Fort Wayne
I progenitori degli attuali Pistons hanno origine duecento miglia a sud ovest di Detroit, a Fort Wayne. È il 1941 quando Fred Zollner avvia la franchigia nella piccola cittadina a vocazione agricola dell’Indiana. Il nome, che più avanti sembrerà perfetto per la nuova collocazione, deriva più prosaicamente dal prodotto che i fratelli Fred e Janet Zollner plasmano nella loro Zollner Corp e per le prime sette stagioni il nome della franchigia è Zollner Pistons — all’europea, con il marchio del proprietario/sponsor bene in evidenza.
La pallacanestro è un culto nello stato dell’Indiana, la proprietà sembra capirne parecchio e i primi anni regalano successi a ripetizione. Il decennio successivo, invece, risulta più travagliato. Nel 1949 Zollner è tra i fondatori della prima versione della NBA e, dopo poche stagioni, Fort Wayne comincia a stare stretta. Non bastasse l’inadeguatezza della piazza alle aspirazioni della nuova lega, le ultime annate trascorse nell’Indiana sono funestate da voci di partite vendute, scommesse clandestine e altre vicende torbide. Nell’estate 1957 è davvero ora di cambiare aria.
Motor City Blues
Quando i Pistons si trasferiscono nel Michigan, quello che sorge sulle rive dell’omonimo lago è il quinto agglomerato più popoloso d’America. I flussi migratori dalle zone rurali nel sud del paese hanno portato in città migliaia di uomini e donne alla ricerca di lavoro e di una vita più dignitosa.
Per la maggior parte si tratta di afroamericani che trovano lavoro negli stabilimenti Ford e Chrysler; Detroit è ufficialmente diventata “Motor City”. L’energia generata dai nuovi arrivati, però, non si esaurisce alla catena di montaggio: una volta terminato il turno ci si ritrova per fare musica. E chi non è in grado di suonare uno strumento va nei tanti locali che offrono esibizioni dal vivo. Il capostipite è John Lee Hooker, prima star a emergere dal ghetto con il suo blues grondante storie di povertà e voglia di riscatto. Il fermento in città è palpabile e l’accumulo di talenti sfocerà, due anni più tardi, nella fondazione della Motown Records. L’etichetta guidata da Barry Gordy Jr. pubblicherà tra gli altri Stevie Wonder, Marvin Gaye e i Jackson Five, segnando la scena musicale ben oltre i confini cittadini.
Un successo che diventerà, tra le altre cose, l’inno non ufficiale delle rivolte cittadine nella seconda metà degli anni ‘60.
Insomma, le premesse perché i Pistons cavalchino il momento positivo ci sono tutte. La città poi ha fame di basket, sport di cui è priva da oltre un decennio dopo la scomparsa di Gems e Falcons. Purtroppo per i tanti tifosi che affollano l’Olympia Stadium — e più tardi la Cobo Arena e il Pontiac Silverdome — le cose vanno diversamente: sul campo si alternano giocatori dal talento sopraffino come Dave DeBusschere, Bob Lanier e Dave Bing, ma senza mai riuscire a indovinare l’assetto collettivo vincente. Il roster è in continuo rimescolamento e gli avvicendamenti in panchina, uno ogni due anni, non aiutano. L’instabilità è la specialità della casa e delle prime 27 stagioni trascorse in Michigan solo 3 fanno registrare un record vincente.
Bad Boys
Il destino della franchigia cambia una notte del giugno 1981. È il momento del Draft e i Pistons hanno la seconda scelta assoluta, che utilizzano per portare a casa Isiah Thomas, guardia in uscita da Indiana dopo due anni trascorsi agli ordini del leggendario coach Bobby Knight.
Già nel suo anno da rookie Thomas dimostra qualità di leadership non comuni, diventando da subito la faccia della franchigia e il punto fermo su cui costruire il destino dei Pistons. Il profilo di Thomas è perfetto per entrare in sintonia con gli abitanti di Detroit: spigoloso, tenace, anticonformista e senza paura di risultare sgradevole, a costo di farsi del male da solo. Una battuta sul colore della pelle di Larry Bird e un boicottaggio durante l’All-Star Game, infatti, gli costeranno la futura e reciproca antipatia con Jordan e, soprattutto, il posto nel Dream Team del 1992.
