Londra, 2 luglio 2021
Lungo i corridoi del Landing Forty Two la tensione è palpabile. Adam Silver, atteso al quarantaduesimo piano per mezzogiorno, è in ritardo di venti minuti. Tra i reporter presenti cominciano a circolare voci di un possibile rinvio della conferenza stampa: il commissioner è noto per l’ossessiva puntualità e il mancato rispetto dell’orario stabilito presta il fianco alla congetture più sfrenate. D’altro canto, la città è quasi paralizzata.
Attraverso le ampie vetrate è possibile scorgere la scia dei fumogeni che sale dalla City, le manifestazioni di protesta contro il governo guidato da Boris Johnson e gli infausti postumi della Brexit bloccano il traffico. Gli scontri tra la polizia e i manifestanti in corso dalle prime luci dell’alba impediscono l’accesso da nord. I cordoni di sicurezza sono saltati alle prime cariche della folla inferocita e la zona attorno alla stazione di Liverpool Street è blindata dagli autoarticolati dell’esercito. Senza dubbio Silver e il suo antico mentore David Stern, richiamato in servizio date le eccezionali circostanze nonostante i 78 anni d’età, tutto si aspettavano tranne che un palcoscenico del genere per il loro grande annuncio.
Come se non bastasse, a guastare ulteriormente il clima era spuntato durante la notte l’editoriale scritto a quattro mani da Zach Lowe e Adrian Wojnarowski su ESPN.com: “La fine della pallacanestro per come la conosciamo”. Pubblicato alle otto di sera orario costa est degli Stati Uniti, il pezzo conteneva sostanziose anticipazioni di quanto Silver e Stern avrebbero rivelato. Mancavano diversi particolari — e non sarebbe potuto essere altrimenti — ma già solo quello che era sfuggito alla rigida consegna del silenzio imposta al quadro dirigenziale era più che sufficiente.
Le speculazioni, a dire il vero, erano cominciate da quasi un anno per poi intensificarsi negli ultimi mesi, ma ora la clamorosa notizia era trapelata: la National Basketball Association avrebbe abbandonato gli Stati Uniti d’America. Per un curioso incrocio di destini, l’hashtag con cui la maggior parte degli utenti aveva accompagnato la condivisione della bomba di ESPN era risultato essere #NBAexit. Il clamoroso successo del pezzo aveva avuto l’effetto di scaldare gli animi di appassionati e addetti ai lavori, accendendo la curiosità a proposito della domanda con cui Lowe e Woj avevano chiuso le loro considerazioni: “l’NBA se ne va dagli Stati Uniti, ma per andare dove?”.
La risposta, articolata fin nelle minuzie, sarebbe arrivata a minuti dalla diretta voce di Adam Silver, ma nel frattempo sul web erano già state lanciate le congetture più varie, da quelle che citavano anonime fonti interne fino alle derive fantascientifiche. Le opzioni più gettonate riguardavano un trasloco in blocco e la fusione con l’Eurolega o con il campionato cinese; le più azzardate andavano da una sorta di circo itinerante stile Harlem Globetrotters fino allo sbarco su Marte con il beneplacito di Elon Musk. Bill Simmons, da qualche settimana direttore esecutivo del nuovo mega-colosso HBO-ABC, le aveva raccolte tutte in un podcast facendole recitare all’attore Rami Malek, premio Oscar per l’interpretazione di Freddy Mercury nel film biografico dedicato al compianto leader dei Queen.
Una decisione che viene da lontano
In molti fanno risalire l’origine della faida tra l’NBA e il governo degli Stati Uniti all’All-Star Game 2017, ovvero alla decisione di abbandonare la location prevista — Charlotte —come atto dimostrativo nei confronti delle locali norme discriminatorie verso la comunità LGBT. E ancor di più alla zingarata di Mark Cuban, sceso in campo nella partita delle celebrità con il numero 46, provocazione allusiva alla volontà di non riconoscere il 45° POTUS, cioè Donald Trump. Di certo nessuno poteva allora immaginare che quello sarebbe stato l’avvio di un processo destinato a travolgere l’NBA e Cuban stesso.
