Il sacrificio di Ranocchia
Storia d’odio tra l’Italia e Andrea Ranocchia.
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Quando ha iniziato a giocare male, Ranocchia è passato dall’essere un difensore umile a essere un difensore “senza palle”. Qualsiasi suo problema tecnico, a quel punto, viene ricondotto alla sfera dell’intangibile psicologico. In un’intervista del 2011 – che si apre con le parole “Puntuale, umile e monogamo” – gli si chiede se il fatto che abbia segnato ancora poco – come se poi fosse un rimprovero da prendere con serietà, per un difensore di 23 anni con già 4 gol in Serie A – si può ricondurre a un problema di “motivazioni”.
A quel punto lui è costretto a rispondere con una razionalità che non sembra appartenere al mondo che lo circonda: «Non credo ci sia un problema di motivazioni, credo piuttosto che devo migliorare il mio tempismo».
Due anni fa Mancini ha dichiarato che il problema di Ranocchia è che è “troppo buono”. In un’intervista recente Ranocchia ha confessato di essere stato vittima di nonnismo da spogliatoio quando era più giovane. Una dichiarazione che ha lasciato un’ombra ancora più cupa sulla sua storia: «Ho iniziato a giocare negli anni del nonnismo pesante in spogliatoio». Poi fa anche i nomi dei suoi “persecutori”: «Carrozzieri, Abbruscato e Mirko Conte nell’Arezzo, avevo 17 anni e come se non bastasse andavamo a giocare in campi terribili: l’Arezzo era la squadra più a nord del girone».
In seguito Carrozzieri ha commentato queste dichiarazioni dicendo che, anzi, Ranocchia dovrebbe ringraziare lui e Mirko Conte per avergli insegnato i trucchi del mestiere: «Aveva davanti a sé due difensori come me e Mirko Conte ed è anche merito nostro se ha fatto tutta questa strada».
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Non è chiaro, in realtà, quando le cose hanno iniziato a mettersi male per Ranocchia. Se nei quarti di finale di Champions League contro lo Schalke 04, quando ha fatto il primo autogol della carriera, il gol del 4 a 2 per i tedeschi; oppure nella trasferta a Novara, l’anno successivo, quando l’Inter ha perso per 3 a 1 contro una delle peggiori squadre mai passate in Serie A. Quel giorno Ranocchia non era riuscito a marcare Morimoto, su cui causa il rigore del 2 a 0, facendosi anche espellere. Dopo quella partita Ranocchia ha perso il posto da titolare e ricorda quello, il 2011-12, come l’anno peggiore della sua carriera, ma anche quello che gli ha permesso di crescere di più (in Ranocchia c’è, sempre, questa visione, un po’ calvinista, per cui la sofferenza eleva e nobilita).
Nel girone di ritorno dell’anno con Ranieri ritrova qualche presenza ma continua a impreziosirle con errori così imbarazzanti e peculiari da essere diventati una specie di signature move in negativo.
In quest’azione Ranocchia ha tante attenuanti. È la fine di una partita compromessa, è stanco, e viene puntato in campo aperto da uno dei Cavani più straripanti di sempre. Farsi saltare sarebbe comprensibile, ma farsi saltare appallottolandosi come una cartaccia sporca è patetico. Ricordando quella stagione Ranocchia riconosce un punto di cesura: «Prima di allora la mia carriera era sempre stata in ascesa. Una stagione così mi ha aiutato a crescere. Quando giochi poco poi fai fatica a trovare il ritmo e non sbagliare nulla. E le poche volte che Ranieri mi ha mandato in campo ho fatto errori gravi».
Ma contrariamente da quanto dice, probabilmente spinto a emulare una retorica per cui si può crescere solo attraversando a nuoto un oceano di difficoltà, giocare male non ha aiutato in nessun modo Ranocchia a diventare un calciatore migliore.
Certo, non è una regola universale, ma per uno sportivo cresciuto protetto dall’aura della sua predestinazione, affrontare dei momenti negativi talvolta può aiutare solo a scalfire il muro di sicurezze, a mettere dei tarli nella testa.
