«Al di là di sei fiumi e tre catene di montagne sorge Zora, città che chi l’ha vista una volta non può più dimenticare. Ma non perché essa lasci, come altre città memorabili, un’immagine fuor del comune nei ricordi. […] Il suo segreto è il modo in cui la vista scorre su figure che si succedono come in una partitura musicale nella quale non si può cambiare o spostare una sola nota.».
Come si fa a non averci il dubbio pur minimo che Calvino non abbia fatto un salto onirico nel futuro e abbia intravisto una città i cui concetti fondanti ricordano così da vicino Zemanlandia? Ci sono troppe coincidenze: il ritorno della lettera Z, l’ultima dell’alfabeto e in quanto tale lettera degli ultimi, raddoppiata per giunta; il carattere dromico, che è intrinseco al mestiere di allenatore e si fa endemico nel caso di un allenatore che cerca contesti sui quali far scendere il manto della sua filosofia.
La città invisibile che Calvino ha chiamato Zora per non farsi smascherare – ma che noi abbiamo subito riconosciuto, è Zemanlandia – non si dimentica facilmente, pur prestandosi all’oblio. A Zemanlandia, come a Zora, l’occhio scorre sulla partitura musicale che si ripete, a loop, da un ventennio, e che ha quel suono che fa du, da dà, quattro, tre tre. E nelle pause: sigaretta.
Zemanlandia, o Zora, torna a sorgere come le città fantasma che fuoriescono dai fondali dei laghi nei periodi di siccità. Città alle quali il ritrovato lustro, sotto i raggi del sole, fa sembrare ogni cupola d’oro. Stavolta ha scelto Pescara, già capitale del Regno del Dogmatico, perché gli amori fanno i famosi giri immensi, ovviamente, ma anche perché rispetto al precedente di Roma, e della Roma, non ci sono ambizioni particolari da cullare, né obiettivi che non siano quelli di improntare una progettualità tutto sommato alla portata di Zeman: valorizzare i giovani, giocare un calcio divertente e offensivo.
Zemanlandia è tornata a vivere: è stata una restaurazione accompagnata dall’aura di nostalgia e noalcalciomodernismo che il Boemo si trascina dietro come le ragazzine del quinto ginnasio profumi vistosi, uguale a se stessa ma al contempo nuova. È come se dagli alti lecci che presidiano l’ingresso della Pineta in Viale D’Avalos tre tifosi arrampicati avessero srotolato un arazzo con la faccia imperscrutabile di Zeman, sfumata nei toni pastello del celeste, la mano che porta alla bocca una sigaretta, lo sguardo punta lontano. Sotto, in carattere Gotham, un’epitome più che mai attuale: HOPE.
Ogni cameraman gli ha dedicato un’inquadratura distratta, forse disillusa: ma dopo il roboante 5-0 rifilato al Genoa, i proclami hanno assunto i contorni concreti della possibilità. Ora che succederà?
Ho provato a immaginare 5 modi in cui questa nuova avventura di Zeman possa andare a finire, alcuni più verosimili (o auspicabili) di altri.
Scenario #1: La Rincorsa
La prima domanda con cui è stato accolto il rientro di Zeman a Pescara, anche in base alle sue dichiarazioni iniziali piuttosto prudenti, è se magari, chissà, il boemo in questi anni è diventato più guardingo. O magari, più semplicemente, vuole rendersi conto con i suoi occhi di dove può portare la squadra?
Il risultato contro il Genoa, al di là del clamore (il Pescara non aveva mai segnato più di 2 gol nel corso dei primi 45 minuti, e normalmente con le dita di una mano contava i gol subiti) e di una generica maggiore attenzione alla verticalità dopo pochi passaggi da parte dei giocatori, non ci dice quasi niente: ci sono strappi che smuovono inerzie già solo per il fatto di accadere (non è a questo che si mira quando si esonera un tecnico?).
L’impatto emotivo dell’arrivo Zeman, però, è eloquente di almeno due aspetti. Il primo è che, per quanto la sua epica, sembra sempre che stia andando smungendosi fino all’implosione, è invece più che mai viva e attuale (forse perché rassicurante?). Il secondo aspetto, legato al primo, è che Zdenek Zeman si spinge sempre in qualche modo al di là della dimensione sportiva: nella sua versione Pescara 2 la sua presenza totemica va assumendo i connotati della simbiosi ambientale: perché Zeman risucchia – aspirandolo come Marlboro – e centrifuga la città adriatica, sposandone al tempo stesso i tratti decadenti e arditi.