I successivi tre anni hanno alimentato il distacco da un’amministrazione, e un paese, che andavano spediti nella direzione opposta rispetto a quella intrapresa dalla lega. Il rifiuto espresso da Golden State di assecondare la tradizione e visitare la Casa Bianca in veste di campioni, replicato nelle due successive tornate, assomigliava alla classica punta dell’iceberg di un movimento sempre più in difficoltà nella convivenza con la nuova America di Trump. L’ondata di attivismo da parte degli atleti afroamericani, inizialmente incoraggiata da Silver nel tentativo di governarla ed evitare così l’insorgere di ulteriori casi-Kaepernick, è divenuta ben presto incontrollabile.
La rivolta di Los Angeles, scoppiata nell’estate del 2018 a 26 anni di distanza dai celebri riots del 1992 e accesasi dopo l’ennesima vittima di colore caduta sotto il fuoco della polizia locale, ha dato un ulteriore strappo. LeBron James, fresco di triennale con i Lakers, non ha tardato ad alzare il volume delle polemiche proprio durante la conferenza stampa di presentazione in uno Staples Center a dir poco rovente, non solo per la temperatura esterna. La dura condanna della condotta delle forze di polizia, a cui si sono accodate tutte le figure di rilievo — da Silver a Stan Van Gundy, da Steve Kerr a Kevin Durant — ha segnato un punto di non ritorno. La decisione di Trump di dichiarare la legge marziale in tutta l’area metropolitana di L.A. fino al termine dei disordini ha fatto il resto.
Da lì in poi l’NBA, forse suo malgrado, ha rappresentato per molti un punto di riferimento dell’America anti-Trump. La politica, e in particolare un Partito Democratico allo sbando, ha preso nota. Durante la convention di Boston dell’estate scorsa è nata l’idea di puntare proprio su una figura proveniente da quel mondo, ovverosia Mark Cuban. La candidatura del proprietario dei Mavs, nonostante le note simpatie per il Partito Repubblicano, metteva tutti d’accordo: Cuban sembrava l’uomo perfetto per sfidare il presidente uscente sul suo stesso campo. Reduci da un burrascoso rapporto di stima reciproca prima, e altrettanto reciproco disprezzo poi, i due apparivano meno distanti di quanto sembrasse. Nonostante lo scisma dell’ala radicale del partito, indignata per quella che veniva definita una deriva da reality televisivo, il ticket formato da Cuban e da Elizabeth Warren aveva sbaragliato la concorrenza, per la verità piuttosto blanda, vincendo a mani basse le primarie. Cuban e la sua istrionica versione dell’ormai irrinunciabile propaganda populista avevano ridato slancio alle speranze di conquistare la Casa Bianca.
Pur senza mobilitarsi in maniera palese l’NBA, tramite i propri uomini simbolo, appoggiava con forza la campagna elettorale democratica. Tutto, dalle generose elargizioni a titolo personale alle dichiarazioni di voto dei giocatori fino all’impegno in prima persona di Gregg Popovich — appena ritiratosi dopo quasi cinquant’anni di onorata carriera e candidato alla carica di consigliere nel team di Cuban — tracciava con chiarezza le posizioni in campo. Il caos generato dalla successiva rottura di Trump con l’establishment repubblicano e la conseguente decisione di candidarsi come indipendente aveva poi infittito le trame di un confronto elettorale più aspro che mai. La forbice sempre più ampia tra l’America rurale e quella delle grandi città dilaniava il paese: spente le telecamere e i microfoni dopo l’ultimo, accalorato dibattito in cui si era addirittura sfiorata la rissa, in molti incrociavano le dita.
