha pubblicato la biografia Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe (minimum fax, 2023) e i romanzi I tuoni (Ponte alle Grazie, 2021), Prima di perderti (Einaudi, 2016) e L’estraneo (Einaudi, 2012). Tra le antologie a cui ha partecipato: Rivali e La caduta dei campioni (Einaudi), Ogni maledetta domenica e Voi siete qui (minimum fax). Collabora con le pagine culturali di «Avvenire», scrive per «Ultimo Uomo» dal 2014.
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