Il suo apodo da calciatore, “El Muñeco”, la bambolina, Marcelo Gallardo ha sempre dimostrato di saperlo indossare con classe, intelligenza e anche un po’ di malizia. È evidente che nessuno, nel concepirlo, stesse pensando a un giocattolo per bambine di buona famiglia: l’accostamento più immediato è a quel tipo di bambole che popolano l’immaginario collettivo horror dei b-movie.
Fedele al ruolo che la commedia delle parti gli ha destinato, e pronto a interpretarla con coerenza, Gallardo ha perennemente dissimulato il suo soprannome portandolo ai limiti dell’inganno.
Cinque minuti in slowmotion di Gallardo contro i giocatori del Boca, scene da cavallerie rusticana bonaerense.
Il mondo di Marcelo Gallardo è popolato da un costante contrasto degli opposti fin da bambino, quando a Merlo – sua città natale – preferiva far volare gli aquiloni invece che giocare a calcio, la grande passione di tutta la sua famiglia; quando un suo cugino lo portò per la prima volta a giocare una partita organizzata, Gallardo dovette abbandonare il campo dopo pochi minuti, perché vagava senza capire il senso di quello che gli accadeva intorno. Qualche ragazzino lo schernì, e andò a finire che già volavano piñas.
Questo è da sempre, Gallardo. Lo scherzo più grande ce lo ha fatto nel passaggio dal campo alla panchina: ci aveva fatto credere di essere un meraviglioso solista del pallone, e invece adesso sappiamo che nascondeva l’impeto e l’autorevolezza di un condottiero. Da Muñeco si è trasformato in Napoleón.
Fino alla prossima Waterloo, ovviamente.
Metamorfosi
Gallardo è un monumento del River Plate: l’unico nella storia del club ad aver vinto la Copa Libertadores sia da giocatore che da allenatore. Ma per evolversi, completarsi e diventare il punto di congiunzione fra le due epoche d’oro vissute dai “Millonarios” negli ultimi trent’anni ha dovuto compiere un cammino di crescita ed espiazione fuori da Nuñez, il quartiere di Buenos Aires dove affondano le radici del River.
Lontano dal Monumental ha cercato di raffinare la propria preparazione, abbinare una conoscenza tattica all’avanguardia con il bagaglio di valori che fanno parte del DNA di ogni prodotto riverplatense.
Come uno chef sperimentale ha esplorato diversi angoli del mondo alla ricerca di tre ingredienti fondamentali: ha viaggiato in Europa e negli Stati Uniti per guadagnarsi una visione d’insieme sull’evoluzione moderna del calcio. In Francia ha recepito i nuovi trend strategici; negli USA quelli dell’allenamento atletico. E poi c’è stato l’Uruguay, il suo personalissimo modo di riportare (quasi) tutto a casa: lì ha trovato la mistica e il proprio personale punto di partenza.
Con la maglia del PSG.
Si è trasformato da calciatore ad allenatore in dieci giorni, durante l’estate del 2011: una metamorfosi repentina, nella quale ha trovato il compimento di un processo che incubava da anni. Ha definito l’ultima partita con il Nacional di Montevideo «il giorno più bello della mia vita»: non perché fosse l’ultimo, evidentemente, ma per essere il primo di una nuova era.
Di voler diventare allenatore lo aveva capito almeno da sei, sette anni. Cioè da quando la sua mente di calciatore, occupata perlopiù dal pensiero di se stesso in campo e di come impiegare il tanto tempo libero fuori, ha cominciato a interessarsi maggiormente al perché delle cose calcistiche. Sorgevano domande da rivolgere agli allenatori e ai preparatori, che spesso però – intimoriti o forse semplicemente incapaci di restituirgli le risposte che avrebbe voluto sentire – non sapevano sfamare la sua curiosità. Chiedetegli quale sia il suo unico rimpianto nella fase di formazione: vi risponderà che gli sarebbe piaciuto lavorare con Bielsa a trent’anni.
Marcelo Bielsa è la scintilla che ha appiccato l’incendio, alimentato poi da tutta una ridda di fonti di combustione: Sacchi, Guardiola e Jorge Sampaoli. Come lui esponente di quella generazione di tecnici argentini nati negli anni ‘60 e ’70 che stanno mettendo timbri indelebili sul grande calcio europeo, e che hanno nel “Loco” una fonte d’ispirazione, o un feticcio.
Quando Gallardo e Sampaoli si sono incrociati per la prima volta, nel 2011, nel secondo turno della Copa Sudamericana, la gara d’andata in Cile è andata al santafesino. Al ritorno Gallardo non fa neppure in tempo a pianificare la rimonta: con due fiammate in una manciata di secondi a inizio match, la “U” stecchisce il Nacional e le sue velleità di ribaltare il risultato.
Nel post-partita Gallardo si dice enormemente impressionato dal gioco dei cileni e pronostica per loro un futuro sorprendente nella competizione. In Uruguay sorridono pensando all’alibi di un giovane tecnico alla prima sconfitta della sua sua carriera, e invece si tratta di una precoce dimostrazione di lungimiranza. L’Universidad de Chile quella Sudamericana la vincerà.
Le cosiddette sconfitte edificanti: due minuti devastanti. Per comprenderne la portata, focalizzarsi sulla faccia di Gallardo dopo il secondo goal.
Il talento di gestire il tempo
Tra le doti del Gallardo allenatore, la precocità è tra le più sorprendenti. Nel giro di tre anni è stato in grado di dipingere, nel grande arazzo della storia del River, il dettaglio di un biennio – quello 2014-15 – emozionante, caratterizzato da un gioco così peculiare e brillante da far gridare molti al ritorno de “La Máquina”.
Con Gallardo in panchina, il River ha saputo riportare il livello del calcio sudamericano vicino a quello europeo, proprio nel momento storico di maggior divario. Il River ha affrontato a testa alta il Barcellona della MSN, e se il lanciatissimo processo di crescita si è arrestato – o ha almeno rallentato vistosamente – è solo perché le disastrose condizioni economiche del calcio argentino rendono ormai praticamente impossibile, a quelle latitudini, il concetto di ciclo duraturo.
Un’azione che illustra l’importanza delle fasce nel gioco delle squadre di Gallardo.
Gallardo è un allenatore a cui basta veramente poco tempo per trasmettere le sue idee e la sua metodologia alla squadra. Ma il tempo è comunque un bene che guarda con bramosia, specie dopo essere passato dall’averne da vendere (quando era ancora un calciatore) al doverlo rincorrere. Il mestiere dell’allenatore, oggi, è sempre più stretto tra impegni extra-campo e il tempo per lavorare con la squadra è sempre di meno.
È attorno al concetto di tempo che ruotano le motivazioni per le quali Gallardo ha scelto di prendersi due anni di pausa. Non fra la fine del calcio giocato e l’inizio di quello allenato, ma fra la prima e la seconda esperienza, nel 2012.
Aveva bisogno di tempo per sé, ma quando il Nacional gli ha offerto la panchina ha capito subito che non poteva perdere l’occasione di cominciare in un club che conosceva perfettamente, con strutture di buon livello e in un ambiente ideale come il calcio uruguagio. È stata una scelta ripagata dal successo: ha vinto il campionato già nel suo primo semestre, e dopo altri sei mesi ha firmato il bis. Una partenza bruciante, dopo la quale era impensabile concepire uno stop. Non così impensabile se l’obiettivo reale era quello di prepararsi all’inevitabile destino di ereditare la panchina del River Plate.
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