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Come Dirk Nowitzki è diventato un simbolo della pallacanestro nel mondo.
Come Dirk Nowitzki è diventato un simbolo della pallacanestro nel mondo.
Intervallo: umorismo bavarese
Scherzare con gli stereotipi sul Texas, privilegio concesso a pochi
Poco dopo gli europei di calcio del 2016, Dirk imita il rigore di Simone Zaza
In piena campagna elettorale, Dirk fornisce la sua imitazione di Donald Trump
Compendio dell’umorismo di casa Nowitzki: vittime i compagni, gli addetti ai lavori, il presidente Obama e soprattutto se stesso
Atto III: Fallimento e redenzione / Ingresso nell’Olimpo
Nell’autunno del 2007, lo slancio che solo un anno prima aveva permesso ai Mavericks di inanellare una regular season praticamente perfetta sembra essersi parecchio affievolito. I mormorii circa l’inflessibilità di coach Avery Johnson cominciano a circolare anche fuori dallo spogliatoio e l’impressione generale è che qualcosa si sia incrinato. Nel tentativo di sparigliare un po’ le carte di una stagione che langue, durante la pausa per l’All-Star Game Devin Harris viene scambiato con i New Jersey Nets insieme a una serie di contratti in scadenza e scelte ai Draft successivi, in Texas sbarca Jason Kidd.
L’arrivo dell’ex-Golden Bear è salutato con scetticismo, perché a molti sembra un’ammissione di colpa per l’addio a Nash di quattro anni prima. Ad ogni modo la stagione si chiude con il settimo posto a Ovest e l’eliminazione netta al primo turno per mano dei New Orleans Hornets. Per Nowitzki è comunque un’altra stagione eccellente: se i risultati di squadra latitano, con i 34 punti rifilati proprio ai Nets l’8 marzo diventa il miglior marcatore nella storia della franchigia superando Rolando Blackman. Per quanto onorato del prestigioso traguardo, il tedesco cova dentro di sé un desiderio di rivincita il cui unico sbocco è l’anello di campione. Mark Cuban è sulla stessa linea d’onda e, alla vigilia della undicesima stagione in NBA del suo uomo franchigia, decide che è arrivata nuovamente ora di cambiare passo. Viene dato il benservito ad Avery Johnson, al suo posto arriva Rick Carlisle.
Quello con l’ex-Detroit e Indiana è l’ultimo incontro decisivo nella carriera di Nowitzki, ma per capire la portata del sodalizio occorrerà tempo. Le due annate che seguono sono discrete, ma i playoff riportano eliminazioni al secondo e primo turno. Il roster viene rimodellato senza grandi scossoni, aggiungendo uomini d’esperienza come Shawn Marion e Caron Butler. L’impressione generale, però, è che il momento buono per i Mavericks e per Nowitzki sia sfuggito. Dirk varca la soglia dei 20.000 punti nel gennaio 2010, ma si tratta dell’unico sussulto in un periodo nel quale la squadra naviga nei mari calmi della Western senza obiettivi ambiziosi.
L’estate 2010 è caratterizzata della tornata di free agent più clamorosa nella storia recente. Tra questi c’è anche Dirk, ma la sua teorica reperibilità sul mercato dura poco perché il 5 luglio firma un rinnovo da 80 milioni di dollari: per i successivi quattro anni sarà ancora capitano, leader e volto dei Mavericks. Dallas, respinta nell’assalto agli altri free agent di peso, si consola parzialmente ingaggiando Tyson Chandler, coriacea presenza difensiva nel pitturato. La stagione comincia quindi senza particolari aspettative, in una NBA che sogna lo scontro finale tra i Lakers campioni in carica e i tres amigos riunitisi a South Beach. I Mavericks arrivano terzi nella Western dietro agli eterni Spurs e ai due volte campioni guidati da Kobe e Gasol.
Il primo turno contro Portland si rivela più complicato del previsto, complice una prestazione commovente in gara-4 di Brandon Roy che aveva fatto gridare all’upset, ma i Mavs riescono a chiudere la serie in sei partite. Ad aspettarli ci sono proprio i favoritissimi Lakers, che di fronte hanno l’obiettivo di un secondo three–peat a distanza di quasi dieci anni. La serie, che si preannuncia alquanto equilibrata, si trasforma in una cavalcata per i ragazzi di Carlisle. Terry e Barea diventano enigmi irrisolvibili per la difesa gialloviola, anche per gli spazi aperti dal tedesco contro gli statici lunghi dei Lakers: clamoroso 4-0 e Mavericks che tornano in finale di conference dopo cinque anni. Dall’altra parte ci sono i giovanissimi Thunder del trio Westbrook, Harden e Durant. Dirk si premura di dare ai tre il benvenuto nella stratosfera NBA con una gara-1 da 48 punti, ma i giovani di OKC si riprendono subito la successiva gara-2 in trasferta. Nelle restanti tre, pur combattute, Dallas fa valere la maggior esperienza e stacca il biglietto per la seconda finale della sua storia.
