Quando arrivo con l’auto allo Juventus Training Center di Vinovo, in una mattinata tersa di fine inverno, la prima squadra non c’è e lo si nota dall’assenza dei tifosi fuori dal cancello principale. Mi viene incontro Giovanni Valenti, l’allenatore della Juventus Under 13, e insieme raggiungiamo l’ufficio di Stefano Baldini, co-coordinatore tecnico del settore giovanile, con intervento diretto sull’attività di base (ovvero dei piccoli calciatori di età compresa tra i 7 e i 13 anni), e con un ruolo di supporto alle decisioni di tutte le altre squadre, dalla Under 14 alla Primavera.
Iniziamo subito a parlare della crescita dei calciatori, che come quella degli esseri umani in generale non è omogenea sotto tutti gli aspetti.
Come si sviluppano le diverse aree (tecnica, tattica, atletica, psicologica) al variare della sua età? Si allenano separatamente?
Negli anni abbiamo reso preponderante la conoscenza del gioco, perché è l’unica fase che migliora le altre. Se gioco, miglioro la tecnica e la parte atletica. Se lavoro solo sulla tecnica, difficilmente potrò migliorare la comprensione del gioco. Se alleno solo la parte atletica, sicuramente non migliorerò in nessuno degli altri due aspetti».
Giovanni Valenti: «L’ambizione di sviluppare abilità diverse in tempi diversi è sicuramente legittima, ma un po’ accademica. Anche i più piccoli, da subito, devono saper giocare con i compagni rispondendo a quello che fanno gli avversari.
Poi, per stimolare le diverse aree, cerchiamo di coinvolgerli in situazioni differenti. Ad esempio qui accade che gli stessi bambini, di settimana in settimana, si trovino a giocare a calcio a cinque, a sette, a otto o a undici.
Il tipo di lavoro che facciamo è sempre integrato. In fondo, l’affinamento della tecnica di un calciatore non finisce mai, neanche da adulto, neanche da professionista».
Si parte con l’insegnamento della tattica da subito?
S.B.: «Penso sia un cortocircuito tutto italiano, quello per cui quando si parla di tattica spesso s’intende la strategia di non possesso. Un portiere che ha davanti a sé due compagni e un avversario in pressione, deve scegliere se giocare la palla o condurla, su quale compagno scaricare il pallone, il tutto in dipendenza di un obiettivo: la conquista del campo alle spalle degli avversari. La scelta crea sempre uno stimolo, che io giochi a calcio a cinque, a sette, a otto o a undici. E vale sempre, che il calciatore abbia sei, nove, tredici o diciotto anni».
Quindi crei ai bambini dei problemi da risolvere, attraverso le esercitazioni o le partite, per stimolare la loro propria capacità di risolverli. Giusto?
G.V.: «L’organizzazione della fase di possesso spesso è confusa con l’esecuzione di una serie di automatismi, di schemi. Invece è un esercizio che esalta la fantasia dei bambini. È all’interno di questo contesto che alleniamo la tecnica, che diventa uno strumento per risolvere la particolare situazione».
Secondo molti, una delle ragioni che ha influito sul calo della produzione di talenti tecnici in Italia è il fatto che i bambini non giocano più in strada. Che ne pensate?
La varietà e la ricchezza di stimoli che i bambini ricevono durante i nostri allenamenti è insostituibile. Poi c’è da tenere in conto un altro aspetto: in strada giocavano tutti, qui ci sono solo quelli bravi. Il tempo speso in allenamento, per esempio, nell’uno contro uno con avversari di livello pari o superiore, ha tutto un altro valore».
G.V.: «Ho l’impressione che sia diventato un alibi: “Non ci sono più i cortili, non è colpa mia”. Oggi non posso avere la pretesa di allenare allo stesso modo di prima, come allenavo i ragazzi che giocavano in strada. La responsabilità di rendere ricco il tempo che i ragazzi passano qui è mia. È un po’ quello che diceva Velasco: “Uno schiacciatore non può incolpare l’alzatore per un suo errore, se la palla è stata alzata male è lo schiacciatore che deve trovare il modo di far punto lo stesso”. Insomma qui alla Juventus abbiamo ribaltato la prospettiva del problema».
Qual è la caratteristica più importante per te per capire che un bambino ha talento?
