Il forte romano di Mamucium (o Mancunium) venne costruito lungo tre fasi: la prima nel 79 d.C., addirittura in legno, sotto il comando di Giulio Agricola. A circa tre chilometri e quasi duemila anni di distanza, la fortezza moderna dell’Old Trafford ha conosciuto due grandi periodi di consolidamento: quella dei “Busby babes”, guidati appunto dall’allenatore Matt Busby; e dopo circa 17 anni di mediocrità, quella del grande Manchester United di Sir Alex Ferguson.
Per la terza fase della fortificazione, la società ha deciso di accorciare i tempi: le stagioni deprimenti con Moyes e van Gaal hanno spinto verso un allenatore garanzia di successo immediato. Uno come Mourinho: così diverso dallo stile dello United (come ricordato da Sir Bobby Charlton e Cantona), ma capace di rendere competitivo un gruppo in poco tempo, e di resistere a ogni pressione ambientale.
Per costruire una squadra di successo, però, servono materiali diversi, come per un forte: per uno come Mou, abituato ormai alla legge di Guttmann per cui il ciclo di un allenatore può durare al massimo tre anni, adattarsi all’ambiente dello United è una delle più grandi sfide della carriera. L’allenatore più mordi e fuggi del calcio contemporaneo si ritrova nel tempio della stabilità, un caso unico: la più titolata squadra inglese deve a solo due leggendari manager ben l’83% dei trofei vinti in quasi 140 anni di storia.
Non è solo una sfida di adattamento a una filosofia calcistica. Solo quattro allenatori nella storia del calcio inglese hanno vinto il campionato con due o più squadre diverse: Mourinho deve dimostrare di conoscere una ricetta unica per vincere la Premier League.
Slow Mou
Cosa succede, però, quando scopri che il solito metodo non funziona più? Nella prima fase della stagione, Mourinho si era affidato al 4-2-3-1, cadendo nella “trappola Deschamps”: cioè schierare Pogba nel doble pivote, riducendone così l’apporto offensivo e creando buchi nella propria trequarti. A fargli da spalla, addirittura Fellaini: persino Wilmots aveva capito che in quel ruolo il centrocampista belga è una calamità per la propria squadra, creando sempre spazi alle sue spalle, incapace di coprire la posizione e dettare i tempi della squadra. Rooney era il trequartista, per un triangolo di centrocampo molto squilibrato, e con Ibrahimovic centravanti si determinava inevitabilmente una trequarti statica.
Le prime tre partite, concluse con tre vittorie, avevano forse illuso tutti sulla facilità del cambiamento: la sconfitta nel derby contro il City di Guardiola ha invece messo in luce diversi problemi di gioco.
Da quel momento è iniziato un periodo difficile per Mourinho, acuito dalla sconfitta contro il Watford: bisognava studiare una nuova rotta. La squadra diretta, intensa e fisica che Mou aveva immaginato non stava funzionando granché: troppo sguarnita la zona centrale, poco mobile la trequarti, difficoltà nelle transizioni. La forza fisica di molti suoi giocatori, la capacità di dominare i duelli aerei e di scavalcare le linee rendeva lo United comunque una squadra adatta alla Premier: ma non a sufficienza per rimanere al vertice.
Non fate scendere Pogba: qui si abbassa davanti alla propria area e invece di servire subito Carrick, che gli fa segno con le mani di dargliela sui piedi, il francese si gira e lancia lungo verso la fascia sinistra. Passaggio telefonato, l’avversario intercetta e può ripartire in una pericolosa transizione offensiva (addirittura 6 vs 5).
Mourinho quindi ha deciso di rallentare, invece di aumentare l’intensità: riflettere su cosa mancasse alla sua squadra, inserire giocatori intelligenti e meno istintivi in campo. La titolarità di Rooney ha cominciato a traballare: l’inserimento di Herrera nel doble pivote ha permesso a Pogba di giocare sulla trequarti.
