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Foto di Arturo Stanig
Sport Francesco Pacifico 1 luglio 2013 9'

Go big or go home

La scena degli sportsbar a Hell’s Kitchen, New York, il libero mercato, il bisogno di stabilità, il primo giorno dei playoff NBA, posti chiusi per renovation, Knicks – Celtics, «ne vuoi un’altra?», Rajon Rondo in borghese, sottotitoli in diretta, le persone che vedi su YouPorn.

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Vengo a New York una volta l’anno, per un mese, in primavera o estate, per lavoro. Sto a Hell’s Kitchen, che è un quartiere trashone di Midtown, Manhattan. Rimane a ovest di Times Square, il che gli garantisce un flusso emozionante di turisti grassi con l’aria di aver appena detto «These heroes» o «America» con la bocca piena, e della zona dei teatri, bacino di eccentrici non belli né vestiti bene. Si diceva da qualche anno che Hell’s Kitchen intendesse gentrificarsi, ma non ci si vede un hipster per lo meno fino a Chelsea, trenta streets più a sud.

 

È invece pieno di sportsbar per i bros. Non è in uno sportsbar che ho seguito i playoff più esaltanti degli ultimi anni: quelli di due anni fa, culminati con la sconfitta degli Heat contro Dirk e i Mavs quando, sull’uno a zero e in vantaggio nella seconda partita, si erano sgonfiati così, per il nostro sollazzo, li ho seguiti in un bar d’angolo che si chiama Coffee Pot. Si chiamava. L’anno scorso sono tornato e aveva chiuso. Al suo posto c’era un risto-sportsbar tutto noir con scritte a lampadina, di nome Mickey Spillane’s. «Hell’s Kitchen Finest.» Un newyorkese l’altro giorno mi ha introdotto al concetto di Go Big or Go Home: a New York o ci si allarga o si molla. E in effetti il Duane Reade dell’isolato ha appena abbattuto una parete e si stanno allargando. L’ufficio di n+1, la rivista letteraria, stessa cosa: hanno abbattuto una parete e si sono allargati. Gli altri chiudono. A un altro angolo ha aperto un enorme sportsbar dove non ho il coraggio di entrare. Ha la terrazza. Il messicano dove mangiavo sempre è chiuso per renovation. Niente, questa città crede nella libera impresa e gli affitti tengono il sale sul culo a tutti. O muori o ti ingrandisci. Fa un po’ paura. Mi ricordo quando nel 2009 ho trovato chiusi tutti e tre i coffeeshop di Cobble Hill dove avevo finito di scrivere l’ultimo romanzo. Ricordo la processione un po’ nostalgica e lo stupore di fronte ai tre luoghi affettivi tutti e tre chiusi con l’avviso di lavori sulla porta a vetri.

 

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Al Coffee Pot l’esperienza della partita di basket era molto profonda. Bisognava chiedere agli indiani che lo gestivano di levare il canale del telegiornale e mettere la partita. La si guardava senza volume, ascoltando FM radio. Io la guardavo affondato nello stesso divano in cui di giorno andavo a scrivere. Di giorno ero spesso circondato da orientali che ci venivano a dormire nella pausa da non so che lavoro di consegne. La partita la guardavamo senza volume (plurale a casaccio, andavo sempre da solo), con i sottotitoli automatici, quella roba che hanno qui che è come un programma di dettatura automatica, preciso ormai al 95 percento, che riporta con un certo ritardo il commento live, creando un effetto psichedelico bellissimo perché il cervello cerca di associare automaticamente i contenuti delle frasi a quelli delle immagini, e non combaciano mai, quindi il cervello si apre a ogni intuizione e si diventa dei grandi artisti o imprenditori. Dopo, i vestiti puzzavano di uovo strapazzato e olio usato. Lo schermo del televisore era distrutto, in basso, dalla goccia cinese dei sottotitoli, che l’aveva macchiato di pixel verdi e rossi ormai incapaci di riprodurre il segnale dei canali.

 

L’anno dopo, era chiuso. Ho cominciato a frequentare il Molloy’s, dall’altra parte della strada, il più banale pub irlandese del mondo – biliardo, hamburger troppo cotto, camerieri non cocainici, quasi preteschi nell’accoglierti come sei, una sera di merda, a guardare da solo la partita. Ci ho visto gli odiosi playoff dominati dagli Heat. Avevo molto da lavorare ed ero triste quindi la sera la passavo da solo qui al bancone a vedere le partite, e per le pause pubblicitarie mi portavo un manoscritto da correggere. Sempre grande rispetto dai baristi irlandesi.

