Dove sta andando la Serie A
7 grandi domande sullo stato del campionato italiano.
3. Quali tendenze tattiche stagionali possiamo prevedere?
Emiliano Battazzi
Fino a pochissime stagioni fa, la difesa a 3 dominava incontrastata in Serie A: Conte, Montella, Gasperini, Mazzarri, Ventura lo usavano costantemente, mentre molti altri, da Guidolin a Donadoni, da Mandorlini a Reja, ne facevano un uso moderato. Lentamente, abbiamo esportato l’importanza della difesa a tre nel difendere i mezzi spazi e consolidare l’inizio azione in Premier League, dove Conte ha praticamente costretto tutti gli altri ad adeguarsi (persino Wenger!); ma nel frattempo, in Serie A, cominciava a perdere peso, in favore della classica linea difensiva a 4. Nella nuova Serie A, di convinti assertori della trinità difensiva abbiamo solo Gasperini e il suo discepolo Juric, con un’applicazione però molto specifica di marcature a uomo in tutte le zone del campo, e Semplici. Ad usarla spesso ci sono poi Simone Inzaghi alla Lazio, Montella al Milan (che però è ancora un po’ titubante), e adesso anche Bucchi al Sassuolo (ma potrebbe essere una soluzione temporanea).
Il temporaneo offuscamento della linea a 3 (la celebreremo ancora, vedrete, magari anche durante questa stagione) potrebbe essere dovuto a varie motivazioni, tra cui una generale diffusione del tridente offensivo (si va in parità numerica con l’attacco avversario), la scarsa necessità di consolidare il possesso iniziale (sia per una generale mancanza di pressione alta, sia perché quasi nessuno segue principi posizionali), e le necessità di non perdere un uomo a centrocampo (nella versione a cui siamo più abituati, gli esterni si abbassano a comporre una difesa a 5: ma per Cruyff, invece, giocare a 3 significava liberare un uomo in zone avanzate di campo. Anche per i moduli, todo depende).
Questa esigenza si interseca pienamente con le motivazioni dell’eterno ritorno della difesa a 4: mi sembra che in molti stiano facendo attenzione a sistemare gli uomini tra le linee, sulla trequarti, ed è lì che per la Serie A conta davvero la superiorità posizionale. E oltre a concederti un uomo in più per la trequarti, la difesa a 4 consente anche di creare superiorità numerica sulle fasce, con l’utilizzo dei terzini come vere e proprie armi offensive. Il Real Madrid di Zidane insegna (ma anche la nuova versione del City di Guardiola): attaccare in ampiezza con i terzini è rischioso ma può pagare altissimi dividendi, perché permette alle ali di occupare gli spazi di mezzo e crea un enigma quasi irrisolvibile per la difesa avversaria. E infatti anche in Serie A le squadre di vertice cercano elementi sempre più di spinta: oltre ad Alex Sandro, ci sono a Karsdorp e Kolarov (e sta per tornare Emerson), Conti e Rodriguez, Dalbert e Cancelo (talmente offensivi che per ora Spalletti non li fa giocare), e poi Romulo, Lirola, Masina, Gaspar e via dicendo. Insomma, il trend è usare le fasce per sorprendere gli avversari in ampiezza: con gli esterni a tutto campo richiesti in un 3-5-2 è molto più complicato, ad eccezione dei rombi di fascia gasperiniani. E mentre gli altri ancora elaborano le contromosse del 3-5-2, la Serie A prova a decollare sulle fasce, in attesa di un nuovo trend da decriptare, consolidare ed esportare.
Emanuele Atturo
Due anni fa Emiliano Battazzi scriveva un pezzo intitolato Trequartisti, dove si definitiva la Serie A una riserva di numeri 10, tutti differenti fra loro. Trequartista, peraltro, è una parola esclusivamente italiana, a testimonianza quindi della visione tattica peculiare che si trascina dietro.
Due anni dopo questa tendenza, che in quel momento sembrava un relitto nostalgico del nostro campionato si è rivelata all’avanguardia e i trequartisti hanno iniziato a proliferare, sotto diverse forme, anche nel resto dei campionati europei. In Premier League, ad esempio, diverse squadre (Tottenham, Manchester City, Bournemouth, Everton) giocano con un 3-4-1-2 o con un 3-4-2-1 che ha lo scopo di difendere e attaccare al meglio negli spazi di mezzo.
