Intro
Il 28 giugno 2006 va in scena al Madison Square Garden di New York City il primo Draft nella storia dell’NBA regolato dal nuovo Contratto Collettivo, che stabilisce nuovi criteri per ritenere un giocatore eleggibile. La nuova età minima consentita è di 19 anni, cui viene aggiunta l’ulteriore postilla che, se un giocatore non è un international player, può essere considerato eleggibile solo dopo un anno dal diploma della sua classe di liceo. Queste regole, contrariamente al pensiero comune, forzano i diciottenni a non andare nell’NBA direttamente dal liceo, ma allo stesso tempo non li forzano a frequentare il college. È l’NCAA, piuttosto, che viene costretta ad accettare decisioni altrui su cui non può influire, vedendo nascere il famigerato fenomeno degli “One&Done” (telefonare a Kentucky, interno “Coach Calipari”). Giocatori cioè molto forti che si sarebbero dichiarati eleggibili per il Draft usciti dal liceo, ma che con la “regola dei 19” scelgono di svernare un anno all’università (“un anno & tanti saluti”, potremmo tradurre).
Il 5 luglio 2009 Ed O’Bannon, ex ala e stella dell’università di UCLA tra il 1991 e il 1995, guarda sbigottito lo schermo della propria televisione. Davanti a lui, in un videogioco di pallacanestro sul campionato NCAA, la sua esatta copia con il numero 31 sul retro della canotta, il suo cognome scritto sopra, il cranio rasato e i lineamenti identici al suo volto ha appena segnato da tre punti con il suo classico tiro mancino. Ripresosi dallo stupore e dopo aver fatto fare 50 punti al suo avatar, Ed O’Bannon il giorno successivo trascinerà in tribunale l’NCAA, la Collegiate Licensing Company e l’Electronic Arts Sports, accusandole di aver sfruttato i suoi diritti d’immagine senza il suo consenso e soprattutto senza una ricompensa, e di aver violato le leggi sull’antitrust.
Il 27 marzo 2014, il giorno prima della semifinale del Regional contro Iowa State, Shabazz Napier, playmaker titolare e simbolo dell’università di Connecticut, in diretta nazionale afferma di aver avuto durante l’anno problemi di soldi e di “essere andato a letto affamato” più volte. Su esplicita domanda del reporter di Fox Sports, Shabazz risponde di non sentirsi come un “dipendente”, ma che di sicuro le cose dovranno cambiare considerati i soldi che la sua scuola e l’NCAA guadagnano vendendo magliette con il nome degli studenti-atleti.
L’intervista a Napier sull’andare a letto “affamato”.
Il 4 novembre 2016, un venerdì sera, sul canale Showtime va in onda il film-documentario prodotto da Ben Simmons (e famiglia) sul controverso, surreale, primo e unico anno di Simmons in NCAA a Louisiana State University. Per quelli un po’ meno attenti alle vicissitudini collegiali d’oltreoceano potrebbe sembrare notizia degna al massimo della trentesima pagina della Gazza, ma intanto negli Stati Uniti il contenuto di quel documentario e la frase di Simmons – «The NCAA is fucked up!» – riportano sotto i riflettori, anche a causa dell’enorme visibilità del protagonista, l’annosa e sanguinosa diatriba tra gli studenti-atleti e l’NCAA.
“One&Done”, (l’ovvio) titolo del documentario, girato tra l’ultimo anno di high school dell’australiano a Montverde Academy (Florida) e quello di LSU, ha un intento esplicito. Mostrare l’assurdità del sistema NCAA per giocatori talentuosi come la prima scelta assoluta del Draft 2016, denunciando l’ipocrisia del loro status di “dilettanti” (da “amateur”, amatore) al servizio di un’istituzione monopolistica dai ricavi miliardari.
Il trailer ufficiale di “One&Done”
Sul j’accuse televisivo di Ben – la cui immagine peraltro non è uscita immacolata – e sul seguente polverone sollevato che ha forzato il commissioner dell’NCAA Mark Emmert a una risposta ufficiale per prendere posizione, torneremo più tardi.
Gli ultimi tre episodi riportati sopra sono tra i più eclatanti tra quelli che negli anni hanno criticato o citato in giudizio l’operato dell’NCAA. Ma se siamo arrivati al 2017 in una situazione che rispecchia grossomodo quella della metà del ‘900 in quanto a regolamenti e concentrazione di potere, forse non tutto quello che Ben Simmons e compagnia contestano all’NCAA è da prendere come verità assoluta.
Verità relative
Rashomon, film giapponese del 1950 di Akira Kurosawa, è uno dei più grandi capolavori nella storia del cinema, e tratta di un brigante in tribunale accusato di aver abusato di una donna dopo averne ucciso il marito samurai. I quattro testimoni chiamati a raccontare il fatto narreranno però quattro “verità” differenti sull’incidente, rivelando sia l’umana debolezza nell’agire sempre per il proprio tornaconto personale sia la diversa percezione (in buona o cattiva fede) che ognuno ha avuto dell’accaduto, teoricamente uguale per tutti. Queste verità relative, e i divergenti punti di vista a corredo, fanno al caso nostro.