G.V.: «Per me sono due le caratteristiche principali: la confidenza con la palla e la comprensione del gioco. Cercare di non penalizzare giocatori tardivi dal punto di vista fisico, è una mia premura. Se c’è del talento, bisogna avere coraggio e premiare il ragazzo con un minutaggio consistente».
E invece è possibile riconoscere i diversi casi di sviluppo? Ad esempio Jesse Lingard a 25 anni sta avendo quest’anno la sua migliore stagione agonistica al Manchester United, e ai tempi delle giovanili era indicato come il miglior talento della sua generazione, anche più forte di Pogba. Recentemente ha detto che invece Alex Ferguson gli aveva predetto una crescita “lenta”. E che questo lo ha aiutato a non rinunciare all’idea di poter giocare in un club di prima fascia.
Sulle squadre B ci vorrei tornare, intanto però potresti dirmi come si fa a ridurre il rischio di perdere un talento tecnico per limiti fisici?
G.V.: «Come dicevo, da allenatore sento la responsabilità del mancato sviluppo di un talento, trascurato a causa di una maturazione fisica tardiva. Ho la fortuna di essere in un club che organizza la formazione dei propri tecnici, attraverso diversi momenti d’incontro. Durante la formazione, due giocatori della prima squadra hanno raccontato degli anni passati in panchina, semplicemente perché rispetto ai coetanei non avevano la barba. Sono diventati comunque due giocatori importanti, ma se non fossero stati penalizzati nel minutaggio, sarebbero diventati anche più bravi di così?
Io voglio cercare di premiare le qualità tecniche, però bisogna creare un contesto favorevole. Cioè, non sarà una squadra con uno stile prettamente difensivo a esaltare un talento fisicamente minuto. Siamo noi a dover preferire uno stile di possesso, che permette ai giocatori di toccare la palla tante volte, giocando insieme tra le linee o nei mezzi spazi, dove non possono subire contrasti. Stiamo nascondendo le lacune fisiche nel gioco per portare avanti il talento tecnico, finché Madre Natura e gli allenamenti specifici dai 16 anni in su permetteranno loro di recuperare il gap atletico.
Come prima, siamo noi obbligati a ribaltare la prospettiva: è mia responsabilità creare il contesto adatto per permettere ad un calciatore minuto di giocare ed esaltarsi».
S.B.: «È difficile che io chieda ad un mio allenatore il risultato di un match. Di solito chiedo: quel ragazzo, quel talento che abbiamo individuato e che stiamo formando, quanti palloni ha giocato? Preferisco pareggiare una partita, piuttosto che vincerla, se il contesto è più favorevole alla crescita del ragazzo».
Appunto, pensate che l’attenzione al risultato può essere controproducente per la crescita di bambini molto piccoli? Ho notato che i profili social di quasi tutte le squadre pubblicano regolarmente i risultati di tutte le loro squadre giovanili.
È un cambio di paradigma, che fa sì che la cultura del risultato alla Juventus vada in due direzioni: una porta al miglioramento continuo; l’altra ci impone di arrivare alla vittoria conseguendo gli obiettivi formativi che il club ha stabilito. Perché al centro del progetto c’è la crescita individuale di ogni talento, il risultato che arriva perseguendo altre strade, ottenendo altri obiettivi, è la vera sconfitta».
Quindi la vostra ricetta è perseguire la vittoria, ma restando nel solco del progetto formativo.
S.B.: «Noi cerchiamo di tenere di più il pallone, non per un esercizio di stile, ma perchè è uno strumento funzionale al raggiungimento dei nostri obiettivi. Il risultato sportivo comunque ci sta dando ragione, perché mediamente vinciamo. Negli ultimi 3 anni, abbiamo partecipato a circa 700 tornei in 10 categorie diverse, e mediamente siamo tra il quarto e il primo classificato, contro le squadre più importanti d’Europa. Portando sempre in partita il modo con cui vogliamo arrivare tra i primi».
Come si fa a trasmettere questo cambio di paradigma ad un bambino?
Ti faccio degli esempi dall’ultima partita: come abbiamo reagito alla palla persa? Come abbiamo occupato il campo con riferimento all’ampiezza? Dal punto di vista emotivo, ci sono riuscite le cose che proviamo in allenamento? Sono obiettivi misurabili che vanno al di là del punteggio. Possiamo vincere e intanto i nostri giocatori non stanno migliorando. Dopo l’autovalutazione, rafforzo il messaggio chiedendo loro: “Se il risultato fosse stato diverso, i voti sarebbero stati più alti o più bassi?”».