A Detroit però tutto ruota intorno a lui e i Pistons passano la prima metà degli anni ‘80 assemblando pezzo per pezzo la squadra che approderà nell’olimpo del basket. Attraverso scelte e scambi sul mercato arrivano Joe Dumars, Bill Laimbeer, John Salley e Dennis Rodman. Il tratto comune della squadra è la durezza mentale e fisica applicata a uno stile di un gioco che non raccoglie grandi consensi al di fuori dal Michigan, ma che consente a coach Chuck Daly, sulla panchina dei Pistons dal 1983, di forgiare l’identità del gruppo.
Identità che pare modellarsi in simbiosi con quanto succede alla città. L’industria automobilistica ha da tempo abbandonato Detroit per portare le proprie fabbriche altrove, ovvero in luoghi dove il costo del lavoro risulta più conveniente. L’area urbana vive una crisi profonda, tanto economica quanto sociale. Nel corso dei precedenti 20 anni la città ha subito un fenomeno d’abbandono così massiccio da aver ridotto la popolazione residente del 40%. Eppure i suoi abitanti, quelli che hanno deciso di restare, non si arrendono. Chi è rimasto s’identifica fortemente con la squadra, il Pontiac Silverdome registra il tutto esaurito e il tifo è tra i più rumorosi dell’intera lega. Il grido ‘De-tro-it ba-sket-ball’, scandito a gran voce dagli spalti, unisce un’intera comunità che nel tentativo di resistere e non scomparire si aggrappa a Thomas e compagni.
Anche i giovanissimi fans dei Pistons vengono contagiati dal grido di battaglia
La scena musicale della città rispecchia i mutamenti in corso: dal soul tutto colore e armonie della Motown si è passati agli anni ‘70 del rock nato nei garage, rumoroso e disturbante. Gente come MC5, Iggy & The Stooges e Alice Cooper è partita da Detroit alla conquista dell’America e non solo; i Kiss, iconica band tra le più amate all’epoca, ne celebrano lo status con un pezzo che diventerà un classico nel loro sterminato repertorio. Non sarà più la città dei motori, ma il cuore di Detroit pulsa ancora e non ha intenzione di fermarsi.
Newyorkesi d.o.c., Gene Simmons e soci non sanno resistere al fascino della decadente Motor City
Sul versante del campo i risultati cominciano ad arrivare: nel 1987 la squadra raggiunge la finale di conference, ma sbatte contro il monolite biancoverde innalzato da Bird e McHale. Se c’è una dote che non manca a questi Pistons, però, è la testarda convinzione nei propri mezzi: il declino dei Celtics si manifesta durante la stagione successiva e i ragazzi di Chuck Daly si fanno trovare pronti. Buttare fuori Boston equivarrebbe a una liberazione. Che arriva, puntuale, con la vittoria in Gara-6 e l’approdo alle Finals.
Dall’altra parte ci sono i Lakers campioni in carica, una sceneggiatura che sembra scritta a tavolino: il glamour californiano tutto vittorie & sorrisi contro l’ostinata concretezza della classe lavoratrice del Michigan. Ancor più dei Celtics, Isiah Thomas e compagni sono l’antitesi dello Showtime di casa Riley: non c’è niente di spettacolare nel loro stile di gioco, più che un’esibizione di eleganza e tecnica le partite dei Pistons sono un misto di kung fu e basket da strada. La rivoluzione dei Bad Boys non è un pranzo di gala.
Quella con i campioni in carica si presenta come una guerra asimmetrica e Detroit non nasconde l’intenzione di usare tattiche poco convenzionali. Il confronto è subito molto fisico e i Lakers, dopo essere stati sotto 3-2, vincono d’un soffio le decisive gare 6 e 7. Thomas, nonostante un pesante infortunio alla caviglia patito nella penultima gara della serie, si dimostra all’altezza del confronto con il miglior giocatore della lega, Magic Johnson. Chuck Daly abbandona il Forum di Inglewood con parecchi rimpianti, ma anche con la convinzione che manchi davvero poco per salire sull’ultimo gradino, quello più alto.