 

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Oggi cominciano i playoff e giocano sia New York che Brooklyn. Volevo un biglietto per entrambe ma i Knicks sono sold out e a Brooklyn il più economico costa mille dollari.
Così decido di andare a vedere Knicks e Celtics al Mickey Spillane, il posto nato sulle ceneri delle uova cucinate al Coffee Pot. Ho in mente una grande storia su New York che cambia, ma appena mi affaccio mi rendo conto che i tavolini sono troppo piccoli per metterci il computer. Sono piccoli, di legno scuro, e hanno i tovaglioli di stoffa. Non avevo capito che al Mickey Spillane, il nuovo bar noir che cerca un po’ di capitalizzare sull’aria losca ma anche scontata e sputtanata di 9th Avenue e sulla sua invece spontanea tendenza al pacchiano broatto, hanno pensato in grande. Ripiego sul Molloy, dove ordino da bere e chiedo se gli dispiace se apro il computer. Gli irlandesi sono fantastici: quello di oggi ci pensa davvero prima di rispondere, mi rispetta un sacco, e io gli assicuro che vado a mettermi sul tavolino là, che è dove sto adesso, dove non rovinerò l’atmosfera.

 

Sono appena entrate una mora e una finta bionda coi capelli lisci biondi. La bionda ha una maglia sottile beigiolina e stivali marroni e giacca di pelle nera appesa allo sgabello. La bruna ha lo stesso tipo di maglia senza collo però fucsia, naso rifatto, stivali neri e giacca viola appesa allo sgabello. Vicino a loro, uno con un finto Borsalino in testa e i pantaloni larghi. Sembrano quelle persone che vedi su YouPorn. Magari se le guardo meglio le riconosco.

 

Quanto alla partita, da subito due triple aspiranti di Melo che scatenano quella retorica orrenda della telecamera ai playoff: ripresa dall’alto, inquadratura che allarga lo zoom dal campo alla folla per riprendere la gente che si alza in piedi. Troppi cambiamenti. Vi conosco, brutti sfigati. C’ero quando Gallo marcava Durant per tutta la partita ma riuscivate a perdere di un cazzo al secondo supplementare. Spero perdiate male.

 

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L’anno scorso li avevo lasciati squallidi, inutili, con Melo accentratore che aveva fatto allontanare Mike D’Antoni ma poi esauriva ogni possesso in isolamento e gli Heat l’avevano umiliato. Ora, quest’anno non ho potuto seguire la regular season per ragioni di lavoro. Sono anni che mi faccio l’abbonamento alle partite online e la tradizione è sempre stata lavorare sul portatile con le partite della notte accese sul computer fisso la mattina on demand, ma quest’anno non potevo e allora niente, l’ho presa come una storia folk e me la sono fatta raccontare per sommi capi da Gazzetta e Espn e Grantland. Questa di sabato alle tre è la prima partita dell’anno che vedo. Mi dispiace, avevo quasi cominciato a capire qualcosa di basket, l’anno scorso, ma poi perdere un anno di studi, alla mia età…
Mi ritrovo con i Knicks forti, quel tonto di Felton che è tornato e spopola, Kenyon Martin in lunetta, e Melo con la faccia sobria da leader. Non lo accetto. Di là hanno il lutto implicito per la maratona di Boston, Rondo in panca vestito grigio e orrenda felpetta gialla con zip, e Pierce e Garnett che fanno brutto molto poco, come per amministrare il fiato. New York macchina da triple.

 

Visto che i tre al bancone non erano abbastanza, ci hanno messo accanto uno col cappellino grigio e la giacca di pelle nera e i pantaloni neri. I tre comunque li ho già visti su YouPorn. Magari, se ci parlo, tra due ore sto su YouPorn anch’io. 40-38 Boston. Garnett alza le mani, il coach alza le mani, ora mi riposo un po’ e mi ubriaco. Hanno appena messo “The Joker” di Steve Miller Band, ovviamente. Ho ordinato subito le patatine.

 

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No vaffanculo, al Garden c’è perfino Ricky Gervais. E McEnroe. E Michael J. Fox, Dio lo benedica. I Knicks sono diventati i Lakers, e tutti quei mezzi pelati che da anni andavano a vedere una squadra ridicola perdere con le squadre vere ora fanno come se fossero abituati a questa grandeur. Ma andare al Garden a vedere i Knicks era una esperienza rassicurante. Vedere una squadra perdere così, per troppa auto-importanza, come l’Inter, faceva sempre piacere. Poi uscire dal Garden nello squallore di 8th Avenue, trovarci John Turturro che commenta la sconfitta con Spike Lee nello spiazzo vicino alla fila per i taxi, anche loro, a vederli bene, perdentissimi.

Le due tipe hanno le ciglia rasate. Il tipo è più giovane di loro e credo di avere ragione sul conto dei tre. A meno che non esista un tipo di interazione lavorativa o di networking che ha la stessa aria che attribuiresti a tre che girano un porno insieme. Lui ha sempre la schiena dritta, ora è in camicia, bianca, e non ride mai alle battute delle ragazze ma è molto attento a loro. È attento come fosse un autista, ma loro ridono con lui come non fosse un autista, e però non lo prendono in giro per la sua serietà. Vuol dire qualcosa.

