Il più grande?
Cosa manca a Mo Farah per raggiungere la gloria dei suoi predecessori.
Le accuse
L’esplosione tardiva di Mo Farah ha fatto molto discutere. Prima del 2011, il britannico era conosciuto solo per le sue vittorie in Europa (argento nei 5.000 a Goteborg 2006, doppio oro a Barcellona 2010) e per qualche piazzamento a livello mondiale nei 5.000: sesto ai Mondiali 2007, eliminato in batteria alle Olimpiadi di Pechino 2008 e settimo ai Mondiali 2009. Poi è arrivato il boom di Daegu 2011, dove si presentava da favorito.
Tra il nulla e i trionfi c’è un nome. È quello del suo allenatore Alberto Salazar, ex atleta americano di alto livello. Mo Farah ha iniziato ad allenarsi con Salazar a inizio 2011 e, da lì, è diventato imprendibile. È entrato nel gruppo di allenamento Nike Oregon Project, creato a inizio secolo dalla marca di abbigliamento sportivo e di cui Salazar è capo allenatore. Questo significa allenarsi a Portland, ma non solo: significa anche far parte di un progetto che, da quindici anni, lavora per riportare ai vertici mondiali il mezzofondo americano. Simbolo di questo obiettivo è Galen Rupp, trent’anni, forse l’unico bianco in questi anni in grado di battagliare ad armi pari con etiopi, keniani e, ovviamente, Mo Farah. Fin dai sedici anni, Galen Rupp è stato allenato proprio da Salazar.
Negli anni le allusioni al doping sono arrivate da più parti, come succede come per qualunque atleta di livello mondiale. Ma le accuse più pesanti risalgono all’anno scorso. Prima per alcune foto che lo ritraevano mentre si allenava con Hamza Driouch, ex campione del mondo juniores squalificato per doping a partire dal 31 dicembre 2014. A inizio giugno un’inchiesta della Bbc, trasmessa nel corso della trasmissione Panorama, ha raccolto alcune testimonianze di casi di doping legati al Nike Oregon Project e al ruolo di Salazar: tra i diversi attacchi il più pesante era forse quello del suo ex collaboratore Steve Magness, che l’ha accusato di aver dopato Galen Rupp con il testosterone. Quando Salazar ha pubblicato una lettera aperta in cui si difendeva punto per punto dalle accuse che gli venivano rivolte, Mo Farah si è schierato con lui. Ma nel frattempo il Daily Mail ha pubblicato un articolo in cui rendeva noto che, tra il 2010 e il 2011, il campione britannico aveva saltato due test antidoping. Saltarne un terzo nel giro di dodici mesi avrebbe significato dare l’addio alle Olimpiadi di Londra. Lui ha replicato dando disponibilità al Sunday Times di pubblicare i dati del sangue derivanti da venti test antidoping sostenuti tra il 2005 e il 2012 , per dimostrare che non presentavano valori anomali. Quest’anno è stato arrestato Jama Aden, l’allenatore della campionessa etiope Genzebe Dibaba, con cui Mo Farah ha incrociato le strade, a volte, sui campi di allenamento. Ma Mo Farah non è mai stato seriamente accusato in via ufficiale: un conto sono le voci (anche su alcuni malori post-gara e sui valori dell’emoglobina saliti negli anni), ma tecnicamente il britannico non è mai stato trovato positivo a un test antidoping. Il suo coach Alberto Salazar, che è finito sotto investigazione da parte dell’agenzia antidoping americana, ha sempre rispedito al mittente le accuse che gli sono state rivolte e non è mai stato riconosciuto colpevole di nulla.
Chi è il re?
Comunque vadano quest’anno i Mondiali, alla luce di sette ori tra Olimpiadi e Mondiali, sono maturi i tempi per iniziare a chiedersi che valore abbia avuto Mo Farah nella storia dell’atletica leggera. Mo Farah è almeno il terzo, negli ultimi vent’anni, di cui si parla come del “più grande di sempre” nei 5.000 e nei 10.000. Lasciando stare leggende più datate, come il finlandese Paavo Nurmi o il cecoslovacco Emil Zatopek, per capire il valore di Mo Farah vale la pena guardare tra i protagonisti degli ultimi decenni di atletica.
