Quando Abramovich completa l’acquisto del Chelsea nel giugno del 2003, in Premier League ci sono solamente due squadre di proprietà non inglese: il Fulham – acquistato nel 1997 dal proprietario egiziano di Harrods, Mohamed Al-Fayed – e il Portsmouth – salvato nel 1999 dal cinico affarista serbo Milan Mandaric (che speculava comprando e rivendendo squadre sull’orlo del fallimento, come anche Leicester, Sheffield Wednesday o l’Olimpia Lubiana).
Abramovich ha rappresentato una sorta di spartiacque nel processo di globalizzazione del campionato inglese, c’è un prima e un dopo Abramovich: negli anni successivi al suo arrivo, mentre Fulham e Portsmouth scomparivano dalla geografia della Premier League, altri capitali stranieri verranno attirati in Inghilterra dal miraggio dei suoi successi immediati.
Quando Abramovich vince la Premier League alla sua seconda stagione ufficiale alla guida del Chelsea (che non vinceva il titolo nazionale da mezzo secolo), il più importante club inglese, il Manchester United, finisce in mani americane. Quando alla fine della primavera del 2012 il Chelsea vince la sua prima, e per adesso unica, Champions League, le proprietà straniere in Premier sono già diventate dieci.
Oggi, con il club londinese di nuovo in cima alla classifica, le uniche squadre ad avere una proprietà del tutto inglese sono il Tottenham, lo Stoke City, il Burnley e il Middlesbrough. Alcune di queste quattro potrebbero retrocedere già quest’anno, e anche in Championship i club con una proprietà del tutto o in parte straniera sono 11 su un totale di 24.
In questi anni i capitali esteri hanno cambiato strutturalmente la Premier League e i club inglesi, anche in maniera più profonda ed estesa rispetto a quanto fatto dal miliardario russo col Chelsea: la bizzarra coppia russo-americana Kroenke-Usmanov ha trasformato l’Arsenal in un club moderno ed europeo con un nuovo stadio sponsorizzato da Emirates; la famiglia statunitense dei Glazer ha reso il Manchester United il club più ricco del mondo; mentre lo sceicco arabo Mansour bin Zayed Al Nahyan sta rendendo il Manchester City sempre più simile ad un’enorme multinazionale.
Ma nessuno di loro può vantare un impatto sportivo sulla propria squadra anche solo vagamente comparabile a quello avuto da Abramovich sul Chelsea.
Nascondersi in piena vista
Fare un profilo di Abramovich è un’operazione estremamente delicata perché la sua immagine molte volte si costruisce per paradossi. È di gran lunga il presidente della Premier League più in vista, sapremmo riconoscerlo tra mille foto, eppure di lui non sappiamo praticamente niente, se non la marca e la lunghezza dei suoi yacht.
Sappiamo dei torbidi rapporti tra il Primo Ministro della Federazione Russa, Medvedev, e il socio di minoranza dell’Arsenal, Usmanov. Sappiamo dei 600 milioni di dollari persi con il fallimento della Banca di Cipro da Rybolovlev, che possiede una squadra relativamente marginale come il Monaco. Mentre di Abramovich, che ha tra le mani uno dei club più importanti del mondo ed è uno degli uomini più vicini a Vladimir Putin, dobbiamo accontentarci di biografie non autorizzate e gossip di basso valore.
La stampa italiana, ad esempio, sembra ossessionata dalla sua ricchezza. La quasi totalità delle notizie – chissà quanto verificate, poi – è di questo tipo: Abramovich che perde a poker uno yacth da 500mila euro; Abramovich che spende 52mila dollari in un ristorante di New York; Abramovich che regala un museo da 250 milioni di euro alla sua fidanzata.
Abramovich su uno dei suoi yacht a Lisbona, dove attracca per gli Europei portoghesi del 2004.
La privacy è oggi un bene di lusso riservato solo ai ricchi della sua portata, ma il miliardario russo ha avuto una protezione ossessiva verso il suo passato, molto maggiore rispetto anche a persone che condividono la sua stessa condizione economica e sociale. Fino al 1999 non esiste TV o giornale che abbia una sua foto, tanto che quando arriva in Inghilterra un suo assistente gli consiglia di farsi fare un rassicurante book di foto istituzionali per soddisfare la stampa.
