Dove sta andando la Serie A
7 grandi domande sullo stato del campionato italiano.
5. La Serie A sta diventando un campionato per giovani?
Fabrizio Gabrielli
Osservando i Mondiali U-20 e soprattutto gli Europei U-21 dell’estate scorsa ci siamo fatti l’idea che stessimo quasi quasi diventando un Paese Per Giovani: non tanto per il fatto che nell’U20 ci fossero elementi (tipo Barella e Mandragora) più o meno in pianta stabile nella rotazione dei titolari delle squadre d’appartenenza, quanto – soprattutto – per l’inedito livello d’esperienza che poteva vantare la nostra U-21, tutta composta da calciatori che, pur giovani, potevano considerarsi habitué della Serie A.
Eppure la polaroid dello stato anagrafico del nostro campionato ci restituisce una realtà complessa, in virtù della quale affermare che la Serie A stia diventando un campionato per giovani, pur non essendo per certi versi falso, non è alla stessa maniera altrettanto vero.
Nell’ultimo triennio, in un’ideale curva del ringiovanimento, il picco più alto in realtà l’abbiamo già sperimentato nella stagione passata, quando dai 27 anni di media del 2015/16 (una media età calcolata per giocatori utilizzati per partita, sulla base dei dati Transfermarkt) eravamo scivolati ai 25,5 (quest’anno siamo tornati su una media, comunque sbarazzina, di 26,2: sufficiente abbastanza per surrogare l’affermazione che no, non abbiamo scoperto ancora la Fonte della Giovinezza calcistica).
Non è tanto interessante discutere di quanto giovane possa essere diventata la Serie A, ma su quale tipo di gioventù si regga.
Le tre neopromosse, per esempio, pur puntando come in passato sull’innesto di giocatori dal tasso d’esperienza utile per la categoria, hanno confermato negli undici di partenza giovani U-23 che si presentano non tanto come scommesse, quanto come punti di raccordo, di continuità nella produzione calcistica delle rispettive squadre: Chibsah e Puscas nel Benevento, Ferrari e Bessa nel Verona, Vicari nella SPAL sono tanto giovani quanto veterani negli schieramenti e nelle idee tattiche di Baroni, Pecchia e Semplici.
Tra le squadre di vertice, o comunque di prestigio, invece, le più ringiovanite sono quelle che, intuitivamente, sono più associabili ai concetti di rivoluzione strutturale: la Fiorentina, per ammissione di Corvino, che quest’anno punta sui giovani per «ricostruire la squadra dalle fondamenta» (e rispetto a due stagioni fa la media si è abbassata in effetti di due anni e mezzo); e il Milan, che nel giro di due stagioni si è rinverdito in maniera direttamente proporzionale alle aspirazioni coltivate (per quanto influiscano le presenze di Donnarumma e – almeno nelle prime partite della nuova stagione – di Cutrone).
Di contro, le realtà più conservative sono andate incanutendosi di stagione in stagione: Inter, Napoli e soprattutto Juventus, che da tre anni a questa parte ha la rosa più anziana della Serie A, dopo l’immarcescibile Chievo. Il fatto che ad oggi le tre rose più senili occupino le prime tre posizioni della classifica, magari, potrebbe non significare molto: ma in linea generale la Serie A, questo sì, sta diventando un campionato per “meno vecchi”. Non sarà molto, ma forse è già qualcosa.
Emanuele Atturo
Sebbene i dati non siano del tutto chiari, è innegabile l’impressione che rispetto a qualche anno fa i club del campionato italiano puntino di più sui giovani rispetto al passato. Lo fanno perché, tutto sommato, sono costretti a farlo. È un tema legato a quello sul player-trading: se i club devono lavorare sulle plusvalenze devono innanzitutto aumentare il patrimonio tecnico ed economico della rosa. In buona sostanza devono puntare su giovani che possano essere valorizzati e rivenduti a un prezzo più alto di quello d’acquisto.
La Serie A ha una media età più alta della Ligue 1 e della Bundesliga, che infatti sono campionati in cui si cede più di quanto si faccia da noi, ma più bassa di Premier League e Liga. Verrebbe quasi da pensare che la media età di un campionato sia direttamente proporzionale alla competitività. Al di là delle teorie indimostrabili, però, le squadre di Serie A continuano ad avere dei problemi strutturali nel lanciare giovani provenienti dal proprio settore giovanile. Il CIES ha calcolato quali sono i settori giovanili ad aver lanciato più professionisti nei cinque maggiori campionati europei, solo Roma e Milan, fra le italiane, sono fra le prime venti. Se guardiamo ai giocatori cresciuti in casa nelle rose delle squadre di Serie A il panorama è sconfortante: Juventus e Napoli, ad esempio, cioè la prima e la terza in classifica della scorsa stagione, hanno in rosa, rispettivamente, appena 3 e 2 giocatori cresciuti in casa. Un dato paradossale se pensiamo anche alla qualità del settore giovanile della Juventus. Anche l’Atalanta – un settore giovanile comunque d’eccellenza nel nostro movimento – quest’anno ha in rosa solo 4 giocatori cresciuti in casa, che insieme hanno accumulato meno di 50 presenze in Serie A. C’è qualcosa che si blocca nella trafila di formazione che va dal contesto primavera a quello professionistico, ed è probabilmente un gradino di mezzo che alcuni pensano possa essere occupato dalle squadre B.