 

La partita è sul 53 – 52 per Boston, New York si tiene in piedi con delle grandezze di JR Smith, di cui ho letto le imprese nel corso dell’anno, il premio di miglior sesto uomo. Il che mi fa pensare a una lista di cose che non voglio vedere in questi playoff: non voglio vedere vincere i Knicks e non voglio che Melo ottenga altri riconoscimenti dopo aver strappato il titolo di miglior marcatore a Kevin “Papa Francesco” Durant. Non voglio che i Clippers perdano male.

 

Hanno messo anche “Sultans of Swings”, ovviamente, ma ora sono finiti su una strana miscela di blues rock e rap. I tre di YouPorn se ne sono andati, ora sta a noi rintracciarli, e al loro posto si è sostituito un quartetto composto da due latinos grassi in pantaloncini da basket, un piatto di fagioli con formaggio e una boccetta scatenata di tabasco. Ora i due del quartetto si voltano uno verso l’altro per parlarsi e vedo che non sono latinos ma asiatici. Poi tornano a guardare lo schermo e chiaramente sembrano latinos. Uno ha le Nike Shox e un altro le Airmax nere e bianche. Una tripla di Melo e si pareggia 57-57. Mi dispiacerebbe se l’anno prossimo la AS Roma fosse forte e un cretino americano in viaggio nella capitale desiderasse, per nostalgia e per senso di continuità, vederla perdere. La partita è noiosa come una partita di calcetto della squadra mia e di coach Manusia, quando tutti cercano di sfondare centralmente senza passarsela. Se non altro Melo e Green si menano. Vorrei non aver chiesto la maionese per le patatine.

 

Accanto ai finti latinos si è seduta una ragazza sovrappeso con lunghi boccoli bruni e una borsa a tracolla di Mark Jacobs. Mi ricorda tanto una con cui ho parlato l’anno scorso proprio al bancone, stessa faccia da cantante da reality. La tipa mi disse chissà com’è cantare l’inno nell’arena di – non ricordo che partita fosse, ah sì, Oklahoma City: disse che tifava per loro e che avrebbe cantato volentieri il loro inno. Questo per poi dirmi che lei un inno lo aveva già cantato, perché era amica di un proprietario di una squadra di football. Quale? I Cowboys. Un posto di mitomani, capito? Hell’s Kitchen è il posto dove arriva la risacca dei cercatori di svolte artistiche dell’adiacente Theater’s District. È un quartiere il cui senso estetico è dominato dalle repliche di Friends e da YouPorn e dai talent show. E potrebbe anche essere vero che abbia cantato l’inno per i Cowboys, ma insomma è riuscita a dirmelo che conosceva il presidente dei Cowboys, c’è riuscita in poche mosse, e io giuro che non parlo con le donne durante le partite, non ho proprio tirato fuori la sua confessione.
Pubblicità di un documentario su Amanda Knox.

 

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Più sette Boston, da una tripla. Noia di pick and roll e scarichi, rimbalzo di Garnett, tripla sbagliata di Pierce, Smith in zingarata, prende il fallo, ma non va in lunetta. Tutta così. Il bar si è riempito di quegli accenti da MTV Real World e risatone, la playlist è passata a un pop con voci auto-tune. Pure Boston molto noiosa, pioggia di missili arco-ferro.
All’inizio del quarto quarto mettono il volume della telecronaca. Siamo sul 72 pari ma è da molti minuti che Boston non dice niente. Allora, un paio di tipi rasati al bancone con pizzetto uno e barba l’altro hanno iniziato a tifare ad alta voce. È entrato anche un nero caratteristico col cappellino rosso e la maglietta rossa a maniche lunghe. Melo ha messo un midrange jumper con mani in faccia da parte di Green, mentre dall’altra parte Garnett non riesce a superare nessuno e neanche Pierce. Ti perdi un anno e cambia molto. Oh ma poi entra un jumper di Pierce veramente elegante, Boston due sotto, momento vintage. Ma poi JR Smith col canestro e il fallo. Credo che i Knicks se ne stiano andando.

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Ho sempre odiato Boston. Ma la necessità che vinca è di altro ordine. Non voglio che Boston go home perché non go big. E non voglio che New York non go home perché go big. È un principio terribile. Hanno messo un audio molto forte e durante la pubblicità è ancora più forte, specialmente per quelle dell’assicurazione. Boston fa passi. Devo continuare a bere perché non ho capito come si risponde “no grazie” quando ti vengono a chiedere se ne vuoi ancora. Gli ultimi quattro minuti con orrendi tiri da lontano tutti sul ferro. Me lo ricordavo più divertente questo sport. Altra tripla sbagliata di JR. Mi pare la mia squadra di calcetto. Palla rubata a Pierce, Anthony in contropiede, cinque sopra NY, menomale che almeno in Italia le cose non cambiano. Un altro canestro di Anthony da solo, long two, dal posto a bordo campo si agita McEnroe in camicia apertissima, accanto a una figa a cui sembra imparentato.

Tags : boston celticsnew yorknew york knicksplayoff nba

Francesco Pacifico scrive su IL e Repubblica e il suo ultimo romanzo è "Class - Vite infelici di romani mantenuti a New York" (Mondadori 2014).

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