4 novembre 2020
«Il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna»
Aldous Huxley
Era appena scoccata la mezzanotte dell’Election Day più tumultuoso nella storia recente quando i primi risultati definitivi davano forma a quello che appariva sempre più come un incubo — oppure un sogno, a seconda dell’angolo di visuale prescelto. La celebre frase di Aldous Huxley, citata da Gail Collins in apertura del suo editoriale sul New York Times, sintetizzava il senso di quanto accaduto meglio di quanto sarebbe riuscito alle infinite analisi postume. Ben Stasse, candidato di un Partito Repubblicano in coma profondo, aveva finito per raccogliere un misero 11% del voto popolare.
Il fiasco di Sasse lasciava via libera allo scenario ipotizzato dalla maggior parte degli esperti alla vigilia del voto: sfida aperta tra Trump e Cuban. Il testa a testa, durato dall’uscita dei primi exit poll fino alla chiusura dei seggi, proseguiva nelle ore notturne per concludersi con il conteggio definitivo dei risultati dell’Ohio. Con i suoi 18 grandi elettori, lo stato del castagno risultava di nuovo decisivo per le sorti della nazione. Seppur con un margine molto più risicato rispetto a quattro anni prima, Trump strappava infine la vittoria per soli 36.245 voti. All’alba del 4 novembre il secondo mandato veniva ufficializzato nelle parole del presidente Trump: l’America sopra ogni altra cosa.
America above all
Se da un lato il risultato elettorale gettava nello sconforto quella parte d’America che aveva sperato fino all’ultimo di poter voltare pagina, dall’altro i vincitori, forti dell’euforia per un successo ancora una volta inaspettato, non tardavano nel passare dalle parole ai fatti. Il programma “America Above All”, proseguimento dell’originario “America First”, da roboante promessa elettorale si materializzava in disegno di legge con attuabilità immediata. Nonostante l’ostruzionismo dell’opposizione democratica, compatta nel definirla una inaccettabile rappresaglia verso quella fetta di società ribellatasi alle politiche presidenziali, Camera e Senato approvavano il corposo complesso normativo.
Tra i decreti più contestati spiccava il “Cease & Desist Act”, divenuto legge federale nel gennaio del 2021. Un ultimo, labile residuo di correttezza istituzionale impediva di nominare in via diretta l’obiettivo che la legge intendeva colpire, anche se i dubbi sul vero destinatario erano pochi: il “Cease & Desist Act” decretava sanzioni amministrative che aprivano le porte alla perseguibilità in ambito penale per società o associazioni private i cui dipendenti o associati fossero «ritenuti interpreti fattivi di atteggiamenti palesemente oltraggiosi verso istituzioni e alte cariche governative». La legge, come noto, sarebbe poi divenuta famosa con l’appellativo affibbiatole dalla stampa subito dopo la promulgazione: “NBA Act”.
Effetto palla di neve
Per l’NBA, il “Cease & Desist Act” era un colpo basso, certo, ma non uno di quelli sferrati a sorpresa. I quattro anni precedenti e il progressivo inasprirsi dei rapporti con la Casa Bianca avevano spinto Adam Silver a prepararsi per il peggio. Come ogni organizzazione ben condotta, l’NBA aveva pronto un piano d’evacuazione necessario a portare in salvo quanto possibile qualora l’alta marea fosse davvero arrivata. I contatti con i gruppi d’investimento e i rappresentanti di organizzazioni governative e sovranazionali, avviati da tempo, si erano fatti più concreti e frequenti. Sull’onda degli screzi sempre più pesanti con gli Stati Uniti e il suo governo, l’ipotesi di rendere l’NBA una lega davvero globale aveva infine preso corpo. Queste sono le vicende note, depurate dalla ridda di voci, ipotesi e teorie scatenatasi negli ultimi mesi e a cui la conferenza stampa indetta a Londra dovrebbero mettere la parola fine.