Da quarant’anni Mircea Lucescu scruta il mondo con gli stessi occhi impassibili. La sua foto più recente su Google Immagini non è troppo diversa dalla figurina di Euro 1984, quando si presentò per la prima volta al proscenio internazionale alla guida della Romania che, nei gironi eliminatori, aveva fatto fuori nientemeno che l’Italia campione del mondo. I capelli ricci – certo, più neri – , le guance un po’ appese, il sorriso mai completamente spalancato di chi sta già pensando al prossimo contropiede. Chiamarlo “volpone” è diventato ormai un luogo comune a cui non ha saputo sottrarsi neanche Guardiola, come sempre prodigo di complimenti, che prima del quarto di finale di Champions 2011 Barcellona-Shakhtar lo chiamò “Furbescu”: si vede che non aveva ancora metabolizzato i 25 milioni versati due anni prima ai minatori per assicurarsi i non irresistibili servigi di Dmitro Chigrinsky, seduttore del Pep in una notte monegasca di Supercoppa Europea.
Oggi che il tempo ha banalizzato questioni politiche epocali come quelle che interessavano l’Europa alla fine degli anni Ottanta, abbiamo tutti un po’ smarrito la portata della grande avventura picaresca che ha visto protagonista Lucescu nell’Italia prospera e felice di quel tempo. Mentre tanti suoi colleghi rimanevano poderosamente organici al declinante potere dell’URSS e dei suoi satelliti, senza la minima idea di modificare uno status quo così rassicurante, preferendo invecchiare mummificati come Lobanovski invece che correre il rischio, Lucescu intercettò prima degli altri la corrente del cambiamento e dello slittamento a Ovest dell’Europa post-comunista, mosso prima di tutto da una straordinaria volontà di affermazione individuale. Si riteneva all’altezza di Sacchi e da tale si comportò nei suoi quasi dieci anni trascorsi da noi, anche se i risultati sul campo lo hanno premiato al massimo con un paio di promozioni in serie A e un trofeo Anglo-Italiano vinto, a Wembley, con il Brescia. Nel 1994 un articolo di Repubblica diede notizia di un pionieristico team di video-analisi costituito a Brescia dallo stratega Mircea: «Una quantità incredibile di coordinate da incrociare per avere un’analisi microscopica e allargatissima della partita: passaggi in verticale, in orizzontale, sbagliati, utili, corti, dietro, finali, recuperi. Domani il FARM (Football Athletic Results Manager) potrebbe diventare la grande memoria computerizzata della Nazionale».
Nell’undici titolare del Brescia, visibile in grafica al minuto 0:28, ci sono almeno tre errori di battitura.
Istituto Lucescu
Lucescu si porta a spasso da decenni una fitta aneddotica perennemente sospesa tra cronaca e menzogna, degna di un film del suo concittadino Radu Mihaileanu, a cominciare dal suo esordio in Nazionale. Un’amichevole contro la Svizzera dove, nonostante sia destro di piede, viene schierato ala sinistra: all’epoca gioca ancora in seconda divisione, nello Stiinta/Politehnica Timisoara, e non può avere troppo da sindacare. Difatti il giovane Mircea non fa una piega e serve ai compagni tutti e quattro gli assist del 4-2 finale. È certamente il capitano della Romania 1970, la prima Romania a essersi qualificata alla fase finale di una Coppa del Mondo (quella del 1930 era stata iscritta al Mondiale uruguayano solo per espressa volontà del re Carlo II, che si era occupato personalmente della selezione della squadra).
In questa foto lo si vede a centrocampo insieme a Bobby Moore, prima del match di girone contro l’Inghilterra. Ha la fortuna e la sventura di incrociare i tacchetti col Brasile 1970, e la leggenda racconta di uno scambio di maglie a fine partita con Edson Arantes do Nascimento. Ma soprattutto, durante la tournée di preparazione che porta la Romania ad affrontare numerose squadre locali, attira l’attenzione del Fluminense, fresco vincitore del campionato di Rio de Janeiro: il presidente Francisco Laport scrive una lettera al Ministero degli Affari Esteri di Bucarest, dichiarandosi interessato a Lucescu per un prestito di tre mesi, secondo un modello molto in voga all’epoca nel calcio sudamericano. Ma nel 1970 uscire da un Paese comunista è praticamente impossibile, e così l’ossessione brasiliana sarà fedele compagna di viaggio di Lucescu ancora per molti anni.