Abramovich non rilascia quasi mai interviste, e analizzarlo significa attraversare il corridoio di specchi deformanti delle dichiarazioni delle persone che lo hanno conosciuto, che restituiscono inevitabilmente immagini diverse, a volte contrastanti o addirittura opposte. Questo, anche perché chi lo ha conosciuto davvero sa che l’esposizione mediatica è la parte scoperta della sua cotta di maglia, dove si può affondare la spada.
Quando c’è da parlare con la stampa Abramovich non si fida di nessuno, nemmeno di se stesso: «Non ho mai fatto dichiarazioni pubbliche, o almeno ho provato a non farle. So di non saperle fare: divento molto nervoso, dimentico cosa volevo dire, non riesco a comunicare davvero il mio pensiero ai giornalisti. Così ho deciso che non è cosa per me».
Nonostante non parli mai in pubblico (e vieti spesso anche alle persone a lui più vicine di farlo), Abramovich sa perfettamente quanto conti dare un’immagine positiva di sé all’esterno. Una volta, parlando con Le Monde, dichiarò: «Sapete qual è la differenza tra un ratto e un criceto? Nessuna, è tutta una questione di pubbliche relazioni».
Lo studio della sua tenuta estiva fuori Mosca è tappezzato di libri finti, con la copertina e in bella mostra ma niente dentro.
Perché venire in Europa
Abramovich ha rilasciato alla stampa inglese solo due interviste ufficiali, entrambe alla BBC. In una di queste, del luglio del 2003, si parla di cosa l’ha spinto a comprare il Chelsea: «Non lo faccio per i soldi, ho tanti altri modi meno rischiosi di fare soldi rispetto a questo. Non voglio gettare via i miei soldi ma lo faccio davvero per divertimento, e questo significa successo e trofei. […] Sto realizzando il mio sogno di possedere un club di calcio di prima fascia. Alcuni dubiteranno delle mie motivazioni, altri penseranno che sono pazzo».
Non sappiamo se sia sincero o simulato, ma in pubblico Abramovich cerca sempre di dimostrare un interesse teatrale nei confronti del lato puramente sportivo del suo investimento. Una volta dovette scappare da un Besiktas-Chelsea di Champions League giocato su campo neutro in Germania, dopo aver ricevuto delle minacce di morte in tribuna per aver protestato in maniera troppo vivace per un fallo subito da un suo giocatore.
E sono relativamente famose anche le sue visite silenziose alla squadra, anche tra i primi e i secondi tempi delle partite, che a volte indispettiscono i suoi allenatori.
Abramovich che esulta in tribuna insieme a Drogba, durante un Chelsea-Sunderland del 2015.
Ancelotti ha raccontato di quando, subito dopo la sconfitta con il Manchester United nei quarti di finale di Champions League del 2011, Abramovich si presentò negli spogliatoi senza dire una parola: «In quel momento, dopo aver perso la partita, eravamo tutti un po’ imbarazzati. C’era un silenzio totale». Ma c’è anche chi interpreta questo quieto presenzialismo come una forma di sincera passione verso il calcio.
Antonio Conte, ad esempio, ha rivelato con entusiasmo che Abramovich a volte si siede tra la squadra durante le sessioni video tattiche, nel centro d’allenamento di Cobham: «È un presidente con una grande passione. Vuole conoscere e capire le tue idee».
C’è comunque qualcosa su cui la sua sincerità può essere data per scontata. È vero che Abramovich, tecnicamente un uomo d’affari nel campo dell’energia e dell’acciaio, ha modi meno rischiosi di fare soldi, almeno da un punto di vista imprenditoriale. E sembra essere allo stesso modo autentico il suo impegno nella crescita economica e sportiva del Chelsea, visto che il suo credito personale nei confronti del club londinese sfiorava il miliardo di sterline già nel 2014. Una cifra impegnativa persino per quello che è ancora oggi, nonostante tutto, il presidente più ricco nel mondo del calcio.
Una teoria più affascinante sul perché un oligarca russo decida di punto in bianco di investire una grossa fetta del suo patrimonio in un club inglese in un’epoca in cui non andava ancora di moda farlo è contenuta in una delle poche biografie (ovviamente non autorizzata) sul personaggio: “Abramovich, The Billionaire from Nowhere”, di Dominic Midgley e Chris Hutchins.
Secondo un non meglio precisato fellow oligarch interpellato dagli autori, il Chelsea per Abramovich rappresenterebbe «la polizza assicurativa [sulla vita, nda] più economica della storia». Per capire questa dichiarazione, bisogna prima spiegare come ha fatto Abramovich ad essere uno degli uomini più vicini a Vladimir Putin, ricordandoci che “oligarca” è una parola che fa riferimento al potere politico, prima che ai soldi.