Gli attori coinvolti nella gigantesca messinscena dell’NCAA, tra l’organizzazione e le sue regole, il sistema giuridico federale, le Conference, le università, i coach, gli atleti e tutte quelle “interessanti” figure collaterali che hanno – ahiloro – resi ancor più celebri i Fab Five di Michigan, sono come i quattro testimoni del film di Kurosawa. Ognuno ha una sua versione, e persino all’interno degli stessi gruppi si trovano posizioni diametralmente opposte.
Oltre al logico fatto che tutti tendano a tirare l’acqua al loro mulino, è proprio l’esperienza, la formazione e la morale personale, soprattutto degli atleti, a fare la differenza verso una direzione piuttosto che l’altra. Abbiamo dunque optato – oltre al rozzo tentativo di scattare un’istantanea sullo stato dell’arte attuale di cui Vivian Maier pietosamente ci perdonerà – di chiedere ad alcuni personaggi direttamente coinvolti la loro opinione su quello che sta accadendo, contestualizzando le loro risposte nelle realtà collegiali in cui stanno vivendo o hanno vissuto la loro (straordinaria) avventura.
Federico Mussini a St.John’s University non ha trovato le condizioni e le attenzioni di Ben Simmons a LSU e, seppur possa apparire ovvio, già di per sé questo costituisce uno spartiacque di cui è obbligatorio tener conto. Oltre che con l’ex talento di Reggio Emilia abbiamo parlato anche con Luca Virgilio, assistant to the head coach sempre a St. John’s; Amedeo Della Valle, guardia di Reggio Emilia con un biennio recente a Ohio State University; Riccardo Fois, assistant coach a Gonzaga University; e Richard Hamilton, campione NCAA nel 1999 con l’università di Connecticut (oltre che campione NBA con i Detroit Pistons nel 2004). A loro abbiamo posto, tra le altre, le tre seguenti domande, ovvero – leggendo i media americani sul mondo NCAA ed osservando negli anni i coming out degli studenti-atleti – i quesiti che a nostro sindacabile giudizio più sembrano importare a tutte le parti coinvolte.
- L’NCAA deve pagare gli studenti-atleti o le borse di studio sono un buon compromesso?
- Gli studenti-atleti sono sfruttati oltre ogni ragionevole dubbio?
- Se il sistema non è equo, come dovrebbe essere ristrutturato?
Considerata l’impossibilità di un approccio distaccato e storico per una tematica completamente aperta e contemporanea, proveremo con il loro aiuto a rispondere a tutte e tre partendo comunque dal presupposto che, ad oggi, ci sono più cause in corso a riguardo e nessun tribunale statunitense è ancora riuscito a emettere una sentenza che abbia messo tutti d’accordo.
Il sistema redistributivo dell’NCAA
Come molti sapranno, l’NCAA è l’ente che organizza i campionati sportivi tra gli atenei statunitensi che vi aderiscono, che ammontano a più di 1.200. Essi sono raggruppati per Conference, dei gironi per area geografica cui è delegata parte della gestione dei campionati e che generano dei ricavi indipendenti da quelli NCAA. Inoltre esistono tre livelli competitivi, le cosiddette Division: la grande differenza tra gli atenei di Division I e quelli di Division II e III è che solo i primi garantiscono borse di studio sportive complete (“full ride scholarships”) alla maggior parte dei propri studenti-atleti.
Quando gli studenti-atleti o i media parlano di “sfruttamento”, lo fanno per la maggior parte con in testa le mirabolanti cifre che ogni anno e da ormai tre decenni stanno sempre più piovendo nelle tasche dell’NCAA. Come ci rivela Della Valle: «Tra i miei compagni di squadra e credo un po’ ovunque i giocatori si sentivano un po’ sfruttati, e pensavamo di meritare un qualche tipo di compenso ulteriore. Ora però so che alcune regole, tipo quella sui pasti, stanno iniziando a cambiare».
Le accuse però arrivano quasi esclusivamente dai giocatori di pallacanestro degli atenei di Division I, e per un semplice motivo: l’84% dei ricavi totali dell’NCAA è legato all’accordo per la cessione dei diritti televisivi del torneo di pallacanestro maschile ai colossi di broadcasting e televisione, Turner Sports e CBS Sports. 19,6 miliardi di dollari (sì, diciannove virgola sei miliardi…) tra il 2010 e il 2032, cifra finale dopo la firma del rinnovo per altri 8 anni, valevole 8,8 miliardi di dollari a partire dal 2024.
Spesso negli anni, per ignoranza o mala fede, questi numeri sono stati utilizzati in modo strumentale per guidare la crociata degli studenti-atleti – ritenuti la principale ragione di tale successo economico -, portando l’organizzazione a specificare ovvietà come la differenza tra quella cifra e quella del (molto più basso) ricavo medio annuo, che per il 2014-2015 è stato di 920 milioni di dollari.
Per capire dove finiscano tutti questi soldi e quanto siano legittime le denunce degli studenti-atleti, vale la pena rileggere sui manuali ufficiali che sono stati consegnati a tutti i 480mila (circa) giocatori delle tre Division per la stagione 2016-2017 alcuni dei principi fondamentali su cui è fondata l’NCAA e la sua gestione.