La lettera, in francese, con cui il Fluminense chiese al governo di Bucarest informazioni sul possibile acquisto di Lucescu.
Perciò rimane un pilastro della Dinamo Bucarest, con cui vince sei titoli rumeni e alimenta l’eterno (almeno, così pareva) Marele Derby della capitale. La Dinamo, la squadra del ministero degli Interni, contro la Steaua, squadra dell’esercito e soprattutto di Valentin Ceausescu, figlio del dittatore Niculae, e pertanto sempre destinata a trionfare. Nel 2011 Gino Corioni, il suo presidente a Brescia che aveva cercato invano di portarlo in Italia già da proprietario del Bologna, ha raccontato alla Gazzetta un aneddoto di cui non si trova traccia: «In un derby di coppa la Dinamo stava vincendo 2-1 quando il figlio di Ceausescu ritirò la squadra di punto in bianco e si prese la vittoria a tavolino». Ma, sempre a proposito del confine tra realtà e menzogna, il 2 maggio 1990 – a dittatore già liquidato nel Natale precedente, piuttosto brutalmente – c’è invece traccia di un’epocale finale di Coppa di Romania vinta dalla Dinamo addirittura per 6-4, in cui vanno in gol Raducioiu, Sabau, Lupu, Mateut, tutti futuri giocatori del Brescia di Lucescu. Su YouTube c’è una sintesi di addirittura mezz’ora, anche se ammettiamo di esserci sentiti appagati già all’apparizione della prima grafica della tv rumena dell’epoca. Ma d’altra parte Lucescu, negli anni successivi, ha ricordato quell’epoca con toni perfino nostalgici: «Dopo la Rivoluzione se ne sono andati un milione di intellettuali, e anche le tre generazioni di calciatori che ho formato sono andate allo sbando».
Il suo esordio da allenatore è a guida del piccolo Corvinul Hunedoara, in piena Transilvania, in cui svolge anche le mansioni di giocatore e non solo: scrive editoriali sulla stampa locale, conduce un programma alla radio e scrive addirittura l’inno del club. Alimenta la sua fama di poliglotta imparando italiano, francese e spagnolo dalle riviste di calcio che gli spediscono i suoi amici di università che sono riusciti a emigrare all’estero. A 36 anni diventa giovanissimo ct della Romania ed è qui che la sua orbita incrocia per la prima volta quella del calcio italiano. Nel cammino verso l’Europeo 1984 capita nello stesso girone degli azzurri campioni del mondo di Bearzot, che in due partite non riescono a fargli lo straccio di un gol. 0-0 a Firenze e 1-0 a Bucarest, quando un tiraccio di Ladislao Boloni fa capire a Dino Zoff, alla penultima partita in Nazionale, che è suonata la campana dell’ultimo giro di pista. «C’era una volta l’Italia campione del mondo», scrivono i giornali spargendo sale sulle ferite.
Mircea si muove attorno ai microfoni con astuzia da felino. Spaccia per fenomeno un certo Balaci, definito “il Rivera dei Balcani”, dicendosi certo che è stato appena acquistato da una squadra italiana, forse il Milan, e poi esalta gli avversari sconfitti con enfasi guardiolesca, prima di Guardiola: «È stata la partita più ricca di agonismo che io abbia mai visto in vita mia». La Romania s’inerpica fino alla fase finale dell’Europeo, dove impone l’1-1 alla Spagna futura finalista prima di essere sconfitta di misura da Germania e Portogallo. In rosa c’è un 19enne di grandi speranze, Gheorghe Hagi, stella dello Sportul Studentesc, squadra di una certa fama internazionale a metà anni Ottanta (per informazioni chiedete agli interisti, che soffrirono le pene dell’inferno in un primo turno di coppa UEFA).