Crescere da oligarca
Abramovich emerge come imprenditore nel momento di vuoto tra il collasso dell’Unione Sovietica e l’alba del nuovo impero putiniano, un periodo in cui, secondo il parere di un suo avvocato, la Russia era paragonabile ad uno stato medievale del quindicesimo secolo. Alla fine degli anni ’80 Abramovich è niente di più di uno spacciatore di beni di lusso (per gli standard dell’Unione Sovietica: stiamo parlando di cioccolata, jeans, profumi, sigarette), che comprava a Mosca, dove si era trasferito con la sua prima moglie, e rivendeva a prezzo più alto a Ukhta, una piccola cittadina nel cuore della Russia settentrionale (oltre 1600 chilometri a nord-est della capitale), dove Abramovich è cresciuto coi genitori adottivi.
C’è qualcosa di genetico nell’istinto imprenditoriale di Abramovich. Lui, che ebbe un processo di formazione abbastanza ortodosso (frequentò prima l’Istituto Industriale di Ukhta e poi, non essendo iscritto ad un’università abbastanza prestigiosa da permettergli di evitarlo, passò due anni di leva obbligatoria nell’esercito), finì per fare quello che di fatto faceva anche il suo padre adottivo, Leib, fratello del suo padre naturale, Arkady, che morì schiacciato da una gru quando Abramovich aveva due anni e mezzo.
Leib, «un oligarca del tempo», secondo la definizione della moglie (e madre adottiva di Abramovich) Ludmilla, era a capo del dipartimento forniture di una segheria statale a Ukhta, dove sostanzialmente si appropriava degli abiti e del cibo riservati ai lavoratori del posto per rivenderli sul mercato nero ad un prezzo più alto rispetto a quello fissato dallo stato sovietico. Un’attività che ha permesso ad Abramovich di avere un’infanzia relativamente agiata, che includeva anche alcune rarità assolute per l’Unione Sovietica, come il walkman.
Ma se Leib era costretto di fatto a vivere una doppia vita, promuovendo l’ideologia di stato in pubblico e guadagnando dal mercato nero in privato, Abramovich, in tempi di di glasnost e perestroika, era libero di arricchirsi e reinvestire senza alcuna preoccupazione ideologica o morale.
Quando Gorbachev tolse il divieto di impresa privata, Abramovich fondò la sua prima azienda, la Uyut (letteralmente, in russo, “comfort”), specializzata nella produzione di bambole e papere di gomma. Da lì, nei primi anni Novanta, Abramovich si espanse in altri campi (separandosi nel frattempo dalla prima moglie, secondo cui «sembrava che amasse il suo business più di me»), come la rivendita di copertoni e la selezione di guardie del corpo. È solo con il passaggio da Gorbachev a Yeltsin, però, che iniziò a puntare la vera gallina dalle uova d’oro: gli idrocarburi.
La leggenda su come sia entrato nel business dell’energia, smentita dal diretto interessato e a cui possiamo solo decidere se credere o meno, è questa. All’inizio del 1992 Abramovich ha bisogno di raccogliere capitale per entrare in un settore che è troppo grande per le sue tasche, nonostante il nuovo stato russo stia svendendo il suo bene più prezioso – idrocarburi: petrolio e gas naturali – ad affaristi di ogni tipo. La soluzione è originale: decide di dirottare un treno carico di tre milioni di chili diesel dal valore di circa quattro miliardi di rubli partito da Ukhta e diretto a Kaliningrad falsificando i documenti ferroviari. Il treno arriva a Riga, in Lettonia, dove Abramovich si appropria del diesel e lo vende. Abramovich, all’epoca 25enne, viene inizialmente arrestato per frode ma poi un misterioso benefattore gli permette di uscire di prigione e tenersi il guadagno.
Ma la realtà probabilmente è più complicata di così e non potendo avere certezze sulla veridicità della vicenda possiamo prendere questa storia al massimo come una metafora. Quello su cui possiamo essere un po’ più sicuri è che in quello stato medievale che era la Russia degli anni ’90 per prendersi una parte di quella torta ricchissima che erano gli idrocarburi bisognava avere le giuste connessioni politiche, un capitale di un certo rispetto e addirittura «protezione fisica», come verrà definita più avanti, nei confronti degli altri competitor. Abramovich riuscirà a trovare tutto questo in un unico uomo: Boris Berezovsky.