L’NBA conosce tutte le combinazioni per arrivare al nostro cervello e farlo esplodere, e il Media Day è solo una di queste. La formula è elementare: all’improvviso è lunedì e sorge l’alba sul pianeta NBA, dalla sera alla mattina i motori di ricerca si riempiono di foto, video, dichiarazioni raccolte da centinaia di professionisti nei centri sportivi delle 30 franchigie, e in tutto questo non succede assolutamente niente, o almeno niente che giustifichi l’attesa di quelle foto, quei video, quelle dichiarazioni. In sintesi: tutti daranno il cento per cento, tutti stanno lavorando per migliorarsi, tutti non vedono l’ora di misurarsi con i nuovi compagni, tutti sono fiduciosi di poter stupire la lega (beh, tutti tranne i Nets).
Il punto è che non siamo ancora al tempo delle risposte, siamo al tempo delle domande, e l’NBA è la lega sportiva migliore al mondo nello scandire l’anno solare. Così il Media Day, cento giorni dopo le Finals, dà finalmente forma e colore alle aspettative di ciascuno. Nello specifico: che effetto fa vedere Dwyane Wade con un’altra casacca addosso? Quanto dobbiamo esaltarci per i nuovi 76ers? Quanto dobbiamo avere paura di Russell Westbrook? J.R Smith avrà ripreso a indossare magliette? Perché il nuovo coach dei Grizzlies ha gli occhiali di Gianluca Vacchi?
Il resto è affidato all’interpretazione, alla minuziosa ricomposizione delle parole accennate e di quelle non dette, delle espressioni del viso e dei bicipiti appoggiati sui tavoli delle sale stampa. Ho scelto dieci momenti per riassumere la prima grande anteprima stagionale.
- #MUSCLEWATCH
C’è un tratto che accomuna tutti i Media Day, tutte le franchigie, tutti gli anni: i muscoli. Precisamente quelli che i giocatori NBA definiscono in palestra durante l’estate e poi dichiarano ed esibiscono in conferenza stampa come un trofeo di caccia. Come segnalò Lang Whitaker nel 2010, allora su SLAM Magazine, è raro che le libbre di pura massa muscolare guadagnate siano 9, 12 o 17: sono quasi sempre 15 (circa 7 chili), la cifra magica per primeggiare nel MUSCLEWATCH. Da quel momento in poi, #MUSCLEWATCH è diventato l’hashtag di riferimento per seguire (o «sorvegliare», stando alla traduzione letterale) i chili di muscolatura, reali o presunti tali, annunciati dai giocatori della lega.
L’idea che i muscoli debbano assecondare in qualche modo il peso delle aspettative ha un che di poetico: ad esempio Clint Capela, di cui i Rockets hanno un gran bisogno, ha aggiunto «10-12 libbre alla sua muscolatura», mentre Gary Harris, fondamentale per le ambizioni playoff dei Nuggets, ha messo su le proverbiali 15. Ben Simmons, di cui non a caso i 76ers avevano disperato bisogno, avrebbe distrutto ogni competizione: garantiva di essere cresciuto di 33 libbre, praticamente 15 chili di sola massa muscolare (il connazionale Dante Exum dei Jazz si è detto un po’ scettico a riguardo). Poi si è rotto il piede destro e lo rivedremo fra tre mesi, e a quel punto chissà i muscoli che fine avranno fatto.
- I Suns guardano avanti
Per alcuni il #MUSCLEWATCH è una necessità strutturale. I Suns si presentarono al Media Day del 2014 con tre guardie potenzialmente titolari: Eric Bledsoe, Goran Dragic e Isaiah Thomas. I tre scattarono, con espressione molto divertita, questa foto in cui si dividono una palla a spicchi, completamente coperta dalle sei mani protese. Quella foto diventò poi funesto presagio del caos tattico (troppi ball-handler, poche spaziature) che costrinse la dirigenza a liberarsi prima di Dragic e immediatamente dopo di Isaiah. Non so se è questo il motivo per cui nelle foto di quest’anno Bledsoe non sorride mai, o almeno non quando è ripreso con Brandon Knight, tantomeno quando è ripreso con Knight e Booker insieme. Per divincolarsi dall’equivoco, alla fine Booker ha anticipato che sarebbe stato sperimentato da ala piccola, e per giocare lì, ovviamente, servono i muscoli.
- La call-to-action contro la violenza
Un altro tema che ha attraversato il Media Day da Est a Ovest è stato quello delle disuguaglianze sociali e razziali negli Stati Uniti. Non è la prima volta e non sarà l’ultima, come avevano garantito Carmelo Anthony, Chris Paul, Wade e LeBron nel discorso di apertura degli ESPY Awards a luglio: «Il dibattito non potrà interrompersi quando il nostro calendario sarà nuovamente serrato. Non sarà sempre comodo, ma sarà necessario». Melo e LBJ hanno espresso un’opinione condivisa, puntualizzando come negli ultimi mesi non sia cambiato poi molto nel rapporto tra forze dell’ordine e comunità afroamericane: «Credo che siamo allo stesso punto, in realtà credo stia andando anche peggio e continuerà ad andare peggio». A Draymond Green, invece, imbrigliato nella polemica “Dissociarsi o meno da Colin Kaepernick”, è toccata la parte più difficile: la lezione sul dito e sulla luna.