Le ricezioni tra le linee sono storicamente prerogativa dei trequartisti, e nel calcio attuale stanno diventando sempre più importanti, semplicemente perché consentono di ricevere nelle zone più sensibili del campo: centrali e vicine alla porta. Anche senza il pallone la posizione dei trequartisti è importante, perché permette un buon scaglionamento posizionale per facilitare la riconquista alta, specie nella fase di riaggressione.
Ora bisogna dire che in Serie A l’uso del trequartista rimane comunque peculiare, vista la diffusione dei sistemi a rombo, in cui il trequartista funziona da vertice alto. Da ormai tre anni il 4-3-1-2 è uno dei moduli più utilizzati in Serie A: Chievo, Sampdoria e Cagliari ne fanno uso questa stagione. Meno squadre rispetto al passato – pesa l’assenza dell’Empoli, che ha fondato su questo modulo di matrice “sarriana” la propria identità tattica – ma comunque più che in qualsiasi altro campionato, in cui questo modulo è assente.
Il vertice alto del rombo deve preoccuparsi di offrire una traccia verticale nel corridoio centrale. Il possesso avanza sia con la regola di “un tocco avanti, un tocco indietro”, che direttamente verso la porta se c’è lo spazio. Ecco un esempio di Joao Pedro che offre la linea di passaggio centrale. Ma al trequartista del rombo anche il compito di allargarsi e creare superiorità numerica sulle catene laterali (ecco sempre Joao Pedro). Nel Chievo il trequartista raccoglie il tracce diagonali del terzino o della mezzala abbassatasi momentaneamente, come in questo caso. Specie nel Cagliari, Joao Pedro deve poi attaccare la profondità aperta dai movimenti ad allargarsi delle punte. È richiesta abilità nel gioco spalle alla porta, un ottimo primo controllo e capacità di rifinitura e definizione.
Accanto a questo trademark della Serie A, ci sono giocatori che non sono trequartisti solo nominalmente, ma che del trequartista ricoprono le funzioni più classiche: occupare i mezzi spazi, rifinire, attaccare l’area con inserimenti da dietro. Un esempio di trequartista mascherato è Kurtic, che nell’Atalanta riceve nei mezzi spazi e crea delle catene laterali a destra, ma poi resta molto vicino alla punta al centro e si preoccupa di attaccare l’area quando (spesso) arrivano i cross dal lato forte di Gomez. Per questo la “Dea” quest’anno ha comprato per quel ruolo un giocatore ancora più offensivo come Ilicic. Amato Ciciretti gioca invece largo a destra in un 4-4-2, ma la sua creatività è fondamentale per regalare un po’ di verticalità e qualità di rifinitura all’attacco del Benevento.
Nel 4-2-3-1 di Spalletti Joao Mario funge principalmente da moltiplicatore di linee di passaggio, muovendosi ai fianchi dei centrocampisti avversari per far avanzare il possesso. Nella Fiorentina la linea dei trequartisti è totalmente fluida: se in fase di non possesso Benassi si mette al centro per guastare il gioco avversario, col pallone è Thereau a girare alle spalle di Simeone.
La Lazio, nel suo 3-4-2-1, schiera addirittura due trequartisti, anche se con funzioni opposte. Milinkovic-Savic ha un’influenza enorme sul gioco della squadra: si offre sempre come riferimento nel gioco aereo, alleggerendo i difensori da un’impostazione bassa e pulita. Il serbo è uno dei rari giocatori in grado di dominare fisicamente il gioco fra le linee senza scendere neanche un minimo di precisione tecnica. Accanto a lui però in questo inizio di stagione ha giocato anche un trequartista più classico come Luis Alberto, che si abbassa molto per aiutare la costruzione bassa e sfruttare il suo talento associativo.
Molte delle strategie delle squadra da calcio di oggi consistono nel cercare di prendere la zona profonda e centrale del campo, quella abitata dai trequartisti, soprattutto attraverso una buona occupazione degli spazi di mezzo. La Serie A si conferma anche quest’anno una confortevole riserva per i numeri dieci.
Daniele Manusia
Qualche settimana fa avrei potuto fare un discorso più convinto sul fatto che molte squadre del campionato, anche medio-piccole, scendono in campo con un atteggiamento propositivo. Ogni giorno che passa, però, allenatori e giocatori faranno sempre più i conti con le esigenze di classifica: con la paura, con la stanchezza fisica e mentale di chi ha iniziato a subire le prime sconfitte e con la prudenza di chi non vuole fallire una stagione per una questione di principio. Il Benevento aveva avuto un bell’atteggiamento contro Sampdoria e Torino e contro il Napoli ha pagato proprio un atteggiamento “troppo” spregiudicato – la linea difensiva alta, il tentativo, anche se sporadico, puntualmente punito. Per questo, forse, contro la Roma ha giocato una partita di una passività sconcertante, prossima all’autolesionismo, che però potrebbe servire da modello per una stagione magari meno entusiasmante ma che – contro squadre del proprio livello – possa portarlo più agevolmente alla salvezza.