Il centrocampista basco è l’uomo ombra, colui che permette al sistema di funzionare, con movimenti, pressioni, circolazione rapida, chiusura delle linee. Come tutto ciò che è essenziale, Herrera non ruba l’occhio, ma i suoi dati parlano chiaro: è il terzo miglior centrocampista della Premier per intercetti (3,5 per 90 minuti), una percentuale di riuscita dei passaggi dell’88%, 1,4 passaggi chiave per 90 minuti. Il suo ingresso tra i titolari ha permesso a Fellaini e Pogba di avanzare; ma soprattutto di recuperare palla più in alto e difendere meglio in zona centrale nella propria trequarti. Herrera è il pesce pulitore del centrocampo dello United: si abbassa sia per supportare la manovra che per schermare la propria trequarti, velocizza il gioco quando serve, libera Pogba di molte incombenze difensive, copre le falle di dinamismo di Fellaini o Carrick.
Il triangolo di centrocampo che non funziona: troppo scollegati dalla difesa, Fellaini inutile da interno, Pogba schiacciato su Herrera.
Per arrivare alla svolta cruciale, al cambiamento più radicale, Mourinho ha avuto bisogno di altro tempo: un pareggio a Liverpool con la sua squadra rinchiusa nella metà campo, in un 6-3-1 volto esclusivamente a non subire; e soprattutto la sconfitta per 4-0 nel suo vecchio stadio, Stamford Bridge, contro il Chelsea di Conte. I “Red Devils” erano chiaramente disfunzionali, si muovevano per compartimenti stagni e senza grande armonia: i grandi solisti erano come girasoli di Van Gogh, rivolti in direzioni diverse. Per ritrovare velocità, Mourinho ha deciso di rallentare e affidare le chiavi del gioco al buon vecchio Carrick (36 anni a luglio, e in scadenza di contratto), pare addirittura su suggerimento di Sir Alex Ferguson (che ha sempre apprezzato l’allenatore portoghese).
Here comes the sun
«C’è una lunga lista a cui bisogna aggiungere il nome di Paul Pogba: quella dei compagni di squadra che stimano Michael Carrick. Ne ho parlato con Pogba, e Carrick lo ha reso libero (di giocare come preferisce – ndt). […] Ci sono molti centrocampisti di movimento e fatica, ma quanti con un tocco, due tocchi riescono a tagliare le linee e dare velocemente il pallone al numero 10? Nel frattempo che gli altri centrocampisti riescono a vedere i passaggi che Carrick effettua normalmente, gli spazi si sono già chiusi. […]. È una farsa che Carrick non abbia avuto un ruolo importante nella Nazionale inglese. Come ha detto Xabi Alonso, Carrick avrebbe ottenuto 80 presenze nella Spagna, se solo fosse stato spagnolo».
Le parole di Rio Ferdinand, che raccolgono anche la stima più volte dichiarata da Xabi Alonso, rappresentano in estrema sintesi l’utilità e l’intelligenza del regista dello United, e anche i problemi di riconoscimento nel proprio paese. Troppo cerebrale per un calcio intenso (“huff and puff”, come dice Ferdinand), poco appariscente ma equilibratore del gioco in entrambe le fasi, in un campionato che ama spesso travolgere gli equilibri tattici.
Carrick libera tutti, con l’aiuto di Herrera: si crea quasi un “trapezio magico” con Pogba e Mata. Il capitano crea un filo diretto con Rashford, sottolineando la sua capacità di tagliare le linee.
Per capire quanto un giocatore possa cambiare l’intelligenza collettiva di una squadra, basta pensare alla media dei cross effettuati dallo United nelle 8 partite che Carrick ha giocato per intero in Premier League: 18, contro i circa 29 delle altre partite (quasi il 40% in meno).
L’ingresso del capitano in squadra ha permesso a Mou di passare con sufficiente solidità al 4-3-3, con ogni giocatore nel suo ruolo migliore: una svolta che era necessaria per cambiare l’inerzia della stagione. Con un pacchetto di centrali difensivi in difficoltà con il pallone (la coppia Jones-Smalling vista contro lo Stoke è forse la peggiore da questo punto di vista: ma Bailly è in Coppa d’Africa e Rojo era influenzato), la salita del pallone dal basso poggia necessariamente sul regista. Da quando Carrick è entrato in squadra stabilmente, lo United da inizio novembre ha raccolto 13 vittorie, 5 pareggi e l’ininfluente sconfitta contro l’Hull nella semifinale di ritorno di Coppa di Lega (con una striscia di 6 vittorie consecutive in Premier). In generale, con Carrick in campo la squadra vola: da inizio stagione si contano 14 vittorie, 3 pareggi e una sconfitta.