Alla seconda uscita, in casa del Chievo, il Pescara ammonticchia già più vittorie di quanto avesse saputo fare con Oddo: il Chievo viene sovrastato fisicamente e atleticamente e Simone Pepe – che segna una doppietta ed esulta scalciando un pandoro (motivando il gesto, in conferenza stampa, come patteggiamento emozionale) dice di sentirsi «come rinascere».
Zeman è stato molto chiaro con la sua squadra: gli ha detto di sgombrare la testa e dare tutto. Quel tipo di nuovo inizio che serve quando c’è da rimettersi in discussione, con la concentrazione che Paulie non si aspettava da Rocky quando va ad allenarsi sulla neve in Unione Sovietica, con l’attenuante che Pescara è più solare e liberty della Siberia e adesso i calciatori possono anche permettersi uno spritz sul lungomare senza rischiare di incrociare gli sguardi dei tifosi.
Zemaniano <zeman-> agg. – Appartenente o relativo all’allenatore boemo Zdenek Zeman (1947 – ), tecnico di conclamata mistica, e alle sue idee di calcio: uno schema z.; un gol z.; la visione z. del calcio.
Zeman è il professore autorevole che arriva in supplenza del giovane maestro rivoluzionario al secondo quadrimestre e fa svoltare i debiti a tutta la classe: porta in dote due o tre concetti, si assicura che vengano assimilati, gli basta quello, poi i ragazzi son tutti bravi, se si applicano. Che bisognerebbe capire se dipende dagli alunni o dal professore.
Oppure Zeman è la fonte dell’El Dorado, che rende giovani con una sola immersione?
A Genova, il 4 marzo contro la Sampdoria, uno Stendardo sugli scudi distrugge ogni velleità di Muriel e Schick come un avvocato di fronte a una difesa lacunosa, e il Pescara sembra essere diventato imbattibile perché, in maniera sorprendentemente antizemaniana, è anche più accorto. Zeman si schermisce, dicendo dello spiraglio di difensivismo che s’insinua nella visione iperoffensiva delle sue squadre che «Solo l’imbecille non cambia mai idea». Attribuisce la frase a Emil Cioran, che diventa subito best-seller nelle librerie pescaresi.
Mentre l’Empoli perde colpi su colpi, il Pescara comincia a crederci sul serio: Zampano ara le fasce del Cornacchia contro l’Udinese, segnando un gol e servendo tre assist a Caprari.
Ahmed Benali, dopo il gol del pareggio all’ultimo minuto in casa dell’Atalanta, il 19 marzo, rilascia una lunga intervista in cui, quando gli viene chiesto quanto c’è di vero sul fatto che il City vorrebbe riportarlo a Manchester, si lancia in una lunga metafora sulla necessità di credere ai sogni. Sette giorni più tardi, protagonista della più zemaniana delle partite stagionali, segna le ultime due reti che portano il “Delfino” a sconfiggere il Milan per 5-4. Dirà di aver sorriso di fronte alla domanda ingenua ma sinceramente interessata di Donnarumma, che a fine partita gli ha chiesto come sia avere come allenatore Zeman, e di avergli risposto «se non ti piace allenarti fino a spaccarti il culo allora puoi rimanertene a Milano».
A una settimana da Pasqua il Pescara arriva allo scontro diretto con l’Empoli lanciato come un treno a levitazione magnetica: Gilardino, subentrato a Caprari nel secondo tempo, segnerà il gol vittoria e dirà che Zeman, per motivarlo, gli abbia confessato nell’allenamento di rifinitura che c’è solo un dolore più bello «di quelli che si infliggono alla Juventus»: quello che dai alle tue ex-squadre, perché è l’unica maniera di dimostrare che «l’amore è essenzialmente sacrificio, e sofferenza». Prima di congedarlo l’aveva anche rassicurato: «Ti perdoneranno, anche se penseranno che sia un traditore».
Scenario #2: Il Nuovo Caro Vecchio Tridente
Per raccontare al Gran Visir le meraviglie che aveva osservato nelle sue peregrinazioni, Marco Polo usa riferimenti conosciuti, appigli che permettano localizzazioni razionali immediate: è il dogma principale in letteratura di viaggio e lo è anche nel calcio di Zeman.
Le situazioni, e i singoli che in quelle circostanze si trovano a essere calati, sono sempre la riproposizione di qualcosa già andato in scena, nuove edizioni di libri già letti. L’ideale estetico di Zeman si basa su una sensibilità per le terzine che definisce linguisticamente i suoi attacchi: Insigne-Immobile-Sansovini condivide la stessa radice di Rambaudi-Baiano-Signori o di Caprari-Bahebeck-Benali.