Insomma, il paradosso è sempre lo stesso: difficilmente chi gioca meglio non vince (nel medio periodo almeno) ma è vero anche che statisticamente è più importante non subire gol che farne. La Serie A, più di ogni altro campionato in Europa secondo me, è consapevole di questa ambivalenza ma sta affrontando l’argomento solo da quando non può ottenere entrambi gli scopi ingaggiando i giocatori migliori, e inserendoli in un contesto organizzato anche se non concettualmente d’avanguardia. Proprio come nel caso del Benevento, che forse scenderà a patti con una realtà più difficile del previsto, la ricerca tattica più coraggiosa che serve a compensare il vuoto di talento “divino”, a livello di sistema, è per forza di cose frenate da un realismo culturalmente irrinunciabile.
In ogni caso, penso che la Serie A stia sempre di più facendo i conti con alcune idee molto in voga nel calcio europeo, e che anche quest’anno vedremo un maggiore utilizzo di meccanismi che comprendano pressione alta (non solo su palla inattiva) e recupero aggressivo in avanti nella metà campo avversaria, squadre normalissime che faranno del palleggio insistito anche in difesa, e anche sotto pressione, una tattica per creare spazi da attaccare. La Spal è un ottimo esempio di come persino le neopromosse non rinuncino più (non sempre almeno) a far uscire la palla a terra dalla difesa. Ma possiamo prendiamo anche Torino-Sampdoria, giocata una settimana fa, come un esempio di partita in cui entrambe le squadre hanno rinunciato a un controllo tattico della partita, sbilanciandosi per recuperare palla o per sfruttare lo spazio in transizione.
Anche se penso al discorso pubblico, mi sembra che si sia diffuso – come un antidoto a una paralisi intellettuale precedente – un desiderio di veder giocare veramente a calcio che risponde anche a un contesto europeo sempre più stimolante e competitivo da questo punto di vista. Anche se a molti piace dire che il calcio in fondo è un gioco antico e semplice (e lo è, come lo sono quasi tutte le nostre attività sportive, tutte caratterizzate da un continuo cambiamento) è innegabile che chiunque abbia visto il Borussia Dortmund di Klopp o il primo Atletico Madrid di Simeone (per fare due esempi molto diversi) abbia pensato: perché noi no? Perché non possiamo almeno provarci?
Certo c’è ancora della strada da fare, per spingere il campionato italiano il più lontano possibile da quella ricerca del compromesso sicuro che diventa nei casi peggiori immobilismo. Forse è proprio per un residuo di prudenza che spesso e volentieri a un recupero iper-aggressivo del pallone si preferisce costringere l’avversario al lancio lungo, per poi eventualmente recuperare la seconda palla; forse è per la paura di immaginare soluzioni collettive originali che le transizioni dipendono spesso dalle qualità di giocatori atleticamente fuori dal comune (e che lo sarebbero anche all’estero, come Belotti, Immobile, Perisic, Chiesa, per fare solo i primi esempi che mi vengono in mente) e la maggior parte delle volte la scelta più sicura è un possesso puramente conservativo; forse è per questo che, in fondo, in molti pensano che sia più conveniente sfruttare l’errore dell’avversario, piuttosto che creare lo spazio dove non c’era.
Una tensione tra la sperimentazione e la prudenza, tra l’immaginazione e lo spirito di conservazione, che secondo me può fare da chiave di lettura del campionato e che caratterizza la storia di molte squadre quest’anno.
4. Il Player trading ostacola la costruzione di un progetto tecnico di lunga durata?
Daniele V. Morrone
Ora che i soldi in Italia sono finiti, che le squadre si reggono esclusivamente sui soldi dei diritti tv, il player trading (il gioco delle plusvalenze per intenderci) per le medio-piccole spesso non è una scelta, ma l’unico modo con cui possono sopravvivere. Il rovescio della medaglia di questa strategia è talmente evidente da rendere la domanda fatta quasi retorica. La ricerca compulsiva della plusvalenza va a discapito proprio del progetto tecnico, che il più delle volte è solo un modo per mettere in mostra giocatori da poter poi vendere il prima possibile. Il player trading abbassa terribilmente il tetto di sviluppo di un progetto perché lo porta a morire prima di vederne il compimento, l’esempio più importante che mi viene in mente è quello della Sampdoria che ha portato Giampaolo allo sfogo la scorsa stagione: «Non si può mai programmare nulla, così vale anche per il prossimo anno. Ma è sempre il club che decide». Ma gli stessi rivali diretti del Genoa fanno la stessa cosa da anni, arrivando a gennaio e vendendo già lì un paio di giocatori che si sono messi in luce.