La Romania di Lucescu fallisce la qualificazione al Mondiale 1986, eliminata da Inghilterra e Irlanda del Nord nonostante belle prestazioni come questo 1-1 a Wembley in cui un giovanissimo Hagi dà spettacolo nel primo tempo, colpendo un palo e una traversa.
Torna alla Dinamo da allenatore e vive in controluce gli ultimi controversi anni della dittatura della famiglia Ceausescu. Non vince mai il titolo ma si fa rispettare in Europa, spaventando per esempio la splendida Sampdoria di Vialli e Mancini o raggiungendo una semifinale di Coppa delle Coppe. Gli ultimi rintocchi del comunismo e la bella figura dei suoi ragazzi rumeni al Mondiale italiano, eliminati agli ottavi dall’Eire solo ai rigori, gli fanno capire che è il momento del grande salto: tra i presidenti rampanti che lo corteggiano sceglie Romeo Anconetani e il suo Pisa, affascinato anche dalle bellezze paesaggistiche e artistiche della Toscana. Il colpo di mercato di quell’estate è più che immaginifico: arriva dal Velez un ragazzino argentino di 20 anni che solo per un soffio non è entrato nei 22 convocati al Mondiale da Carlos Bilardo.
Ma Diego Simeone è ancora acerbo e, dopo due vittorie nelle prime due giornate, la stagione del Pisa inizia a declinare sì come il celebre campanile della cattedrale di Santa Maria Assunta. Dall’Italia Lucescu – nominalmente direttore tecnico, con Luca Giannini allenatore – impara subito la fruttuosa abitudine di dar sempre la colpa agli altri. L’esonero? Colpa di Anconetani. «Il presidente aveva preparato la partita con l’Inter al posto mio. Aveva completamente perso la testa». Ripeterà altre volte il copione, adeguandolo di volta in volta ai personaggi. Il flop all’Inter nel 1999? «Andò tutto bene fino a marzo, poi cominciarono a girare le voci su Marcello Lippi e la squadra mollò di schianto». Lo aiuta il suo carattere morbido, sempre disponibile al compromesso e alla trattativa, che sa come trattare con la stampa. «Da Lucescu ci si può anche fermare a cena», si legge in un articolo di Repubblica del settembre 1990. «Se non si va pazzi per la cucina romena, per il pasticcio di aglio e melanzane e per il formaggio greco è meglio non insistere. E può capitare di dover sostenere una conversazione sulla storia dell’arte e sul Corridoio Vasariano». E pare che il suo numero di telefono si trovi addirittura sull’elenco della SIP.
La seconda vittoria di Lucescu in serie A è un trionfale 4-0 al Lecce in cui fa la sua figura anche il già “Cholo” Diego Simeone, che segna il suo primo, grandissimo gol italiano intorno al minuto 1:30.
Gli anni felici di Brescia, “la piccola Romania” con Hagi, Raducioiu, Sabau, Lupu e Mateut, vengono ricordati ancora oggi con riconoscenza dai tifosi, che ammirarono una squadra forse ingenua ma brillante, che non cedette mai alla tentazione delle barricate. Anni movimentati, anche, con due promozioni, due retrocessioni (una allo spareggio) e congiunture irripetibili come l’acquisto di un giocatore dal Real Madrid e la cessione del medesimo, due anni dopo, al Barcellona di Cruijff (parliamo, naturalmente, di Gica Hagi). Un ragazzino di 16 anni e due giorni, Andrea Pirlo, lanciato in serie A e portato nei decenni futuri come una gardenia all’occhiello. E anche qualche bizzarra variazione sul tema: nel settembre 1994, quando è da poco stata introdotta la regola della terza sostituzione che però vale solo per il portiere, il Brescia sta disperatamente cercando di eliminare la Reggiana in Coppa Italia e allora Mircea si gioca il terzo cambio inserendo il secondo portiere e spostando in attacco il titolare Ballotta al posto di Piovanelli.
