«Sarei ipocrita se dicessi che con la Video Assistenza Arbitrale Milan-Sassuolo sarebbe finita così». Lo ha dichiarato Domenico Messina, ex arbitro e oggi designatore di Serie A, alla presentazione a giocatori, dirigenti e allenatori della massima serie di VAR (Video assistant referee), meglio conosciuta come moviola in campo. Messina si riferisce al 4-3 finale col quale i rossoneri hanno battuto in rimonta gli emiliani, grazie anche a un rigore poco chiaro per fallo su Niang in area.
L’arbitro davanti allo schermo forse avrebbe comunicato al collega in campo, nel caso specifico Marco Guida, che il fallo non si era verificato e il gioco sarebbe proseguito normalmente. Certo, questo potrebbe diventare un alibi per gli arbitri e anche per questo Messina ha tenuto a precisare che nei «casi complessi decide l’arbitro». Parole che amplificano quanto sottolineato sulla Gazzetta dello sport da Massimo Busacca, designatore Fifa, solo una settimana fa: «Gli arbitri dovranno rimanere concentrati solo sulla partita, senza avere dubbi sulle situazioni o le decisioni prese, come se non ci fosse VAR».
Aggiungendo poi un concetto molto importante, fondante se visto con gli occhi di chi fa il mestiere del direttore di gara: «La stragrande maggioranza delle partite sarà diretta senza aiuti. E allora dico: un arbitro importante che non decide nulla e aspetta dall’alto l’indicazione giusta potrà mai essere un modello da seguire per un giovane? Facendo così nessuno si prenderà più delle responsabilità. E il calcio chiude bottega».
Gli arbitri in Italia, compresi assistenti, osservatori e associati, in genere sono circa 33.600. Quelli di élite, dei quali i più attenti ricordano anche i nomi, sono 22 e arbitrano in Serie A; poi ce ne sono altri 26, mediamente noti, che lavorano in B. Gli altri 33.550 circa sono gli arbitri della periferia calcistica, che spesso si trovano soli ad affrontare partite folli, dove non sempre regna la sportività.
Gli ultimi dati forniti direttamente dal presidente dell’Associazione italiana arbitri (Aia), Marcello Nicchi, parlano di 650 direttori di gara picchiati sui campi di calcio della Penisola ogni anno, una media di poco meno di due al giorno. Il calcolo si basa su verbali di polizia, rapporti medici e ricoveri. Come sottolineato dallo stesso Nicchi, non si tratta di casi isolati e per la stragrande maggioranza dei giovani che fanno il mestiere nelle serie dilettantistiche. In realtà il report ufficiale dell’Aia, aggiornato al 17 giugno 2016, parla di 681 casi di violenze subite dagli arbitri. La Seconda Categoria è la serie più dura, con quasi un terzo delle denunce, e la Sicilia regione dove si registra il più alto numero di aggressioni.
Tabella e dati tratti dal report dell’osservatorio violenza dell’Aia.
Da un certo punto di vista non potrebbe essere altrimenti, perché la Seconda Categoria è la serie con più squadre iscritte. Parliamo, infatti, di 182 gironi da 16 formazioni ognuna dislocate sul territorio nazionale. Da un altro, però, influiscono almeno altri due fattori e cioè la conformazione delle rose, molto spesso fatte di calciatori in età avanzata «che vivono con una certa frustrazione gli anni che passano, o il non aver sfondato», come mi racconta un arbitro che da una decina di anni si confronta con le partite della Lega nazionale dilettanti.
Altro fattore che influisce non poco è la mancanza di copertura video di queste gare che, per anni, tranne in qualche rarissimo caso, non hanno avuto altri testimoni se non gli spettatori in carne e ossa. Anche la questione del “pubblico caldo” nel Sud d’Italia, nonostante ci siano delle verità in ogni luogo comune, è più comprensibile se guardata da un punto di vista meramente algebrico. Le differenze tra regioni maggiormente popolate non sono infatti enormi e in posti come la Sicilia le formazioni sono tantissime.
Allo stesso modo, è molto forte la “concorrenza” tra arbitri stessi. Infatti nelle regioni meridionali le giacchette nere o gli aspiranti tali, sono tantissime. «Se fossi stato pugliese, non sarei mai riuscito a entrare nella sezione», mi ha confidato il mio amico. Per ricevere fischietto e cartellini bisogna inoltre superare dei testi fisici molto precisi. Esistono dei limiti minimi da rispettare, ma ovviamente con maggiore concorrenza anche la selettività diventa più stretta.
Bisogna ad esempio staccare un tempo di 6”10 sui 60 metri e poi affrontare lo Yo-Yo Intermittent Recovery Test. Si tratta di effettuare il maggior numero di corse a navetta (andata e ritorno) tra due linee poste ad una distanza di 20m. Questo ad un ritmo progressivo imposto da beep acustici. Alla fine di ogni frazione di 40m lanciati, l’arbitro ha dieci metri di recupero da percorrere camminando per poi ripartire da capo. Il tutto per un minimo di un chilometro e duecento metri, rispettando ovviamente il ritmo sonoro dei bip.