Anche l’atteggiamento di Zeman nei confronti dei suoi attacchi tende ad essere lo stesso. Nella sua Golden Era, Zeman ripeteva a Immobile, che era «la rovina della squadra», a volte anche a fine primo tempo, in partite in cui magari aveva già segnato uno o più gol. Era un chiaro meccanismo di pungolatura, che però per funzionare ha essenzialmente bisogno di due prerequisiti: che ci sia un pungolo, anche con la cicca incendiata, e che ci sia dall’altra parte un toro con la disposizione d’animo a farsi stimolare.
All’epoca Immobile era di proprietà della Juventus, che al Pescara l’aveva girato in prestito per farlo crescere. Caprari (che nel gioco delle parti del Tridente Delle Meraviglie, per conformazione fisica, sarebbe però più vicino a Insigne) ha già firmato un contratto con l’Inter, e la stagione fino all’arrivo di Zeman non è che sia stata proprio brillante.
Caprari è un gran permaloso nonché un rompicoglioni (questo l’ha detto Verre), soprannominato “er polpetta”, non sembra uno capace di vivere con serenità un rapporto tutto tensione emotiva e interscambio affettuoso che certe situazioni esigono: ogni volta che gli chiedono cosa non abbia funzionato nel periodo con la Roma, Caprari risponde che in parte è dipeso da lui, ma «anche dagli altri».
I primi problemi tra Zeman e Caprari sono emersi ad aprile, quando Zeman, nell’intervallo della partita contro l’Empoli, l’unica in cui non è ancora andato a rete, dice alla squadra che sta girando alla perfezione «nonostante Caprari», l’attaccante chiede di essere sostituito. Zeman fa finta di non sentirlo. Lui va sotto la doccia in silenzio. «Sono contento per la squadra», dirà nel post-partita, «ma dispiaciuto per me. Forse questa squadra può anche fare a meno di Caprari», aggiungerà con la mestizia melodrammatica che solo i permalosi sanno interpretare con trasporto da candidatura all’Oscar.
Quando Caprari torna al gol, una settimana dopo contro la Juventus, esulta polemicamente, portandosi le dita alla bocca nel gesto di chi fuma.
La stagione finirà, Caprari toccherà quota 15 gol (10 con Zeman) e si dirigerà verso l’Inter. Alla presentazione con la maglia nerazzurra dirà di dover ringraziare, per essere arrivato fin lì, «i bei errori che ho fatto e i gol che ho segnato». Poi, per coprire il silenzio della sala stampa aggiunge: «Ah, ce sta pure Zeman», facendola sembrare una battuta.
Nel timore che si possa pensare che fosse merito di Zeman se ha segnato così tanto nell’ultima stagione, Caprari si dimostrerà sempre più stizzito nelle interviste: «Non c’è un allenatore al quale sento di dovere più degli altri». O, ancora, dirà che «Caprari è quel che è ed è tutto merito suo». Parlando di sé in terza persona, come i matti o i sovrani.
Per Verre, invece, con Zeman si spalanca la dimensione della mezzala propositiva, un ruolo in cui riesce ad asservire una bestialità fisica da militante di un blocco studentesco, ai dettami della verticalità a tutti i costi. Zeman lo trasforma in un Pjanic meno innamorato del pallone, più indottrinato forse: lo spirito battagliero intriso di genius loci fa di Verre una roccia foderata di velluto, in maniera così rivoluzionaria e costante da permettere di dire quasi a tutti, già dopo una manciata di partite, «però, lo vedi che c’è a chi fa bene la cura Zeman».
La stagione successiva sarà quella della consacrazione per Verre, che con la maglia della Sampdoria si conquisterà un posto per il Mondiale e di lui si parlerà addirittura per un possibile passaggio al Barcellona. Intervistato prima della partenza per la Russia, Verre ci tiene a ringraziare il boemo: “Per me è stato come un padre. Di poche parole, ma efficaci. Chissà, magari un giorno mi allenerà di nuovo. Magari a Barcellona, sarebbe bello se gli dessero quella grande occasione che merita”.
Per il ruolo di punta centrale, invece, dopo qualche partita in cui si affida a Cerri, il boemo scopre che “l’Immobile” perfetto per la rincorsa disperata alla salvezza è Jean-Christophe Bahebeck: il francese diventa, lanciato nelle praterie della verticalità, la metafora perfetta di settimane convulse, in cui l’istinto prevale sulla razionalità, del sovvertimento delle gerarchie.
A fine prestito, Bahebeck chiederà al PSG di poter trascorrere un altro anno sulla costiera Adriatica, per provare a esplorare più a fondo la sua vena realizzativa e capire che tipo di centravanti possa diventare in un’intera stagione a mollo negli schemi di Zeman.