La sorte concede la possibilità di prendersi una rivincita attesa un lustro: anche se gli Heat sono profondamente diversi rispetto alla squadra laureatasi campione nel 2006, Dwyane Wade e Udonis Haslem sono il sale nella ferita di Dirk e compagni. A differenza del primo capitolo della sfida, Dallas arriva alle Finals nel ruolo di sfavorita, perché dall’altra parte ci sono i Big Three e il fattore campo. Le prime due gare della serie sono tirate, le difese hanno la meglio e si va in Texas sul punteggio di parità. Nonostante i 34 punti di Nowitzki, il canestro di Chri Bosh che decide gara-3 sembra indirizzare la serie ancora una volta verso la Florida. La successiva gara-4, tuttavia, si rivela come la decisiva per gli esiti finali.
I ragazzi di Carlisle difendono forte su James, ma Wade prende ancora una volta il controllo della situazione in quella che per Dallas sembra la replica dell’incubo di cinque anni prima. Questa volta, però, sono i Mavs a rimontare lo svantaggio di 9 lunghezze e Dirk, debilitato dalla febbre ma supportato da un Jason Terry in stato di grazia, pareggia la serie. Lo stesso spartito caratterizza le due successive, in cui i Mavs riescono a riportare il tono della serie dalla loro parte per poi trionfare sul campo avversario.
È una delle vittorie più romantiche che si potessero immaginare, riscatto di chi era sempre arrivato a un centimetro dal traguardo per poi veder festeggiare gli altri. Dirk è MVP delle Finals, coronamento di due mesi di playoff in cui ha tenuto 27.7 punti e 8.1 rimbalzi di media ma in cui ha soprattutto scacciato i vecchi fantasmi, segnando da solo negli ultimi quarti delle singole gare di finale più di James e Wade messi insieme.
Come prevedibile, vista l’età media della squadra e la rinuncia a un membro cardine come Tyson Chandler lasciato partire verso New York, gli anni che seguono sono caratterizzati da una lenta ricostruzione, operazione effettuata mantenendo sempre un livello competitivo più che dignitoso. Se i Mavs non riescono più a costruire una squadra da titolo intorno alla loro stella, Dirk, in pieno stile Nowitzki, non mugugna e tanto meno chiede di poter tentare l’ultimo assalto alla gloria altrove, al pari di altri campioni sul finire della carriera. Anzi, forte del rapporto speciale creatosi con Cuban e con tutta la città di Dallas, nell’estate del 2016 firma un nuovo contratto biennale che lo renderà un Maverick a vita.
In questa stagione Nowitzki trova poi il tempo di apporre due sigilli alla sua già inimitabile parabola. Il primo, quello che gli spalanca i cancelli del valhalla cestistico, è il raggiungimento di quota 30.000 punti. Con i 25 punti segnati ai Lakers il 7 marzo Dirk entra in quella ristretta lista che annovera solo autentici dèi del gioco. Come ovvio, il canestro dei 30.000 non può che essere il suo fadeaway su una gamba. Il boato della folla e le lacrime di Cuban e Geschwindner testimoniano la grandezza del risultato raggiunto. Molto meno evidente, e comprensibilmente meno celebrato, è un’altro particolare della stagione di Nowitzki che ne tratteggia la grandezza oltre i numeri. A quasi 39 anni e alla sua diciannovesima stagione NBA, il campione tedesco ha accettato ancora una volta di rimettersi in gioco, lasciando a disposizione della squadra quanto resta del suo sterminato talento. Stimolato da coach Carlisle, prima dell’acquisizione di Nerlens Noel, Nowitzki ha provato a reinventarsi nel ruolo di centro per questi Mavs in piena ricostruzione, anche per far fronte a una mobilità laterale sempre più inesistente. La singolarità del personaggio, insomma, trascende traguardi straordinari come l’anello di campione, il titolo di MVP e l’ingresso nell’esclusivo club dei 30.000: l’anima da campione di Dirk sta nella disponibilità di sacrificarsi e fare ciò che gli viene chiesto per questa edizione, peraltro non certo indimenticabile, dei Dallas Mavericks. E, ancor di più, nella manifesta volontà di farlo per almeno per un altro anno.