Ma non si può giocare con due portieri, anche se ne fai giocare uno in attacco, e il Brescia, comunque eliminato, avrà partita persa a tavolino. Come ricordato, il suo decennio nel calcio migliore del mondo si chiude mestamente con il lungo inverno all’Inter, il solito frullatore impazzito a cui Lucescu si adegua un po’ supinamente: dà spettacolo a San Siro, sommergendo di reti Roma, Venezia, Empoli e Cagliari, ma frana regolarmente in trasferta. Il crocevia è il quarto di finale di Champions con il Manchester United futuro pigliatutto: a Old Trafford perde 2-0, ma Schmeichel sfodera la parata del decennio su Zamorano e al suo pupillo Simeone viene annullato un gol che grida ancora vendetta; a San Siro, sull’1-0, Zé Elias calcia sui cartelloni la palla dei supplementari e il sipario cala di lì a poco.
Nella partita che gli vale l’esonero, uno 0-4 a Marassi contro la Sampdoria, le telecamere colgono Paulo Sousa in panchina nell’atto di sghignazzare impunemente. Come epitaffio di un rapporto problematico con parte dello spogliatoio (niente di nuovo sotto il sole), le parole del sempre diplomatico Taribo West: «Stavamo perdendo 1-0 con la Lazio e Lucescu mi ha chiesto di scaldarmi. Non mi sono mosso, sono rimasto seduto e allora lui si è avvicinato e mi ha detto: se non ti alzi subito non vestirai mai più la maglia dell’Inter. Allora l’ho guardato negli occhi, gli ho detto che era uno stronzo e non mi sono alzato».
L’esordio interista di Lucescu, a Vicenza, è segnato da una clamorosa scenata di Taribo West: sostituito da Silvestre, il nigeriano lancia la maglia verso l’allenatore uscendo dal campo. «Credo che non avrà più l’occasione di innervosirsi», commenta sardonico Mircea.
Miracolo a Donetsk
Salutata l’Italia Lucescu riprende a vincere dappertutto. Doma un circo di leoni come il campionato turco prima con il Galatasaray (dove regala all’Europa l’ultimo grande Hagi, e in questo caso citofonare Milan) e poi con il Besiktas che non vinceva il titolo da otto anni, sempre compassato, sempre sornione. Qui incontra e stabilisce ottimi rapporti con un importante agente franco-algerino, Franck Henouda, specializzato in trasferimenti esotici di brasiliani e già da qualche anno legato alla società di Istanbul. Ad aprire il fronte è stato, dopo il Mondiale 1998, Claudio Taffarel: doveva andare al PSG, ma il ritorno in auge del vecchio titolare Lama lo ha portato a sorpresa al Galatasaray. Il primo a stabilire una connessione con Henouda è stato Fatih Terim, anche se i primi frutti della loro sinergia non sono stati memorabili: Bruno Quadros e Marcio Mixirica. Ma Mircea, notoriamente, è un uomo fortunato: arriva uno forte davvero, Mario Jardel, che si presenta con una doppietta al Real Madrid in Supercoppa Europea e altri 32 gol in stagione.
È a questo punto che il suo genio duttile viene notato da un uomo con idee grandiose e ancora più denaro. Il presidente dello Shakhtar Donetsk, Rinat Akhmetov, è l’uomo più ricco d’Ucraina e compare stabilmente nelle prime posizioni della famosa lista di Forbes. Diventato presidente nel 1995 dopo che il suo predecessore è saltato in aria allo stadio di Donetsk a causa di una bomba in tribuna vip, Akhmetov è stufo di prendere sempre la paga dalla Dinamo Kiev, che ha vinto 11 degli ultimi 12 titoli nazionali: l’unico vinto dai “minatori”, nel 2002, è opera di un allenatore italiano, Nevio Scala, che – dicono da quelle parti – ha ufficialmente messo fine al comunismo nel calcio ucraino.
Il vento del turbocapitalismo bussa forte e la coppia Akhmetov-Lucescu decide di assecondarlo con un ragionamento semplice, di elementare buonsenso. Da che Paese vengono, statisticamente, i giocatori più forti del mondo? Dal Brasile. Abbiamo abbastanza soldi per permettercene tre o quattro buoni, possibilmente giovani, di modo che a 24-25 anni – quando saranno stufi del freddo e della nebbia – potremo rivenderli magari al quadruplo, e comprarne di migliori?