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Torniamo un attimo sulla nozione di “Ranocchiata”. Cioè quel genere di errori gravissimi che hanno segnato in maniera indelebile la carriera di Ranocchia. Hanno scavato così a fondo nel nostro immaginario perché non sono errori normali, ma momenti in cui Ranocchia non sembra perfettamente in controllo delle proprie facoltà psicomotorie e i suoi 195 cm sembrano finire in cortocircuito.
Fra i miei momenti preferiti del video qui sopra, con sottofondo di Tchaikovsky, c’è quello in cui Ranocchia va a chiudere sulla fascia con totale convinzione, ma calcola male praticamente tutto e si fa saltare cascando.
E poi tutti quei momenti in cui Ranocchia non riesce a limitarsi a “farsi saltare”, ma deve sempre mettersi in imbarazzo. Come quando contro la Sampdoria perde un duello fisico in campo aperto con il 34enne Gilardino costringendo De Silvestri al recupero miracoloso.
Quasi tutti gli errori gravi di Ranocchia, in un modo o nell’altro, causano un gol: il passaggio sbagliato contro il Bologna diventa un gol di Donsah da fuori area; la palla sbucciata contro il Palermo diventa un altro gol da fuori di Barreto, e poi quello più umiliante, quando si fa scavalcare da Icardi, l’uomo che gli ha tolto la fascia da capitano, che poi va a segnare.
A volte sembra che gli attaccanti riescano a passargli attraverso, mentre Ranocchia riduce la propria figura occupando il minimo spazio possibile, fin quasi a scomparire.
Ma anche guardando i video dei suoi anni a Bari Ranocchia non sembra un difensore impeccabile. In una partita contro il Napoli, ad esempio, è molto in difficoltà contro Quagliarella. Se lo perde in area in occasione di un gol e poi si fa espellere nel finale per un’entrata in ritardo su Lavezzi. In quest’altra partita, contro la Roma, perde una palla da ultimo uomo che compromette l’intera partita. In un servizio di Telenorba si dice «Anche Ranocchia può sbagliare ogni tanto».
Forse Ranocchia non è mai davvero stato il difensore che volevamo tantissimo che fosse?
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Il rapporto tra Ranocchia e il pubblico italiano si è fondato su un grosso equivoco. L’idea che Ranocchia fosse l’archetipo del difensore moderno: forte, agile, atletico, tecnico. Elegante nelle chiusure, efficace nel gioco fisico, tecnico nella costruzione dal basso.
Un equivoco ribadito anche da un recente articolo di Michele Dalai sul cartaceo di Rivista Undici, secondo cui il problema di Ranocchia sarebbe averlo cresciuto sotto i precetti del “sacchismo”, facendone un difensore “decorativo”, bravo più a creare che a distruggere il gioco.
In realtà, il problema di Ranocchia sembra essere l’opposto: l’anacronismo, più che l’eccessiva modernità. Non solo Ranocchia non sembra avere le doti atletiche per fronteggiare l’iperdinamismo degli attaccanti contemporanei; ma non ha neanche aggirato i propri limiti fisici attraverso un’interpretazione cerebrale del gioco come quella di Bonucci.
È difficile dire che Ranocchia ha iniziato a giocare davvero peggio, a un certo punto; mentre è senz’altro vero che ha iniziato ad essere trattato sempre peggio. In Italia le opinioni si formano e cambiano molto velocemente, quando uno sportivo finisce la propria curva ascendente ha due strade davanti: può diventare un “venerato maestro” , consolidandosi come una specie di monumento vivente; oppure può sgretolarsi, un po’ alla volta, facendo proliferare il risentimento dei tifosi nello spazio che si apre fra ciò che è e ciò che avremmo voluto che fosse.
Alla seconda categoria di giocatori appartengono talenti sfioriti del calcio italiano. Giocatori che dopo tutta una trafila giovanile gonfia di promesse non si sono rivelati all’altezza dell’idea che i tifosi avevano di loro. Ciò che non perdoniamo, nel profondo, a questi giocatori è di non aver disperso il proprio talento per eccesso ma per fragilità.
Nella scala morale del pubblico italiano, fallire per mancanza d’attributi è peggio che fallire perché si è poco professionali.
Il vitalismo, anche quello più distruttivo, è sempre più rispettato della debolezza.
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Sui social network Ranocchia viene quotidianamente massacrato. Ecco qualche commento che esemplifica il tono, tutti presi da una foto di Ranocchia che si allaccia gli scarpini:
- Se Ranocchia è in seria A io in nazionale ci posso gioca..