La stagione successiva i Pistons dominano la Eastern Conference, Boston non è più un ostacolo insormontabile e viene spazzata via al primo turno dei playoff. Il vero test verso le Finals ora è un altro: ha la maglia numero 23 e aspira a dominare la lega. La serie coi Bulls inaugura una delle rivalità più incandescenti nella storia del gioco: la maestria difensiva dei Pistons, all’uopo tradotta nelle celeberrime Jordan Rules, contiene il fuoriclasse di Chicago regalando ai Bad Boys l’agognata rivincita con i Lakers.
Le finali del 1989 sono una dimostrazione di superiorità tecnica, fisica ed emotiva. A Riley mancano Magic e Byron Scott, i ragazzi di Daly invece si tuffano su ogni pallone. Concedono agli avversari una media di 93 punti a partita, la più bassa dall’introduzione dei 24 secondi per azione nel 1954. Finisce 4-0 e la parata sul Riverfront rovescia trent’anni di amarezze, sportive e non.
L’ubriachezza molesta del dopo trionfo, Laimbeer ne è l’indiscusso MVP
Quattro mesi più tardi i Pistons si ripresentano in campo per inaugurare la stagione 1989-90 e appare da subito chiaro a tutti che la fame di vittorie non è stata saziata dalla pur memorabile lezione inflitta ai Lakers. Detroit amministra la regular season senza grandi problemi e chiude nuovamente al primo posto nella classifica a Est. I primi due turni di playoff sono poco più di una formalità, ma sulla strada che porta verso l’atto finale c’è ancora Chicago.
La serie è una replica di quella andata in onda dodici mesi prima, solo che i Bulls sono ulteriormente migliorati. Eppure, ancora una volta, le Jordan Rules hanno la meglio e Detroit si aggiudica la serie alla settima partita. Si va nuovamente alle Finals e questa volta di fronte ci sono i Trail Blazers di Clyde Drexler e Terry Porter, squadra in vorticosa ascesa e pretendente al ruolo di leader nell’ovest del dopo Lakers. Portland è un osso duro, le cinque partite registrano scarti minimi, ma alla fine sono ancora i Pistons a prevalere. Il canestro della vittoria lo segna Vinnie Johnson.
“The Microwave”, il microonde, sesto uomo in grado di prendersi il tiro decisivo
La sfilata per le strade di Detroit è di quelle che verranno ricordate per decenni: la soddisfazione di essersi laureati nuovamente campioni è amplificata dall’aver conseguito il repeat, impresa riuscita nell’epoca moderna solo agli acerrimi rivali gialloviola.
Uscita di scena
In linea con l’attitudine provocatoria che ne ha contraddistinto l’epopea, l’uscita di scena dei Bad Boys è costellata da polemiche. Sconfitti con un eloquente 4-0 dai Bulls nelle finali della Eastern Conference, anziché ammettere sportivamente la sconfitta e passare lo scettro ai ragazzi di Phil Jackson, Thomas e compagni abbandonano il campo quando sul cronometro di Gara-4 ci sono ancora 7,9 secondi.
Per una squadra che ha fatto del politicamente scorretto, dentro e fuori dal campo, la propria raison d’étre è un epilogo pressoché perfetto. Quei passi che accompagnano fino al tunnel verso gli spogliatoi i Pistons, sommersi dagli applausi del proprio pubblico, rappresentano la conclusione di un ciclo forse irripetibile, non solamente per motivi positivi.
Solo Dumars e Salley si preoccupano di rendere omaggio ai nuovi campioni della Eastern
Intermezzo
Il tentativo di restare ai vertici della lega, ormai saldamente sotto la sovranità di Jordan, e al contempo praticare un necessario ricambio generazionale risulta sterile. I tifosi dotati di memoria storica rivivono un periodo simile a quello precedente l’avvento dei Bad Boys: sfortuna, cattive scelte, cambi in panchina repentini. Chuck Daly abbandona quasi subito, di talenti ne passano, da Grant Hill a Jerry Stackhouse, ma la squadra non riesce a elevarsi dalla mediocrità in cui è piombata dopo il ritiro del lìder màximo Isiah Thomas, avvenuto nel 1994.
Ancora una volta, la città sembra andare di pari passo con la storia della squadra, o viceversa. Per Detroit sono anni di stagnazione, il ricordo di Motor City è ormai lontano e la città fatica a reinventarsi in anni che per altre parti del paese sono molto floride. L’abbandono dell’area urbana procede inesorabile, a qualcuno sembra che la città abbia toccato il fondo. Purtroppo non sarà così.