Nell’ultimo quarto di secolo sono tre gli uomini che hanno monopolizzato il mezzofondo prolungato. È tra loro tre che si sono spartite quasi tutte le medaglie d’oro dei 5.000 e dei 10.000 metri assegnate tra i Mondiali di Stoccarda 1993 e quelli di Pechino 2015. Le poche che non sono finite al loro collo sono andate ad altri perché i tre dittatori non correvano quel giorno, oppure perché c’era qualche fuoriclasse in giornata di grazia capace di fare l’impresa. Questi tre atleti si sono dati il cambio l’uno con l’altro, in maniera tanto regolare da non pestarsi quasi i piedi nel corso dei passaggi di potere. Non ci sono mai stati veri e propri dualismi, solo passaggi di testimone come in una lunghissima staffetta.
Il primo fenomeno è stato l’etiope Haile Gebrselassie. Nato in una fattoria nel 1973, anno di morte del leggendario maratoneta Abebe Bikila, correva venti chilometri al giorno per coprire il tragitto casa-scuola. Di quell’epoca ha portato dietro, per tutta la carriera, l’abitudine di tenere il braccio sinistro fermo in una piega innaturale durante la corsa: era quello con cui portava i libri. Nel 1992 fu campione mondiale juniores nei 5.000 e nei 10.000. Non aveva ancora vent’anni ai Mondiali di Stoccarda 1993: arrivò secondo nei 5.000 metri e vinse i 10.000 grazie anche al kenyano Moses Tanui, che perse una scarpa nell’ultima parte di gara.
Da quel momento, Gebrselassie dominò la scena per un decennio. L’anno successivo fece il record mondiale dei 5.000, nel 1995 aggiunse anche quello dei 10.000. Li ha migliorati entrambi più volte: il suo primo primato mondiale nella distanza più corta è stato di 12’56’’96, l’ultimo di 12’39’’36, mentre sui 10.000 è sceso dai 26’52’’23 del 1995 ai 26’22’’75 del 1998. Non è esagerato dire che ha portato le sue gare un gradino più in alto, come hanno fatto Usain Bolt con la velocità e Yelena Isinbayeva con l’asta. Ha vinto quattro volte di seguito i Mondiali nei 10.000 metri, dal 1993 al 1999. Ha vinto due Olimpiadi, sempre nei 10.000, nel 1996 e nel 2000. Avrebbe pure potuto vincere di più, ma non gli è mai interessato correre i 5.000 nelle gare importanti. Gebrselassie ha avuto tutto dall’atletica. I soldi li ha investiti diventando un imprenditore di successo: ha diversi alberghi e scuole, è impegnato nell’edilizia ma si occupa anche di altro. La fama, che l’ha trasformato in una specie di imperatore honoris causa tra gli etiopi, vuole metterla a frutto in politica, con l’obiettivo di diventare presidente dell’Etiopia.
Gebrselassie, che già nel 2001 ai Mondiali di Edmonton ha subito una prima sconfitta per opera del kenyano Charles Kamathi e dell’etiope Assefa Mezgebu, passando definitivamente il testimone a Parigi il 24 agosto 2003, dieci anni e due giorni dopo la vittoria di Stoccarda. A togliergli lo scettro è stato un suo connazionale di nove anni più giovane, Kenenisa Bekele. Un cognome che, ironia della sorte, è anche il nome di battesimo del padre di Gebre. Gebrselassie ha tirato tutta la gara, correndo in 12’57’’ gli ultimi cinque chilometri, ma Bekele gli è rimasto a ruota fino a 200 metri dalla fine: a quel punto lo ha superato andando a vincere, come tante volte aveva fatto Gebre prima di lui con i suoi malcapitati avversari.
Il passaggio di consegne.
Kenenisa Bekele ha migliorato entrambi i record del suo maestro: nel 2004 ha portato il primato dei 5.000 a 12’37’’35 e quello dei 10.000 a 26’20’’31. L’anno dopo, sempre nei 10.000, è sceso fino a 26’17’’53. Ha vinto tre ori olimpici, sui 10.000 nel 2004 e sui 5.000 e 10.000 nel 2008. La doppietta gli è riuscita anche ai Mondiali del 2009, mentre nel 2005 e nel 2007 si è accontentato dei soli 10.000 metri. Poi gli infortuni lo hanno quasi fatto sparire dall’atletica: ha provato con la maratona, sulle orme di Gebrselassie, ma in quel campo non è mai riuscito a fare bene come il suo maestro. Per Bekele, fuori dalla pista, c’è sempre stata solo la corsa campestre, la stessa specialità che lo aveva lanciato nel mondo dell’atletica che conta. In mezzo all’erba probabilmente è stato ancora più forte che sul tartan.