- spero che a gennaio te ne vada ,ora che è tornato Andreolli non dovremo piu’ vederti in campo
- Che ti alleni a fà, sei l anticalcio
- Da quando hai le gambe Andrè?
- Altro che Nike, servirebbero delle Bibbie per farti giocare bene
- te rompissi tutto
- Brava persona eh, ma il calcio è un altra cosa.
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Per questo trattamento speciale che i tifosi gli riservano, un accanimento spietato e totale che si distacca dal suo reale rendimento calcistico, Ranocchia viene spesso accostato a Montolivo. Anche Montolivo fa parte di quei talenti italiani che, nell’opinione comune, hanno promesso molto e mantenuto poco per mancanza di carattere. Per entrambi le critiche sui social oltrepassano i limiti della civiltà.
Persino quando Montolivo si è rotto il legamento crociato, per la seconda volta in carriera, a inizio della stagione in corso, ha ricevuto insulti e odio gratuito, a cui ha risposto con una sobrietà dolorosa: «Una carezza a chi mi ha augurato il peggio. Siate più educati».
Ranocchia ha dichiarato di aver scritto a Montolivo dopo aver letto i messaggi di chi gli augurava il peggio: «Io ho partecipato a una campagna contro il cyberbullismo, perché penso a tutti i ragazzi che non hanno la forza di reagire. Una soluzione non ce l’ho. Posso solo parlare per me, e dire che sono arrivato al punto che non è più un problema».
Per entrambi, da quando sono stati ricoperti di una specie di scorza di negatività, è stato molto difficile far cambiare opinione nei loro confronti: un centravanti come Pazzini, o come ora Gabbiadini, ha sempre a disposizione la concretezza del gol come fatto incontestabile; per giocatori come Montolivo e Ranocchia, che giocano in ruoli meno appariscenti, è difficile giocare così bene da convincere gli altri a cambiare opinione.
Per un difensore è più semplice mettersi in luce in negativo, con qualche errore decisivo che arriva a vanificare, agli occhi del pubblico, mesi di rendimento costante.
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La stagione 2012-13, con Stramaccioni in panchina, è forse la migliore di Ranocchia. Gioca in difesa insieme al coetaneo Juan Jesus e lascia pensare che l’Inter possa essere ricostruita sulle loro spalle. Dopo un periodo di difficoltà iniziali, l’Inter mette insieme dieci vittorie consecutive, espugnando per la prima volta nella storia lo Juventus Stadium.
In un articolo di quel periodo, Bleacher Report lo indica come il principale motivo della rinascita dell’Inter; lui, in un impeto di vanagloria, dice: «Sembrava quasi che in un anno storto si fosse cancellato tutto quello che di buono avevo fatto negli anni precedenti, ma ora sono partito bene e mi sto divertendo, sono convinto che continuerò a farlo».
Anche provando a leggere le statistiche, quella stagione sembra essere la migliore di Ranocchia: più tackle, più intercetti, più duelli aerei vinti.
Ma ormai i pregiudizi erano troppo solidi, e quando la stagione dell’Inter comincia a naufragare, insieme a Stramaccioni, Ranocchia viene inghiottito di nuovo dalle critiche, cancellando forse l’ultima possibilità di riscatto di Ranocchia. Nell’arco discendente della sua esperienza interista, in pochi ricordano le ottime prestazioni di quei mesi, risucchiati da pregiudizi eterni come la roccia.
Di fronte alla spietatezza del trattamento che il pubblico gli ha riservato, Ranocchia è stato ambiguo. Da una parte si è sforzato di mostrarsi indifferente, se non addirittura fortificato, dalle critiche. Ma dall’altra parte, per molti dei suoi atteggiamenti, come per molte delle sue prestazioni, Ranocchia sembra giocare da qualche anno con qualcosa di rotto dentro.
Solo qualche mese fa ha confessato di essere seguito da un mental coach, anche se ci ha tenuto a specificare che non si tratta di uno psicologo: «Da tre mesi vado in un centro in cui mi seguono dal punto di vista fisico e psicologico. C’è una persona con cui parlo ma non è uno psicologo: è laureato in Fisioterapia ma è anche esperto di mental training».