La Serie A, insomma, è diventato un campionato che punta di più sui giovani, ma lo fa in maniera improvvisata e poco progettuale. Più per sfruttare le onde del mercato e della compravendita dei giovani che per seguire dei progetti tecnici individuali sui talenti.
6. La Serie A è ancora un campionato reattivo?
Emiliano Battazzi
La Serie A mantiene la caratteristica di essere come un grande Mexican Stand-off in cui nessuno vuole fare la prima mossa per paura di rimanerci stecchito. Il valore dell’errore in Serie A è talmente grande che influenza il modo di pensare il gioco (rispetto alla Premier, ad esempio, che fa dell’errore continuo addirittura la sua attrattività): un terzino che sbaglia la diagonale, e hai perso la partita. Per questo il fascino del calcio reattivo è intramontabile: e però bisogna intendersi bene sul significato delle parole.
Il sistema di gioco della Roma di Di Francesco, ad esempio, prevede una ricerca spasmodica delle verticalizzazioni, che rende quasi impossibile controllare davvero una partita, e anche dominare il possesso. Il gioco della Roma è reattivo ma offensivo: cioè cerca attivamente il recupero del possesso in zone alte, non attende l’errore ma lo determina.
In Serie A ancora diverse squadre praticano un calcio reattivo difensivo, in cui il pallone è meglio lasciarlo agli avversari affinché sbaglino. E in qualche modo però il calcio italiano ha già svoltato a livello di mentalità: non è un caso che le grandi pratichino quasi tutte un calcio propositivo/offensivo, anche se in realtà sono quelle che hanno più da perdere.
Certo, visto che ci sono solo 3 retrocessioni, ci sarebbe un’ampia rete di protezione per squadre di mezzo livello che volessero affidarsi a progetti di calcio proattivo e offensivo. E invece ce ne sono meno di quanto si potrebbe sperare, sopratutto rispetto ai rappresentati di alta qualità di un calcio reattivo, i vari Gasperini, Giampaolo, Maran, Juric, anche Bucchi. Tipo: perché Paulo Sousa non allena in Serie A? E De Zerbi?
A me sembra che il nostro calcio sia talmente attento al dettaglio tattico, e così sofisticato tatticamente, che i progetti di calcio proattivo sono ritenuti troppo rischiosi, solo per presidenti illuminati, perché non c’è mai tempo, in Serie A. È anche un aspetto culturale: fate caso a quanti ex giocatori o allenatori, ora commentatori, critichino la necessità di iniziare l’azione sempre dalla difesa, anche sotto pressione. “Perché rischiare?” è la domanda di fondo: si può sempre attendere il tronco della sconfitta avversaria sulle rive della propria area di rigore. Ma per recuperare il gap con il resto d’Europa il calcio italiano ha dovuto smettere di aspettare, e Guardiola che cita il Napoli come modello di calcio propositivo in Europa è una specie di simbolo della rivoluzione.
Fabio Barcellona
Sì, è bene intendersi bene sulle parole. Schematicamente un modello di calcio reattivo è quello che prova a speculare sulle mancanze e gli errori di quello dell’avversario, minimizzando i rischi; all’estremo opposto sono posizionati modelli che cercano le proprie fortune, anche provocando gli errori altrui, attraverso le proprie iniziative, a costo di prendersi dei rischi. Pur considerando che gli estremi sono solo teorici e che in un gioco estremamente complesso come il calcio a dominare tra il bianco e il nero sono le varie tonalità di grigio, è possibile classificare la Serie A come un campionato in cui si gioca un calcio mediamente più reattivo che negli altri maggiori tornei europei.
La protezione dai rischi è un concetto davvero radicato nella scuola tecnica italiana (e non è detto che ciò sia un male in assoluto) e per questo è difficile vedere in Italia esperienze radicali che invece appaiono molto più frequentemente negli altri paesi. In Germania alcune squadre negli ultimi anni (Bayer Leverkusen, RB Lipsia) hanno estremizzato il concetto di gegenpressing; in Liga piccole squadre come il Rayo Vallecano di Paco Jemez o il Las Palmas di Quique Setien hanno dominato le classifiche del possesso palla, seconde solo al Barcellona, giocando un calcio di possesso molto spinto. Al di là del successo contingente, queste esperienze rappresentano un’avanguardia da cui trarre spunti per uno sviluppo tattico complessivo dell’intero sistema. La Serie A non è un campionato disposto a prendersi tutti i rischi connessi a esperienze innovative ma, rispetto al passato, sembra più disposto a giocare un calcio maggiormente proattivo.