- La barzelletta di Giannis
Giannis, per il suo personalissimo esordio al Media Day 2016/2017 fresco di estensione da 100 milioni di dollari, ha deciso di mandare fuori scala ogni rilevatore di cuteness: prima ha chiesto ai giornalisti «andateci piano con me», poi ha preparato il campo per una barzelletta. È uno di quegli scherzi che potrebbe fare Bart Simpson chiamando il bar di Moe, e alla fine ride solo lui. Sul sito di Reader’s Digest ci sono tanti knock-knock jokes migliori da cui Giannis potrebbe prendere spunto per la prossima intervista. Gli consiglio questo:
Knock! Knock!
Who’s there?
Doris.
Doris who?
Door is locked. Open up!
Un po’ come lo spacing di Milwaukee quando avrà la palla in mano, insomma.
- La confusione di Monroe
Sempre a Milwaukee troviamo un caso di studio esemplare in materia “cose da evitare al Media Day”. Il titolo si costruisce da sé, poi in realtà Monroe ha proseguito nella risposta senza scomporsi, dicendo che tutte le domande sulle rotazioni le lascia a Kidd e che a lui interessa solamente essere pronto «quando chiamano il mio numero». Tutto quello che fa da contorno è abbastanza tragicomico: Kidd ha rivelato davvero alla stampa di voler sperimentare differenti combinazioni, incastrandosi in una frase contorta che alla fine suonava come «lasciare Carter-Williams e Monroe in panchina è un obiettivo per la seconda metà della stagione», come fosse il completamento di un lungo e faticoso percorso. Monroe tutto questo l’ha scoperto immediatamente dopo dai giornalisti, poi è andato sul campo di allenamento per dare inizio al percorso.
- Il terzo Stache Bro
D’accordo quella barba dalla consistenza sempre più indecifrabile, d’accordo i capelli sciolti fino alle spalle che scoprono solo un trancio di orecchie, d’accordo il motivo polinesiano sul braccio destro che disegna una specie di armatura bionica, ma doveva esistere qualcos’altro che rendesse Steven Adams ancora più spaventoso agli occhi di Sabonis. Il cenno di intesa che il neozelandese lancia a Kanter, mentre sfregandosi le mani pronuncia con voce profondissima «a young fella», deve aver colto nel segno. Gli occhi di Sabonis a quel punto iniziano a muoversi imbarazzati lungo l’orbita, e l’ultimo frame del video riprende il momento preciso in cui Domantas guarda a terra e si figura terrorizzato nei panni del terzo Stache Bro.
- Il progetto-giovani di Utah
Visto che i giovani carichi di promesse già abbondavano, quest’estate a Salt Lake City hanno fatto l’unica cosa che il buon senso imponeva di fare: affiancargli dal giorno uno i Veterani All’Ultima Corsa. Al tavolo delle interviste si è seduto per primo Boris Diaw, accompagnato da Derrick Favors e dal connazionale Gobert, e c’è stata subito grande complicità. Il turno successivo è stato quello di Joe Johnson e Rodney Hood, che ha regalato parole al miele («È il mentore che non ho avuto in questi primi due anni nella lega») e ha raccontato uno di quegli aneddoti destinati alla viralità: sua madre che nei gloriosi anni Duemila si avvicina a Johnson perché il figlio è troppo timido per chiedere un autografo al suo giocatore preferito. Hanno chiuso il cerchio Dante Exum e George Hill, che ha detto di essere compatibile in campo con Exum e di voler rappresentare per i giovani quello che Tim Duncan ha rappresentato per lui quand’era rookie agli Spurs. Se adesso i Jazz non sfruttassero questo format fatto e finito per un documentario sull’evoluzione quotidiana dei rispettivi rapporti, sarebbe quanto mai deludente.
- L’ambizione di Wade Baldwin
La grande beffa dei videogiochi di simulazione sportiva è che fanno di tutto per ricreare l’esperienza personale del rookie in una grande lega, quando la vera ambizione generazionale sarebbe essere davvero un rookie in una grande lega solo per poi rivedersi in un videogioco di simulazione sportiva. È quello che è successo a Wade Baldwin, nuova recluta dei Grizzlies, un nome che può tornare utile per vincere subito qualche trade in modalità GM.
- Le distopie di Lucas Nogueira
In attesa di scoprire Jakob Poeltl, Lucas Nogueira ha idealmente preso il posto di Biyombo nelle rotazioni dei Raptors. Quando si è presentato ai microfoni, i giornalisti gli hanno riservato la domanda d’ordinanza sui baffi (non esiste più lungo un po’ freak della lega che possa sottrarcisi) e gli hanno ricordato un dettaglio che aveva raccontato un anno fa in una puntata della rubrica «Know Your Raptors»: ma quindi è vero che sogni sempre di un’apocalisse zombie e che pensi sempre a come sarebbe vivere The Walking Dead nella vita reale? «Sì, l’apocalisse è già iniziata, e io mi sto preparando di conseguenza». Va bene, Lucas.
- La fiducia di Embiid
Ogni volta che ha trovato un microfono aperto, Embiid ha ripetuto così tante volte «you’ve got to trust the process» che a un certo punto è scoppiato a ridere da solo. Lo sguardo cattivissimo, invece, lo ha riservato per le foto frontali. Però ha ringraziato tutti per il supporto ricevuto fin dal suo arrivo in NBA, menzionando in particolare Sam Hinkie e il coach Brett Brown, proprio perché nessuno potesse dubitare che la sua fosse facile ironia, invece che sincera ossessione. E se vi fidate di Embiid, fidatevi del processo.