In questo video, l’importanza di Carrick, in una lunga azione contro il Sunderland, si evidenzia in tutte le fasi di gioco, oltre ad abilitare le migliori qualità dei compagni. Il numero 16 dello United si abbassa per iniziare l’azione e serve Mata dietro la linea dei centrocampisti addirittura con uno scavetto, mentre Herrera si avvicinava per garantirgli una soluzione. Lo United poi non riesce a sviluppare bene l’azione, e Lingard perde palla quasi sull’area di rigore avversaria: allora Herrera si fionda in avanti a recuperare il possesso, nella sua funzione di pesce pulitore. A quel punto Carrick, Pogba, Herrera e Lingard si sistemano a rombo creando una specie di rondo da gioco di posizione, con in mezzo il povero Ndong. Il rombo si allarga e Carrick, in posizione più arretrata, trova una nuova verticalizzazione taglia linee per Lingard; Pogba può provare prima il dribbling e poi l’inserimento in area; sul cross di Mata respinto, Carrick arriva anche a chiudere l’azione con un tiraccio da fuori (per escludere ogni possibilità di una transizione avversaria).
Con Carrick, Mourinho rinuncia consapevolmente a fisicità e dinamismo per aumentare l’equilibrio di squadra e tra le fasi: la volontà di rompere completamente con il passato, con il lento e prevedibile United di van Gaal, non può essere pienamente soddisfatta. Il gioco è un mix particolare di calcio posizionale e kick and rush britannico: la squadra si trova in un limbo e non riesce ad elaborare una sintesi definitiva. I “Red Devils” sono davanti al Chelsea per numero di passaggi brevi e per possesso palla: Conte sta riuscendo in quello che a Mourinho appare ormai difficile, cioè costruire una squadra intensa e verticale, perfetta per la Premier.
Il gioco di questa stagione condivide alcuni punti con quello dello scorso anno, come la percentuale elevata di passaggi riusciti (84,8%, prima squadra in Premier, anche meglio del City!), dovuto soprattutto a giocate troppo elementari. Ma ancora di più spicca la difficoltà creativa sulla trequarti e la scarsa intraprendenza: con soli 10.5 dribbling per 90 minuti, il Manchester United è la peggiore tra le grandi, addirittura la nona in tutto il campionato (sia per dribbling tentati che per riusciti). Un dato perfettamente in linea con la squadra timorosa e dogmatica di van Gaal, che nella passata stagione in media aveva realizzato circa 10 dribbling per 90. Ma se nel calcio di posizione il dribbling è fondamentale per generare vantaggi collettivi, nello United non ci sono pochi giocatori in grado di dribblare costantemente: Pogba, Martial, Valencia e Mkhitaryan.
Lo United ha tagliato le linee e sorpreso l’avversario nell’inizio azione, ma non riesce a concretizzare: in un’azione di possesso consolidato, Ibra svuota l’area e Mata è costretto a corrergli addosso con il pallone; Blind è in ritardo nel sovrapporsi, il centro area è vuoto, il lato debole pure e solo Mkhitaryan capisce di dover attaccare la profondità. Ecco perché deve giocare sempre.
Proprio l’armeno è stato inserito in squadra per ridare dinamismo alla trequarti, dopo aver sistemato il centrocampo: la soluzione di Mou per occupare le linee senza la staticità di Rooney e la fisicità di Fellaini. Il classico movimento di Mkhitaryan è ad accentrarsi dietro la linea dei centrocampisti avversari, creando lo spazio per l’inserimento di Valencia (strumento offensivo utilizzato spesso), e riuscendo a combinare con Pogba sulla trequarti; in aggiunta, quando viene schierato sulla sinistra, può accentrarsi per provare il tiro. È un elemento unico in rosa, per la sua abilità di farsi trovare tra le linee, giocare passaggi chiave (2,8 per 90, il migliore) e per la capacità di attaccare in transizione. Ma il vero fulcro creativo del Manchester United risiede nella combinazione Pogba-Ibra.