Non bisogna comunque dimenticare che 3 dei 4 campionati maggiori europei dello scorso anno sono stati vinti da allenatori italiani: ad alti livelli la capacità di sintesi dei tecnici italiani, abili ad attingere da diverse esperienze e attenti al dettaglio, si rivela vincente. Questo vale complessivamente anche per la serie A, a cui manca però la voglia di prendersi dei rischi e di scommettere su un calcio meno reattivo, anche a costo di accettare maggiori rischi e possibilità di errori.
7. Come valutate il valore della Serie A in relazione agli altri campionati europei?
Emiliano Battazzi
A livello di competitività stiamo recuperando terreno, e quest’anno forse ancora di più con 5-6 squadre davvero ben costruite e con caratteristiche anche molto diverse. Secondo il ranking uefa siamo sempre al quarto posto, ma per me la vera distanza è solo con La Liga, che rimane il campionato calcisticamente migliore se si considera un ecosistema tecnico-tattico, e anche per la presenza dei migliori giocatori al mondo. Penso che l’aumento della nostra competitività in Europa si vedrà ancora meglio nella prossima stagione, con le 4 squadre in Champions: ma già quest’anno abbiamo squadre che possono arrivare tra le prime 4 sia in CL che in Europa League.
La Bundesliga è il campionato più dinamico, il laboratorio tattico più intrigante e moderno, certo, e a noi manca un po’ di quella freschezza nella visione del gioco, l’idea che si debbano provare nuovi percorsi, nuove metodologie, pensare gli allenamenti in un modo molto più complesso, stimolare i giocatori sotto punti di vista che non siano solo tattici. La Premier è il campionato più intenso e che ti incolla alla sedia e gli invidiamo i grandi allenatori e la varietà di stili che esprimono, certo, ma dal punto di vista della competitività è al nostro livello: proprio perché la Premier ti logora e ti allena a non ragionare mai in campo. Insomma, impariamo a non buttarci giù: la Serie A non è tornata ai grandi fasti del passato, ma è tornata ai massimi livelli europei.
Fabio Barcellona
Io sono curioso di vedere la Premier League di questa stagione. Ci saranno Conte, Mourinho, Guardiola e, in fondo, anche Klopp al loro secondo anno. Portare progetti tattici radicali come quelli di questi allenatori, escluso forse Mourinho, in un campionato per storia refrattario alla complessità tattica è un’impresa difficile; alla seconda stagione nei loro club potremmo davvero vedere le loro idee e quanto dei loro principi verrà sacrificato sull’altare della tradizione della Premier League. La combinazione tra grandi allenatori e disponibilità economica potrebbe – e sarebbe davvero ora – fare risollevare il livello tecnico-tattico del campionato inglese che negli anni passati, a dispetto della sfavillante confezione, è stato talvolta inferiore a quello della serie A.
La Bundesliga, come tutto il calcio tedesco dai mondiali in casa del 2006, è in continuo rinnovamento. Persino le età dei tecnici è indice della voglia continua di cambiare e migliorare: in quale campionato si possono trovare allenatori giovani e dalla scarsissima esperienza come calciatori come il trentenne Julian Nagelsmann dell’Hoffenheim e il trentunenne Domenico Tedesco dello Schalke 04? Negli ultimi anni la Bundesliga è stata un interessantissimo laboratorio tattico: dal gegenpressing di Klopp, portato alle estreme conseguenze da Schimdt a Leverkusen e da Ralph Hasenhuttl nella splendida scorsa stagione a Lipsia, agli ibridi di Thomas Tuchel, che combinava al pressing continuo il gioco di posizione. Tuttavia, il modello economico dei club tedeschi porta le squadre, ad eccezione del Bayern Monaco, ad investimenti oculati e quindi a un livello tecnico non sempre elevatissimo.
Bisogna poi fare i conti con la Ligue 1. L’anno scorso il Monaco è arrivato in semifinale di Champions, il Lione in semifinale di Europa League e il PSG è il PSG. La continua produzione da parte dei club transalpini di giovani di talento, immette, in un contesto di cifre di mercato sempre più alte, un’enorme quantità di denaro all’interno della Ligue 1 di origine endogena (PSG) ed esogena. È un torneo in grande ascesa, pieno di giocatori giovani e sempre più anche di campioni. Se l’effetto traino del Paris Saint Germain non si tramuta in una cannibalizzazione dell’intero movimento, la Ligue 1 potrebbe velocemente risalire posizioni.
Il vero gap della serie A è però con la Liga, dove la combinazione tra campioni, livello tecnico medio e un generale gusto per un calcio propositivo regala oggi il campionato più interessante da seguire per uno spettatore neutrale.