Finita l’epoca di Bekele, è arrivato Mohamed Farah. Per ora il britannico ha vinto due ori olimpici, come Gebrselassie e uno in meno di Bekele: ma quest’anno potrebbe superare anche il secondo etiope, se gli riuscisse la quarta doppietta di fila. Ai Mondiali, vanta la bellezza di cinque ori: quanti ne ha conquistati Bekele, mentre Gebrselassie si è fermato a quattro. Insomma, a giudicare il numero di vittorie Farah sembrerebbe il più grande di tutti i tempi. Ma è veramente così?
I detrattori potrebbero indicare i tempi ottenuti dal britannico, che per qualità sono molto inferiori a quelli dei suoi due predecessori: non solo non ha mai ottenuto un record del mondo nelle sue gare, ma non vi si è mai nemmeno avvicinato. Il suo miglior crono nei 5.000, 12’53’’11, è record britannico ma basta appena a metterlo al trentunesimo posto tra i corridori di questa distanza, a quasi 16 secondi da Kenenisa Bekele. Nei 10.000 ha il record europeo ma è sedicesimo con 26’46’’57, a 29 secondi dallo stesso Bekele.
C’è anche un altro elemento che potrebbe ridimensionare le reali qualità di Mo Farah: la grandezza degli avversari. Gebrselassie si è confrontato con il meglio che il Kenya ha saputo offrire in quelle distanze negli ultimi decenni. Ha combattuto contro Daniel Komen e Paul Tergat, due campioni che, se non si fossero trovati davanti lui, avrebbero le bacheche invase dall’oro mentre invece, tranne qualche eccezione, sono stati abbonati all’argento per tutta la carriera. Indimenticabile resta la volata finale dei 10.000 metri a Sydney 2000, un interminabile spalla a spalla tra Gebrselassie e Tergat con il primo che riuscì a sconfiggere il secondo per soli nove centesimi. Per usare un termine di paragone, basta ricordare che nella stessa rassegna olimpica, il distacco tra l’oro e l’argento dei 100 metri (e quindi tra l’americano Maurice Greene e il trinidegno Ato Boldon) fu più ampio: dodici centesimi. Anche Bekele si è scontrato con avversari di grande qualità: come ricordato, è diventato campione del mondo sconfiggendo la leggenda assoluta (e suo eroe personale). Nel 2004 è stato sconfitto in finale dei 5.000 da El Guerrouj, forse il migliore di sempre sui 1.500. E in seguito ha avuto almeno la concorrenza dell’eritreo Zersenay Tadese, che nel 2009 ai Mondiali di Berlino lo ha costretto a impegnarsi per tutta la gara dei 10.000, e di Bernard Lagat, che sempre in Germania nei 5.000 ha rischiato di fare il colpaccio all’ultimo rettilineo. Mo Farah non ha avuto avversari di questo livello: troppo vecchio Lagat per essere brillante come qualche anno prima, mentre Tadese non è mai più stato ai livelli assoluti visti nel biennio 2008-2009, almeno per quanto riguarda le gare su pista.
Ultimo elemento che potrebbe far pendere la bilancia verso gli etiopi invece che verso il britannico: come già accennato di Mo Farah si è sentito a malapena parlare, finché Bekele ha dominato la scena. Bisogna sottolineare un fatto: Bekele ha solo un anno in più di Mo Farah, ma i due paiono di generazioni diverse. Lo stacco temporale sembra paragonabile a quello tra Gebrselassie e Bekele, mentre invece i due si erano già incrociati ai Mondiali juniores del 2000. Bekele quella volta arrivò secondo, mentre Farah (che gareggiava con gli under 20 nonostante fosse un under 18) si dovette accontentare di una decima posizione. Le differenze tra i due sono emerse dopo: Farah è rimasto nell’ombra per tantissimi anni, mentre Bekele è arrivato rapidamente a dominare la scena internazionale.
Il fatto che, nonostante l’età simile, Farah se ne sia stato rispettosamente nelle retrovie finché Bekele era al suo meglio potrebbe far pensare che il britannico abbia vinto solo grazie al vuoto di potere successivo. Soprattutto se, accanto a questo dato, si considera la mancanza di avversari di alto livello (una mancanza talmente evidente che si può tranquillamente parlare di crisi di vocazioni) e i tempi lontani dall’elitè mondiale. Per molti versi è vero: Mo Farah si misura con avversari minori di quelli che avevano i suoi predecessori, sia come qualità fisiche sia come coraggio. E fa tempi che non destano stupore. Tant’è che alla Bupa Great North Run del 2013, unico vero scontro diretto fra i tre re, ha perso contro Bekele, scattato a due chilometri dal traguardo e poi capace di resistergli negli ultimi 400 metri mozzafiato. A qualche decina di secondi è arrivato Haile Gebrselassie, capace di scendere sotto i 61 minuti a quarant’anni.