Tocca al poliglotta Lucescu mettere in pratica questa risposta affermativa: gli è sufficiente una telefonata a Henouda – agente di mercato di cui è diventato amico ai tempi di Istanbul – per chiedergli di diventare una specie di direttore sportivo ombra del club. Il mercato 2004-2005 porta a Donetsk, ironia della sorte, un giocatore del Brescia: Matuzalem, pagato 14 milioni, che diventerà capitano. E poi Elano dal Santos e Jadson dall’Atletico Paranaense, che raggiungono l’unico verdeoro già precedentemente in rosa, l’attaccante Brandao. E diventa economicamente rilevante anche da noi, nel 2007, quando oltre a Nery Castillo dall’Olympiakos, Willian dal Corinthians e Ilsinho dal San Paolo arriva Cristiano Lucarelli da Livorno, il vecchio bomber dal cuore rosso che accetta un ingaggio multimilionario nelle miniere per provare l’ebbrezza della Champions, ma farà ben presto marcia indietro, roso dal freddo e dalla nostalgia: «Dormo poco, sono sempre su Youtube a scrivere “Cristiano Lucarelli” e “Brigate Autonome Livornesi». A gennaio se ne tornerà in Italia, a Parma.
Nelle miniere del Donbass, sprazzi di Copacabana: guardate per esempio questo gol al Siviglia nel 2007 di Francelino Matuzalem, da noi noto perlopiù per la poco simpatica attitudine a troncare carriere di centrocampisti avversari.
Lo Shakhtar diventa un ospite fisso perlomeno della fase a gironi di Champions, uno scoglio su cui talvolta si schiantano squadre impreparate o presuntuose, come la Roma 2011 di Ranieri (all’andata) e Montella (al ritorno), battuta all’Olimpico e in Ucraina con un complessivo 6-2. Nel dicembre 2008 è la prima squadra al mondo a vincere in casa del Barcellona di Guardiola, un 2-3 che vale il terzo posto del girone e la discesa in coppa UEFA. Nel 2012 va molto vicino a diventare la prima squadra anche a espugnare lo Juventus Stadium (un mese prima dell’Inter di Stramaccioni), a lungo dominando e colpendo un palo e una traversa nel finale con l’ancora sconosciuto Willian, che – come insegna Chelsea-Barcellona – non perderà più l’abitudine a centrare i legni: finisce 1-1 e, a braccetto con Conte, fa comunque fuori il Chelsea campione in carica. Nel 2013 mette seriamente in crisi il Borussia Dortmund di Klopp in panchina e Lewandowski in attacco, di lì a poco destinato a strapazzare il Real Madrid. Ancora nel 2016, da esule nella lontanissima Leopoli, si inerpica fino alla semifinale di Europa League, arrendendosi solo al Siviglia.
L’affinità elettiva tra lo Shakhtar Donetsk e il calcio brasiliano produce risultati a volte grotteschi e surreali, come certi meme sulla cultura post-sovietica che si trovano su alcune pagine Facebook. Nel 2015 gli ucraini si sobbarcano addirittura una tournée a Rio de Janeiro, minuziosamente documentata dall’account YouTube del club con una specie di documentario a puntate: in questo episodio si vede un Lucescu infreddolito salire sull’autobus che condurrà la squadra all’aeroporto, e dopo un minuto ecco i giocatori in bermuda più che altro sbalorditi di ritrovarsi così lontani dal grigiore del Donbass, a Copacabana. Il quarto episodio è il nostro preferito, specialmente per il lunghissimo inserto dei brasiliani che giocano a calcio-tennis con un sottofondo samba talmente kitsch che risulterebbe eccessivo anche per un servizio della Vita in Diretta.