Ma la fatica sul campo e la professionalità non si riflettono in un riconoscimento di pubblica utilità e autorevolezza. Un arbitro infatti è colui al «quale è conferita tutta l’autorità necessaria per far osservare le Regole del Gioco», come recita il punto 5 del Regolamento del calcio. Ma è anche colui che col proprio operato salvaguarda la bellezza di una partita e l’incolumità dei suoi interpreti. Questa peculiarità è orgogliosamente riconosciuta da chi intraprende al carriera da direttore di gara, a volte molto meno da giocatori e società.
Il presidente Nicchi ha commentato sul Corriere della Sera: «Ci sono società con dirigenti o allenatori che non sono in grado di controllare i nervi, e se a queste società non mandiamo più gli arbitri le assicuro che smetteranno di giocare il campionato».
Quasi sempre a insultare e aggredire un direttore di gara, o un suo assistente (quando c’è) sono i rappresentanti delle squadre stesse, se non proprio i calciatori: parliamo di partite in cui l’unico pubblico presente è composto dai parenti di chi gioca, e anche loro rappresentano un problema, soprattutto se parliamo di genitori di calciatori poco più che bambini.
Sono ragazzi
Uno dei casi di cui più si è discusso nella stagione scorsa è avvenuto intorno alla metà di maggio: Coppa dei Campioncini delle province di Reggio Emilia e Parma, categoria esordienti (11-12 anni), campo di Quattro Castella. Giovanni Brugaletta, arbitro sezionale di 23 anni, fischia due rigori a favore del Terre Matildiche, scatenando la furia dei genitori dei bambini del Paradigna, ed espelle un giocatore e un dirigente dei biancoblù parmigiani.
La decisione dell’arbitro scatena il putiferio sugli spalti, dai quali piovono gli insulti più diversi, tra cui anche un «Quando esci ti ammazzo», denunciato dal direttore di gara ai carabinieri, che lo scortavano fuori dallo spogliatoio nel quale si era barricato. Ma questo, purtroppo, è un caso come tanti altri.
Un mio amico, da una decina d’anni arbitro e poi assistente di linea nelle sezioni di Ancona e Fermo, nelle Marche, mi ha raccontato la sua esperienza nel mondo del calcio giovanile e dilettantistico. Un giorno, era all’ultima di campionato della terza categoria anconetana, si è preso una testata da un giocatore che aveva appena espulso per frasi ingiuriose nei suoi confronti. La sfortuna ha voluto che venisse colpito proprio sullo zigomo fratturato un paio di mesi prima. La vittoria a tavolino per gli avversari decretata dopo la sospensione della partita non ha di certo cancellato l’episodio.
Ci sono poi quegli arbitri che vengono puniti per decisioni prese anni prima. Un altro ragazzo, sempre arbitro della sezione di Ancona, ad esempio, ci ha rimesso il parabrezza della macchina per aver dimenticato di rispettare la prassi di lasciare in custodia ad un dirigente della squadra di casa le chiavi della propria automobile. E per l’appunto nemmeno per la partita appena terminata, «ma per quella dell’anno precedente».
Seconda categoria ligure, maggio 2016.
Rimanendo nelle Marche, c’è poi la storia di Luigi De Marco da Recanati, decano della professione con i suoi 40 anni, che al Corriere ha dichiarato: «Agli insulti, entro un certo limite, siamo abituati e per quanto fastidioso possa essere diciamo pure che un “vaffa” non ha mai ammazzato nessuno. Quello che davvero non si può tollerare è la violenza fisica, sono le minacce, è l’insulto oltre il limite della goliardia». A De Marco la passione per il gioco e le sue regole è costata 82 giorni di prognosi per un calcio ai testicoli preso da un calciatore che aveva ammonito durante una partita del campionato Amatori.
C’è poi la storia di Marco Airoldi, 18 anni da Vercurago. Questo arbitro, iscritto da due anni nella sezione lombarda di Lecco, ha subito un’aggressione molto grave mentre dirigeva la partita nel centro sportivo di Cernusco Lombardone, tra la Brianza Cernusco Merate e il Costamasnaga. La dinamica è la solita: concede un rigore alla squadra locale e per tutta risposta il capitano della squadra ospite, coetaneo di Airoldi, lo colpisce al volto con un pugno. L’aspetto più grottesco della vicenda è che la partita in questione era dedicata alla lotta “contro la violenza nei confronti degli arbitri”. Tutte le gare dilettantistiche in Lombardia erano infatti cominciate con un ritardo di dieci minuti per sensibilizzare calciatori e pubblico contro i gesti sconsiderati nei confronti dei direttori di gara. Non per Marco Airoldi, però, che a fine partita è finito al pronto soccorso.
C’è sempre chi è pronto a fare un distinguo.
Il fenomeno non è nemmeno circoscrivibile ai soli campionati maschili. Lo scorso aprile, infatti, Raffaele Ziri e Ruggiero Chiariello, coppia di arbitri della sezione di Barletta, sono stati aggrediti dal pubblico durante la partita di calcio femminile a 5 tra Salinis e Futsal Portos dopo il gol del 3 a 6. Anche per loro l’epilogo è stato rappresentato dalla fuga in ospedale per medicare contusioni e abrasioni.