L’appuntamento con Massimo Ambrosini era alle 9.30 del mattino, ma alle 9 ci eravamo già stretti la mano. Quando sono arrivato aveva la Gazzetta dello Sport aperta sulla pagina del Milan. C’era un trafiletto che lo riguardava, stava leggendo come erano state riportate le sue parole del giorno prima: gli avevano chiesto cosa pensasse delle chance europee del Milan, del cinesi del Milan, del giovane portiere del Milan, degli altri giovani del Milan, delle polemiche per i suoi commenti Sky al gioco del Milan.
Nonostante da maggio 2013 non abbia più nulla a che fare con la sua ex società, Ambrosini è chiamato di continuo ad esprimersi su qualsiasi argomento riguardi il Milan, e se le sue parole escono dalla poetica fiabesca dei tifosi meno obiettivi, fanno molto discutere. Normale, se sei stato una bandiera.
Eppure, il titolo di bandiera ad Ambrosini viene riconosciuto meno universalmente che ad altri senatori dei suoi stessi cicli. Un deficit istituzionale che ha ragioni statistiche – per intere fasi di carriera, e in alcune grandi vittorie di squadra, c’era un qualche infortunio a tenerlo lontano dalla scena – e ragioni contingenti – era senatore in uno spogliatoio di senatori, molti dei quali ancora più iconografici. Ambrosini era lì da sempre, ma lo era anche un mostro sacro come Maldini. Ambrosini lo potevi amare per la generosità in campo, ma Gattuso era una divinità per gli amanti del genere. Ambrosini era un ottimo centrocampista centrale, ma Pirlo in quegli anni stava reinventando le regole stesse del ruolo.
Che ad Ambrosini siano toccati più oneri che onori dell’essere una bandiera, è un dato di fatto. Una diminutio che ha finito per sottostimare i suoi valori tecnici, prima, e il suo valore simbolico, dopo.
Da Pesaro a Cesena, in treno
Lo Stadio Olimpico Spyros Louis di Atene non è ad Atene. Si trova ad Amarousio, una cittadina inglobata nell’area metropolitana della capitale greca e che conta più o meno gli stessi abitanti di Pesaro. Sul prato dello Spyros Louis, la sera del 23 maggio 2007, i giocatori del Milan festeggiavano la vittoria della settima Champions League del club: due di loro indossavano magliette con messaggi religiosi. I belong to Jesus, la scelta evangelica di Kakà; from Christ the King to Athens, la dimostrazione d’appartenenza pesarese di Ambrosini.
«Da piccolo giocavo nell’Adriatico, una squadra della città. Ma la maggior parte del tempo la passavo al campetto del Cristo Re. Christ the King sulla maglietta di Atene era riferito a quello, al Cristo Re». Si tratta di una parrocchia del centro di Pesaro, quartiere mare. «Era a 200 metri da casa mia. In città è un posto sacro per il calcio di strada. Ci giocavano personaggi che poi diventavano leggende. Andavi lì a guardare i più grandi giocare e imparavi le prime regole di sopravvivenza».
L’iconicità del Cristo Re è sospesa a metà tra il calcio e il basket. La sua fama in città è così tangibile che nemmeno Hackett e Jones – nel 2012, da giocatori della Scavolini – hanno resistito al fascino di giocare sul suo cemento assieme ai ragazzi del quartiere. C’era anche Cinciarini, pesarese e quindi ospite di diritto. «Sì, ci ho giocato anche a basket. La storia di Ambrosini mancato cestista però è una favola. Ci hanno ricamato molto su i giornalisti. Per me la pallacanestro non è mai stata una reale alternativa al calcio». Nessun dubbio tra calcio e basket nemmeno per gli osservatori del Cesena che lo vedono in un torneo post-campionato con la maglia biancazzurra dell’Adriatico. Nel giugno del 1990, gli dicono che lo vorrebbero nei loro Esordienti.
Il regionale per Cesena partiva alle 13.24: fermava a Cattolica, Misano, Riccione e Rimini prima di portare Massimo a destinazione. «Me lo ricordo come fosse ieri. Il primo anno ero in terza media. Uscivo dieci minuti prima della campanella e fuori c’era mio padre. Io gli davo lo zaino, lui mi dava il borsone e il contenitore con la pasta. Mi incamminavo verso la stazione mangiando. Mai mangiato in scompartimento quell’anno, mi vergognavo troppo». Un pudore che non gli ha permesso, almeno all’inizio, di immaginarsi calciatore. «I primi tempi ero solo preoccupato di gestire la timidezza. Nuovo spogliatoio, nuova città, nuove persone. Nonostante il nonnismo del Cristo Re ero più bambino di molti miei coetanei. L’ambizione è arrivata dopo».