Quanto ha inciso su questo suo atteggiamento, la difficoltà nell’ambiente sportivo di parlare di problemi di fragilità psicologica?
Viviamo in un paese in cui sono state stimate 4 milioni e mezzo di persone depresse, nonostante ciò non esiste alternativa, per un calciatore, all’ideale machista classico. Problemi mentali sono sinonimo di debolezza, la debolezza è tabù.
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Lo scorso anno è stato chiesto a Zradko Kuzmanovic di raccontare un aneddoto sulla sua esperienza all’Inter: «Ogni giorno con Ranocchia facevamo scherzi. Devo confessarti che il migliore scherzo che ho fatto l’ho fatto proprio a Ranocchia quando gli ho tolto tutte le gomme dell’automobile. Avresti dovuto vedere la faccia».
Certi aneddoti su Ranocchia sono semplicemente ridicoli. Quel tipo di dettagli che in un modo o in un altro definiscono la figura pubblica, se non l’identità dell’uomo in questione. Nel 2015 a Faenza è andata in scena una rapina in una lavanderia. Dopo qualche giorno il ladro è stato riconosciuto perché al momento del furto indossava una maglia di Ranocchia. Con senso dell’umorismo, il giorno dopo Ranocchia ha scritto su facebook: «Stavolta io non c’entro niente».
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Probabilmente, più di ogni altra cosa, sulla reputazione di Ranocchia ha inciso il fatto di essere stato il simbolo più evidente di un ciclo estremamente grigio della storia dell’Inter (così come Montolivo lo è stato per il Milan).
Ranocchia è arrivato 6 mesi dopo la vittoria del triplete, doveva essere l’ambasciatore di una ricostruzione graduale sui migliori giovani italiani ma con le sconfitte è diventato il capro espiatorio principale del fallimento del progetto. Tutti i giovani passati all’Inter in quegli anni sono stati trattati con una severità inconsueta persino per gli standard del calcio italiano: Guarin, Santon, Alvarez, Juan Jesus, Kovacic, Schelotto, Pazzini. Tutti loro hanno lasciato nei tifosi un ricordo amaro, sgradevole o in altri casi di totale risentimento.
Il valore simbolico di Ranocchia è stato aumentato dal fatto che a un certo punto della sua carriera, e senza motivi che lo giustificassero, è stato nominato capitano dell’Inter. Forse perché in un certo senso rispecchiava l’ideale archetipico del capitano dell’Inter, stabilito da Facchetti e Zanetti: una persona umile, seria e con una vaga sfumatura di stoicismo.
In panchina c’era Walter Mazzarri, che si dice abbia bloccato una sua cessione alla Juventus (lo voleva Conte) e che ha indicato la scelta come un fatto di professionalità: «Colui che dimostrerà di essere più professionale, i requisiti sono tanti. Per me Andrea Ranocchia è il più adatto, perché ha i requisiti per prendersi questa responsabilità».
Quando gli viene chiesto che tipo di capitano vuole essere risponde con la solita leggera schizofrenia: «Vittorioso. Io di non vincere mi sarei anche un po’ rotto».
Uno dei primi gesti di Ranocchia da capitano è quello di sottoscrivere il “Manifesto del partito dell’Inter”, in cui lo spogliatoio nerazzurro ha firmato una serie di regole, un po’ sgrammaticate, che definiscono un certo atteggiamento mentale della squadra. Tra cui: “si vince, si perde, tutti si prendono le responsabilità”. E: “Non arrendersi mai”.
Ma l’eterno ritorno dei cicli di speranza di riscatto e delusione sono il filo che lega Ranocchia all’Inter. Un anno dopo, un anno estremamente negativo nella percezione pubblica di Ranocchia, la fascia di capitano gli viene tolta. «La fascia di capitano mi fu tolta per essere affidata ad Icardi. Venivo da una stagione decisamente negativa, nella quale subii feroci attacchi da parte di tutti».
Non mi viene in mente un altro esempio di destituzione di un capitano nella storia recente del calcio italiano e non è facile capire, dall’esterno, le dinamiche che governano scelte di questo tipo. Quello che possiamo dire è che, in un certo senso, Icardi rappresenta ciò che Ranocchia si sforza di essere: un giocatore che fagocita le critiche e l’odio dei tifosi trasformandolo in energia positiva sul campo. Ranocchia sembra il tipo di giocatore che si sforza da una vita a tenere un comportamento esemplare – tra le altre cose, ha una sua onlus – senza riuscire a diventare davvero un esempio, mentre Icardi è diventato un esempio, nel bene o nel male, per puro carisma.