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Ci sono pochi dubbi sul fatto che, qualora e semmai l’NBA un giorno lontano decidesse davvero di aprire una chimerica sezione oltre oceano, il fadeway di Dirk potrebbe prendere il posto di Jerry West nel logo della Division europea. Quel tiro in sospensione su una gamba sola ha negli anni assunto il valore iconico della finisher move con cui un wrestler mette al tappeto gli avversari, un marchio di fabbrica riconoscibile e oggetto di infiniti tentativi d’imitazione. Eppure, ridurre Nowitzki a quel particolare o all’efficacia al tiro equivale a mistificarne l’eredità tecnica offerta all’evoluzione del gioco.
Le lunghe, irrinunciabili sessioni estive con Geschwindner grazie a cui il giocatore ha affinato anno dopo anno il proprio repertorio gli hanno permesso di far sembrare tutto semplice, prerogativa dei grandissimi in ogni disciplina; di diventare letale nell’uno contro uno nonostante l’altezza; di costruirsi una fama di rimbalzista solido (8 di media in carriera, 10 nei playoff) a dispetto di un atletismo limitato e di attenuare l’impatto delle sue lacune difensive sulla squadra. Se, per qualsiasi lungo con ambizioni d’eccellere nell’NBA odierna, risulta inammissibile non essere in grado di mettere palla per terra o segnare con continuità da fuori, è perché Dirk ha stabilito standard che prima del suo avvento erano inconcepibili.
Con l’eccezione delle nemesi Duncan e Garnett, nessuno dei contemporanei nel ruolo è stato in grado di avvicinarsi a quei livelli. Quanto alle future generazioni, per cui Nowitzki costituirà termine di paragone ineludibile, sarebbe utile porre attenzione sull’atteggiamento fuori dal campo, chiave per comprenderne l’incredibile scalata verso le vette dell’Olimpo del gioco. L’attitudine a coinvolgere i compagni, la genuina disponibilità nei confronti di tutto l’ambiente — dal proprietario della franchigia all’ultimo degli uscieri dell’American Airlines Center —, l’impegno sociale mai sbandierato ma coltivato con passione, la capacità di declinare con rigore la propria professionalità senza mai prendersi troppo sul serio, tutte peculiarità che hanno avuto la stessa importanza del talento e dell’etica lavorativa. Al punto che per cogliere davvero l’unicità di Nowitzki occorre infine misurare la distanza tra la leggenda e l’uomo.
Per farlo, più che riavvolgere il nastro e ripercorrere le tante conquiste, appare più utile soffermarsi su una sconfitta e un addio. È la sera del 10 settembre, la nazionale tedesca ha appena perso una partita giocata sul filo del rasoio con la Spagna che di lì a dieci giorni vincerà il torneo. Disputare il girone di qualificazione davanti al pubblico amico non è bastato e l’Eurobasket 2015 della Germania finisce in quel momento. Per Nowitzki, tornato sulla decisione di ritirarsi dalle competizioni con la maglia dell’amatissima Nationalmannschaft proprio per tentare l’ultima avventura partendo da Berlino, è anche la fine della carriera in nazionale culminata con il ruolo di portabandiera a Pechino 2008.
L’ovazione del pubblico e l’inchino di Dirk suggellano un’epopea straordinaria, durante la quale Nowitzki ha letteralmente portato la palla a spicchi nelle case dei tedeschi. Mentre sul parquet va in scena la sfida conclusiva del girone tra Turchia e Islanda, fuori dagli spogliatoi della Mercedes Benz Arena è raccolta una discreta folla. Da più di un’ora Nowitzki sta firmando autografi e sorride mentre tifosi e appassionati scattano selfie. Ci sono ancora una cinquantina di persone ammassate dietro alla transenna che separa la zona riservata a giocatori e addetti ai lavori dal corridoio che porta verso l’uscita laterale, la canotta numero 41 dei Mavs, alternata alla 14 bianconera, è la divisa d’ordinanza. Alle spalle di Nowitzki, l’addetto stampa in giacca e cravatta preme perché la sessione d’autografi — già protrattasi ben oltre il tempo normalmente concesso — termini all’istante. La presenza del campione nella capitale è troppo preziosa e ad attenderlo ci sono eventi organizzati da sponsor ed enti di beneficenza. Dirk, con calma pari alla risolutezza, risponde senza smettere di autografare un poster in cui alza il Larry O’Brien Trophy.
«Ci sono ancora un po’ di amici qui, quando avrò finito con loro potremo andare».
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«Das ist Dirk».
Dario Costa è nato trentotto giorni dopo Kobe Bryant. È innamorato e scrive di musica e pallacanestro, spesso mescolate insieme. Ha collaborato con Barracuda Rock Tour e Rivista Ufficiale NBA.
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