Ambrosini arriva in Romagna come attaccante, il ruolo che aveva nella sua prima squadra, l’Adriatico. «Il primo anno non ho praticamente mai giocato. Le altre punte erano più brave di me». Il bivio arriva a fine stagione, a Riccione, quando rimane fuori anche dalla finale di un torneo. «Avevo detto ai miei che volevo tornare nell’Adriatico e loro mi hanno fatto un discorso che mi era sembrato esistenziale. Massimo fai come vuoi ma secondo noi non si molla alla prima difficoltà. Prova anche l’anno prossimo. Se poi continui a non essere felice, allora lasci. Ci avevo pensato un po’ e poi avevo deciso di ascoltarli». E dall’anno dopo è cambiato tutto.
Il merito dell’inversione di tendenza è soprattutto di Davide Ballardini, tecnico con una lunga esperienza di giovanili arrivato al Cesena dopo aver vinto uno scudetto Giovanissimi con il Bologna. «La società aveva deciso di metterlo a lavorare sull’annata ’77, la mia, e di seguirla fino alla Primavera». Ballardini capisce che Massimo è fuori ruolo, inizia a provarlo un po’ ovunque, fino a quando diventa chiaro che quella ex riserva dell’attacco può essere uno dei centrocampisti centrali italiani più interessanti della sua età.
Ambrosini segna il gol della bandiera nella anglo-cup con il Derby County finita 6-1. Una delle sue rare immagini in maglia bianconera.
Nella stagione 93/94, in una Primavera di sedicenni, inizia a portare il suo livello ben sopra a quello mediamente atteso per la categoria. La controprova arriva a febbraio del 1994, dagli studi di Teleromagna. «Tutti i lunedì sera facevano un programma sportivo che parlava solo del Cesena. Quella volta lo stavo guardando con mio padre. Me lo ricordo ancora, eravamo sul divano in salotto. A un certo punto chiedono ad un dirigente un nome da tenere d’occhio per il futuro e lui fa il mio. Era la prima volta che sentivo dire Ambrosini in tv. Mi si è gelato il sangue».
L’anno dopo è già tra i grandi. «Anche lì, ci vuole fortuna: il Cesena perde lo spareggio per la A col Padova e restando in B diventa molto più facile portare in prima squadra un giovane come me». In preparazione un paio di titolari di centrocampo si fermano, lui li sostituisce, gioca bene e non esce praticamente più dall’undici. A 17 anni, il suo campionato da titolare in una serie B molto competitiva – «c’era anche il Piacenza di De Vitis e Pippo, per dirne una» – ingolosisce più di una squadra di A.
La scena chiave è ancora attorno al divano del salotto di casa Ambrosini. Stavolta la tv è spenta e la famiglia sta ascoltando il suo procuratore. Sorseggia il caffè che la mamma di Massimo gli ha appena portato e li aggiorna sul futuro del ragazzo. «Era venuto a dirci che mi volevano Lazio e Fiorentina, ma che il Milan poteva chiudere tutto in poco tempo. Poi aveva guardato i miei. Iniziate ad abituarvi all’idea che l’anno prossimo non lo avrete più in casa con voi».
Romanzo di formazione
«Il primo giorno a Milanello sei a metà tra il sogno e la realtà»: a leggerle, parole del genere sembrano già sentite mille altre volte, ma ascoltate dalla voce di Massimo Ambrosini suonano più autentiche. Lui parla di uno straniamento che non passa nemmeno dopo i primi allenamenti: «Eh come si fa? A fianco di gente come quella mi sentivo ancora il ragazzino del Cristo Re. Per esempio Baresi. Sembrava circondato da un’aura di, non so, autorevolezza, rispetto, classe. Ero in soggezione».
Giocava e guardava come giocavano gli altri. «Gli acquisti principali di quella sessione erano stati Baggio e Weah, per farti capire. Nel mio ruolo c’erano Desailly e Albertini. Demetrio mi ha aiutato molto, era portato ad insegnare. Poi nel tempo abbiamo anche costruito un bellissimo rapporto, ma non subito. Appena arrivato io ero il ragazzino e loro i campioni, due mondi differenti».
«Il senso d’appartenenza al Milan lo crea anche Milanello. Non è una suggestione dire che la casetta gialla che vedi entrando, gli spogliatoi, i campi, i corridoi, rimandano alla memoria tutti quelli che sono passati di lì. C’è un alone di gloria».