È abitudine vedere Lucescu e i suoi fedelissimi (come l’osservatore portoghese Luis Gonsalves, strappato al Porto nel 2010 e tuttora alle dipendenze dello Shakhtar), scandagliare i Mondiali giovanili o il proverbiale torneo sudamericano Sub-20, da dove pescano per esempio Douglas Costa, strappandolo al Manchester United, nonostante abbia racimolato meno di una trentina di presenze con il Gremio. Oppure Fernandinho, pescato dall’Atletico Paranaense nel luglio 2005 e rimasto a Donetsk per ben otto stagioni prima del grande salto in Premier League, uno dei pilastri della squadra che centra l’incredibile Coppa UEFA del 2009, il primo trofeo internazionale di una squadra ucraina dopo la fine dell’URSS, dal sapore ancora più leggendario, per quelle longitudini, perché arrivata anche dopo un epocale derby in semifinale contro la Dinamo Kiev, vinto con una grande azione personale di Ilsinho a un minuto dai supplementari.
A parte un gol del ceco Hubschman al Marsiglia, tutti i gol dello Shakhtar dagli ottavi fino alla finale di Istanbul, vinta 2-1 sul Werder Brema, hanno firme brasiliane: tre a testa per Fernandinho e Luiz Adriano, due per Jadson, uno per Ilsinho. Un’epopea così contro pronostico è la prova inconfutabile che mettere insieme denaro e idee può portare molto lontano: dal 2009 al 2015 lo Shakhtar sarà stabilmente tra le prime 20 squadre del ranking UEFA.
Il 2009 è l’anno d’oro dello Shakhtar: Akhmetov regala al suo popolo anche la Donbass Arena, gioiellino da 52 mila posti a sedere e fiore all’occhiello dell’Europeo 2012 organizzato insieme alla Polonia e “scippato” proprio all’Italia. Ma il 25 agosto 2014 due colpi di mortaio danneggiano gravemente una tribuna: la squadra è a Lione per un’amichevole e ai tanti brasiliani non si può più tenere nascosta la tremenda realtà della guerra civile. Lo Shakhtar di Akhmetov, smarcatosi qualche mese prima dalla sua vecchia immagine di filo-russo con un plateale discorso a sostegno dell’unità dell’Ucraina, viene preso di mira dai separatisti della Repubblica Popolare di Donetsk, appoggiati dalla Russia, che lo accusano di tradimento. Costretti a emigrare a Leopoli, a 1.270 chilometri da Donetsk, lo Shakhtar non può più trattenere Luiz Adriano, Fred, Alex Texeira, Douglas Costa. Il presidio di Lucescu dura un altro paio d’anni, concentrandosi non più sui talenti da importazione ma sul vivaio locale, portato anch’esso a eccellenti risultati come la finale di Youth League 2015 persa 3-2 contro il Chelsea (una delle stelle è Viktor Kovalenko, oggi punto di forza della prima squadra).
Diventa il quinto allenatore della storia a tagliare il traguardo delle 100 panchine in Champions, dopo Ferguson, Wenger, Ancelotti e Mourinho, prima di lasciare nel 2016. Un anno non eccezionale allo Zenit, poi – a proposito di Paesi politicamente non ineccepibili – l’incarico di ct della Nazionale turca, un movimento da ricostruire. A settant’anni suonati è ancora un punto di riferimento indiscutibile nel suo Est, un calcio dove le cose non sono mai quelle che sembrano, proprio come lui. Nel frattempo ha tirato su un figlio allenatore, Razvan, portandolo fino alla panchina della Nazionale rumena (oggi è al PAOK Salonicco). Si sono persino affrontati in uno Shakhtar-Rapid Bucarest di Coppa UEFA, nel 2005, con vittoria 0-1 dell’allievo.
Sopravvissuto negli anni a un incidente d’auto e a un’ischemia al cervelletto, Lucescu non ha la minima intenzione di gettare la spugna. Si diverte ancora un mondo, gli si addice l’aura da santone costruita negli anni con pazienza certosina e un certo senso del fatalismo: «Tutti si ricordano solo dell’ultimo risultato. Nel calcio ogni due o tre giorni sei una persona diversa». In trent’anni di carriera di lui non si ricordano sfuriate, intemerate, monologhi da show che vanno così di moda tra gli allenatori-divi di oggi; una qualità notevole per chi in questi trent’anni è dovuto scendere a patti con almeno due dittature, una guerra civile e un paio di rivoluzioni calcistiche.«Forse sono pazzo anch’io. Ma un pazzo tranquillo».