Vorrei però sottolineare che ci sono squadre che vanno controcorrente. Il Chievo ad esempio è uscito dal sistema per costruire un progetto tecnico di lungo periodo. Invece di rincorrere nomi giovani da vendere per avere nuovi nomi giovani ha lavorato sui giocatori ormai non più ricercati dal mercato perché scartati dalle big o troppo “anziani”. In un certo senso si è estromesso dalla catena alimentare perché nessuno vuole andargli a comprare i giocatori, cosa che ha permesso la costruzione di uno dei progetti tecnici più interessanti e peculiari del campionato italiano, con una squadra che gioca a memoria. Al Chievo può arrivare la cessione di Inglese per 10mln, ma viene vista come una piacevole plusvalenza, non come la necessaria cessione per poter comprare un giocatore nello stesso ruolo da poter poi vendere a 12mln la prossima estate. C’è vita, insomma, fuori dal player trading, basta avere la volontà di cercarla.
Emanuele Atturo
Bisogna sottolineare ancora il punto fondamentale di questo discorso: in Serie A è praticamente impossibile costruire dei ricavi strutturali, soprattutto a causa dell’assenza di stadi di proprietà e di un’iniqua distribuzione dei diritti tv. Il player trading diventa così una strategia di sopravvivenza fondamentale. In un rapporto del CIES si può leggere come tra i 10 club europei che hanno cambiato più giocatori nell’ultimo lustro 7 su 10 siano italiani.
Non sono d’accordo però sul fatto che il player trading sia nocivo, di per sé, ai progetti tecnici. In fondo il principio di funzionamento del player trading è la creazione di un contesto tecnico virtuoso, che permetta ai giocatori di mettersi in mostra. È vero che alcune squadre funzionano quasi solo da “vetrine”, ma a volte sono davvero belle vetrine. Se guardiamo ai club che negli ultimi anni hanno giocato di più col player trading – Sassuolo, Genoa, Sampdoria, Atalanta – sono anche quelli che hanno puntato di più sulla continuità tattica. Un sistema che potesse mettere a proprio agio i giovani per esprimere il proprio calcio, facendo in modo anche che le loro caratteristiche risaltassero dentro un certo contesto tattico. Player trading e progettualità tecnica non sono quindi princìpi contraddittori nel nostro campionato e anzi: Sassuolo, Atalanta, Genoa e Sampdoria, ad esempio, hanno deciso di puntare su un modello tattico ben preciso e coerente proprio per oliare il meccanismo di player trading. La rivoluzione permanente di uomini viene comunque attenuata dalla continuità dei princìpi di fondo. I risultati anche sono stati più o meno positivi, a patto di rispettare un minimo il ciclo vitale stagionale del calcio e non stravolgere la squadra a stagione in corso come ha fatto il Genoa di Preziosi negli ultimi anni. C’è player trading e player trading, insomma.
Naturalmente il discorso cambia se vediamo nel player trading uno strumento per aumentare la competitività sul lungo periodo e aiutare le squadre a scalare le gerarchie del campionato. Vendere ogni anno i propri pezzi migliori e sostituirli con delle scommesse può, nel migliore dei casi, garantire una continuità dei risultati ma è difficile migliorare. Anzi, quando le scommesse si rivelano un insuccesso le ripercussioni sul bilancio sono profonde e strutturali, e possono essere pagate per anni. Altre volte, quando non si riesce a valorizzare nessun giovane, la squadra è costretta a fare di necessità virtù, puntando sulla continuità e sperando che gli investimenti prima o poi paghino: è il caso del Bologna di quest’anno, che non è ancora riuscita a valorizzare i giovani acquistati con i soldi della cessione di Diawara. Il player trading obbliga a una programmazione tecnica perfetta, che non permette errori.
Se però ci lamentiamo del livellamento verso il basso del nostro campionato, come citato anche in questo inizio di stagione, il problema non mi pare più di tanto il player trading in sé, ma il fatto che è spesso l’unico strumento delle squadre per autofinanziare la propria sopravvivenza. Quello che dovrebbe migliorare è tutto ciò che non permette ai club di avere un economia propria: sono convinto che il player trading sia solo l’effetto di alcuni problemi, non la causa.