Nei primi quattro mesi gioca una decina di partite tra campionato e Coppa Uefa. Non poche per un diciottenne arrivato dalla serie B in una squadra che viene da tre finali di Champions e due Scudetti negli ultimi tre anni. «Poi la prima volta che sono andato con la Primavera mi sono infortunato. Rottura del crociato e stagione finita».
Ricomincia ad allenarsi l’estate ’96, con Tabarez, alla vigilia di un brutto campionato. La classifica finale inabisserà il Milan all’undicesimo posto, 6 punti sopra la retrocessione. «Era una squadra abituata a Capello. Passare da lui a Tabarez inconsciamente deve aver portato ad un rilassamento». A dicembre il ginocchio salta di nuovo e durante la sua assenza al posto di Tabarez torna Sacchi.
Gasperini recentemente ha detto che esistono allenatori che gestiscono e allenatori che allenano (il tecnico dell’Atalanta metteva sé stesso nel secondo gruppo). In questo senso, un allenatore come Sacchi , con delle idee tattiche poco malleabili, da assimilare con una pratica maniacale, non era il più adatto a traghettare, forse serviva un uomo di gestione? «Sono d’accordo. Aggiungi a questo il fatto che tornava in una realtà in cui aveva segnato una pagina del calcio moderno, e dunque sentiva una responsabilità doppia. Voleva far tornare una cosa che non c’era più. A metà stagione, in una situazione difficile, non puoi pensare di avere lo stesso approccio che puoi permetterti a luglio. E soprattutto non puoi chiedere a una persona quel che non è in grado di fare».
Il bilancio personale di Ambrosini alla fine di due mezze stagioni non era comunque negativo. «Nonostante i due pesanti infortuni, capivo che i mesi che ero riuscito a passare in gruppo mi avevano migliorato tanto». Massimo percepisce i suoi miglioramenti – «Di quel periodo ricordo la sensazione di aggiungere qualcosa ogni anno» – e sente che deve giocare per misurarli veramente. Per questo chiede di essere ceduto in prestito. «In realtà non l’ho chiesto direttamente. Diciamo che l’ho fatto capire. Volevo vedere a che punto ero». Quindi Vicenza, una provinciale in Europa. «Con l’arrivo di Maini al Milan si è aperto un canale tra le due società. Mi avevano parlato bene di Guidolin e avrebbero fatto la Coppa delle Coppe. Ne ho approfittato».
La “maledetta” semifinale di ritorno con il Chelsea. Sul gol del vantaggio del Vicenza, il giovane Ambrosini lascia saggiamente il tiro a Pasquale Luiso.
Un giovane che lascia una squadra di blasone per andare a farsi le famose ossa, si espone a mille variabili. Riuscirà a mettersi in luce o si impantanerà nel limbo di una infinita catena di prestiti? «Sono rari i giovani su cui puoi dire con ragionevole certezza che arriveranno. Io sono andato a Vicenza senza garanzie. Potevo tornare, come no. Dipendeva da me. Ma era esattamente quello che volevo in quel momento».
Vicenza si dimostra una pista di decollo perfetta. «La stagione ideale per crescere. Un intero campionato in A da titolare, una Coppa delle Coppe fino alla semifinale, la salvezza ottenuta nelle ultime giornate. Dieci mesi sempre sul pezzo». Esce anche un senso di rispettosa gratitudine per Guidolin: «Leale, bravo a responsabilizzare, con lui si cresce tatticamente e nella gestione dei momenti».
Il giocatore che torna da Vicenza è diverso «nella testa, soprattutto». L’ammirazione del ragazzino per i campioni che vedeva in tv ormai è un ricordo. Ora c’è la convinzione di potersela giocare con chiunque in rosa in quel primo anno di Zaccheroni al Milan. «C’era la voglia di azzerare tutto. Zaccheroni ha avuto carta bianca persino nella rinuncia al dogma della difesa a quattro. È stato coraggioso a imporre le sue idee e fortunato a trovare gente come Maldini, Costacurta, Albertini che hanno fatto capire al gruppo che andava seguito ad occhi chiusi».
Finirà con lo Scudetto più inaspettato dell’epopea berlusconiana, nonostante all’inizio le difficoltà fossero molte.
Il suo primo gol in serie A è decisivo per il suo primo scudetto. Lo fa con il piede debole in Milan Sampdoria 3-2, fondamentale per proseguire l’inseguimento alla Lazio, in quel momento ancora prima.