Commentando la perdita della fascia, Ranocchia è stato ambiguo. Da una parte ha definito la fascia da capitano “un pezzo di stoffa”: «Ciò che conta è dentro di te. Ed io sono consapevole di essere un giocatore che per l’Inter dà tutto se stesso»; ma alcuni mesi più tardi ha menzionato la perdita della fascia come una delle cose brutte che gli sono capitate in carriera.
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Adesso l’Inter sta vivendo il periodo di forma più positivo degli ultimi anni, lasciando intravedere un puntino di luce alla fine del tunnel, ma Ranocchia è in Inghilterra, con la pace del reduce. Pochi giorni fa ha postato un video di lui che sorride davanti a una straziante costa portoghese: nei commenti sottostanti i toni d’odio sono svaniti e sono rimasti solo gli autentici fan di Ranocchia, tutti accomunati da una specie di senso di rivalsa verso la crudeltà della cultura sportiva italiana.
Al suo esordio, contro il Manchester UTD, Ranocchia gioca 25 minuti di livello, difendendo in modo molto intenso e aggressivo, vincendo ogni duello aereo in cui è coinvolto in una fase in cui lo United lancia spesso la palla alla rinfusa.
Alla prima da titolare, contro il Liverpool, è addirittura il migliore in campo. Una partita in cui è sembrato saper fare tutto: tagliare il campo con passaggi in verticali precisi e intelligenti; difendere in avanti sulle tracce filtranti degli avversari; mostrarsi solido nell’uno contro uno in campo aperto; e ovviamente dominare nei duelli aerei, vincendone addirittura 7.
A 10 minuti dalla fine, per ripulire una palla sporca sotto pressione, si inventa una palla in verticale di 30 metri che manda in porta Niasse. Un passaggio di ambizione fantascientifica per un difensore umile fino all’insicurezza come Ranocchia. Alla fine è stato eletto migliore in campo ed è entrato nella Top-11 della Premier League.
È già un idolo dei suoi nuovi tifosi e qualche giorno fa ha rilasciato un’intervista in cui sembra già aver capito molto da questi pochi mesi: «La più grande differenza è il modo in cui è vissuto lo sport. Tutti mi avevano avvertito che sarebbe stato difficile, e invece sto dicendo a tutti che è grandioso. Sono più felice qui di come ero in Italia».
Ma questa condizione durerà o è solo un paradiso temporaneo? Cosa farà Ranocchia dopo il primo errore, si rialzerà dimostrando che gli serviva solo un contesto che credeva in lui, dando finalmente spessore alle parole con cui si è sempre detto fortificato dalle critiche, oppure crollerà di nuovo? Basteranno questi mesi a distinguere una volta per tutte i suoi problemi tecnici da quelli mentali?
Lo scorso dicembre, nella stessa intervista in cui parlava di nonnismo, gli è stato chiesto qual è l’obiettivo della sua carriera, e Ranocchia ha messo il piano sportivo in secondo piano rispetto a quello umano: «Che tante persone mi prendano da esempio. Non solo e non tanto per i successi, i gol, i salvataggi, i tackle. Ma per quello che ho fatto nel calcio dal punto di vista della voglia di reagire, di non farsi abbattere. E vorrei che l’esempio servisse anche a chi fa altri lavori».
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Il concetto di “capro espiatorio” è stato introdotto nella psicologia dei gruppi prendendolo dalla religione ebraica. Nel rito del Kippur, il giorno dell’espiazione, la comunità chiede il perdono dei propri peccati. Al termine della cerimonia il sacerdote caricava le colpe dell’intero popolo su un capro, mandato poi via nel deserto insieme a tutto il male della comunità.
Nel Levitico il rito viene raccontato così: «Aronne farà accostare il capro vivo e stendendo le mani sopra la testa di esso, confesserà sopra di lui tutte le colpe e tutti i falli e tutti i peccati degli Israeliti, e fattili passare sulla testa del capio, lo manderà via nel deserto…. Così il capro si porterà addosso tutte le colpe loro…».