Siamo all’inizio di una nuova, entusiasmante, appassionante, spumeggiante, palpitante stagione di basket collegiale. Anzi, di più. Non siamo mai stati così contenti di rivedere gli spalti riempirsi. Non è solo la consueta astinenza pluri-mestrale, appena lenita da estati, spiagge e mercato NBA. È anche un inedito senso di sollievo dopo che negli ultimi mesi il college basket è diventato improvvisamente un orrendo spin-off di The Wire, senza ovviamente i picchi di arte e umanità che ci hanno fatto tanto amare quella serie. Arresti, intercettazioni, operazioni sotto copertura, crimini grossolani, carriere distrutte: rivedere la palla che rimbalza non cancella tutto questo, anzi non deve cancellarlo. Ma almeno riequilibra le cose, ricordandoci che, pur ferito da questioni morali e legali da affrontare quanto prima, il college basket che ci ha fatto innamorare esiste ancora. Per il momento.
La calda estate collegiale
Lorenzo Bottini: Iniziamo subito da cosa è successo quest’estate: gli agenti dell’FBI sono entrati nei campus, hanno strappato il velo di Maya sui rapporti tra allenatori, giocatori e atenei e ora l’intera NCAA vive nell’ansia che prima o poi il proprio nome salti fuori facendoli diventare i Weinstein della palla arancione. Visto che ormai ogni volta che sento parlare di FBI penso solo a Mindhunter e già mi sogno Rick Pitino interrogato come Hannibal Lecter, facciamo un po’ di chiarezza su quello che è successo.
Andrea Beltrama:The Wire, dicevamo. Per chi l’ha visto, inutile aggiungere altro; per chi deve rimediare, è una serie ambientata a Baltimora, cinque stagioni di affascinanti storie urbane, con personaggi di rara complessità e un cruciale filo conduttore: un gruppo di poliziotti emarginati dai propri superiori, che indaga su complessi intrighi criminali servendosi di intercettazioni telefoniche. Sono indagini ai limiti dell’illegalità: farraginose, rallentate da burocrazia, limiti tecnologici, astuzie nemiche. Si protraggono per mesi, tra appostamenti, infiltrazioni, ore infinite passate ad ascoltare le conversazioni che avrebbero dovuto produrre colpevoli e prove. Ecco, ora sostituite la polizia di Baltimora con l’FBI, che ironicamente nella serie si rifiutava sempre di prendersi in carico i casi, contribuendo al loro naufragio. E rimpiazzate le gang con gli addetti ai lavoro del college basket.
Dopo oltre due anni di indagini, le ultime settimane dell’estate hanno portato alla luce i primi risultati: dieci arresti, la carriera di Rick Pitino in brandelli, un giro di corruzione di proporzioni mostruose. Sono emerse operazioni di reclutamento pilotate dagli agenti, sponsor che “vendono” futuri atleti agli allenatori, mediatori che si riempiono le tasche oliando contatti che, secondo le norme NCAA, non dovrebbero nemmeno esistere (qui, per i dettagli di cronaca). Il tutto grazie a una serie di operazioni che hanno visto cimici in stanze di albergo, adescamenti, pentiti che iniziano a cantare sotto minaccia. “Eh, ma queste cose sono sempre successe”, è la risposta intuitiva. Giusta a metà. Perché queste vicende vengono solitamente indagate tramite i meccanismi “interni” delle università, altra cosa rispetto agli organi di giustizia ordinaria; e men che meno si era mai mossa la polizia federale che, come è noto, non si scomoda se manca la possibilità di catturare i pesci grossi, dato che per quelli medi non si muove nemmeno.
Cosa abbiamo imparato? Pochissimo, visto che le indagini sono in corso da mesi, e gli esiti stanno iniziando a uscire solo ora. Al tempo stesso, però, abbiamo appreso moltissimo. Primo: la corruzione a livello NCAA è molto più sistemica di quanto il popolo laico pensasse. Al di là delle voci di corridoio, coinvolge una trama fittissima di addetti ai lavori, alcuni dei quali lontanissimi dall’aspetto tecnico, e con in ballo cifre da capogiro. Secondo: gli organi di autocontrollo interni della NCAA si sono dimostrati di un’inefficienza imbarazzante. Un po’ come quelle classi alle elementari a cui viene data la possibilità di autogestirsi, e che solo l’intervento congiunto di preside, maestre e provveditore salva dall’auto-implosione. Morale: bisogna cambiare, e in maniera efficace.
Difficile che slogan da tabloid — abolire la “One-and-Done rule”! Stipendiare gli atleti! Costringere tutti a restare quattro anni! — possano avere effetti magici. Più importante pensare a come svecchiare un sistema che spende una quantità di risorse mostruosa nell’applicare leggi cervellotiche, ad esempio quella che impone che un allenatore e un potenziale giocatore non possano andare oltre ad un “riconoscimento reciproco della presenza altrui” se si incontrano in certi periodi dell’anno; o quelle riportate in questo articolo. A maggior ragione se a farlo deve essere un sistema che si è riscoperto incapace di monitorare, figuriamoci combattere, l’attività criminale al proprio interno. In gioco non ci sono solo tre mesi di partite e tre settimane di March Madness: ci sono i concetti stessi di “studente atleta” e “sport amatoriale”. Pilastri dell’essenza NCAA, e facili vittime dei populismi in questi tempi di crisi.
È però importante ricordarsi che, per una Louisville al centro dello scandalo, ci sono decine di Colgate e Winthrop: atenei che, lontano dai riflettori, associano con rigore sport e formazione, levigando barriere all’istruzione altrimenti insormontabili attraverso il basket e gli altri sport, che grazie ai loro ricavi possono essere tenuti in piedi. Quando si parla di smantellare tutto, sono soprattutto queste istituzioni che rischiano di pagare il prezzo più alto: quelle che incarnano meglio lo spirito del basket collegiale, e che a metà marzo ci regalano gli upset per cui saliviamo un anno intero. Fine dello spiegone, occhi al tabellone.