S.B.: «È la parte più complessa del nostro lavoro: rendere i ragazzi consapevoli di quello che portano in campo. Però, quando ci riusciamo, il giocatore diventa protagonista del suo stesso processo di apprendimento. In campo agiscono in base a ciò che sentono. La nostra idea sta funzionando, perchè io vedo che in tutte le categorie i ragazzi portano in campo gli stessi valori, e questo dà un senso di completezza, in particolare al mio lavoro di coordinatore. Per l’esito, però, dovremo aspettare altri 10 anni».
Giovanni, qual è il tipo di lavoro che effettui con i ragazzi? Nel 2018 quante volte a settimana si allena un ragazzo che vuole fare il professionista da grande?
Tante partite, tanti gol, tanto divertimento e la vittoria del premio Fair Play per gli #U11 di mister Marchio alla European Futsal Cup di Strasburgo! ⚽️#JuventusYouth 🏳🏴 pic.twitter.com/xVYqyW9ghN
— JuventusFC Youth (@JuventusFCYouth) 28 gennaio 2018
Permettimi una domanda maliziosa: i tuoi obiettivi di allenatore, di breve termine, potrebbero essere molto diversi da quelli del tuo coordinatore, solitamente di lungo termine.
S.B.: «Alla Juventus stiamo passando dal “Io” al “Noi”. Nella filiera dei primi dieci anni, l’allenatore porta in campo le sue competenze attraverso le sue modalità, ma trasferisce un’idea comune. La riconoscibilità del processo è la nostra forza. Il compito dell’allenatore, in questo contesto, semmai diventa ancora più difficile, perché deve andare a lavorare sui dettagli».
G.V.: «La direzione sportiva e il coordinamento tecnico giudica il mio lavoro sulla base dello sviluppo del processo pluriennale, e non sui risultati di breve termine. Ciò fa sì che sia molto più facile che i nostri obiettivi coincidano. Se invece gli allenatori hanno la sensazione di essere giudicati dall’oggi, allora sarà più facile che gli obiettivi contrastino. Ti faccio un esempio: valuto che un mio giocatore ha un gran potenziale nel suo ruolo, ma che per completare il suo bagaglio, per far sì che accumuli altre informazioni imparando ad orientarsi in zone di campo differenti, abbia bisogno di giocare in un altro ruolo per un certo periodo. È chiaro che nell’immediato renderà di meno, ma a lungo termine svilupperà meglio le sue potenzialità. Se penso di essere giudicato sull’oggi, non sono incentivato a correre un rischio del genere».
Che autonomia hai? Mi fai un esempio?
Avere una figura di coordinamento trasversale ha effetti positivi non solo dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’alto. Se penso ad un esercizio nuovo, ad esempio per sviluppare un certo tipo di possesso, mi confronto con il mio coordinatore. Insieme possiamo chiedere al club di rendere disponibile il team di video analisti, in modo da registrare l’allenamento e studiare gli effetti delle nuove esercitazioni».
S.B.: «Come coordinatore tecnico, se ritengo valida la nuova esercitazione, la propongo agli altri allenatori che, se vorranno, potranno introdurla nei loro programmi. Anche se l’esercitazione è stata sviluppata pensando agli Under 13, come nel caso di Giovanni, posso renderla adatta ai calciatori più piccoli, ad esempio riducendo gli spazi di campo o diminuendo il numero di avversari. Il razionale dell’esercitazione resta, così come la sua efficacia».
Ogni quanto tempo effettuate degli step di valutazione? Avete degli strumenti analitici che vi aiutino?
Immagino che a un certo punto abbiate uno o più momenti di selezione. Qual è la percentuale di ragazzi che ce la fa?
Che misure prende la Juventus riguardo allo studio scolastico?
I nostri #U13 partecipano all’incontro “Migliorando esprimo chi sono” nell’ambito del progetto area psicologica “Formazione Juventus” 👌#JuventusYouth 🏳️🏴 pic.twitter.com/0XSLHHPGDI
— JuventusFC Youth (@JuventusFCYouth) 25 gennaio 2018
Oltre a questo, da tre anni stiamo accompagnando la crescita degli adulti, attraverso corsi di formazione serali, per insegnare ai grandi cosa significa essere genitori di un bambino che partecipa all’attività calcistica di un grande club. Sembra una cosa semplice, ma in realtà non lo è».
Come vivono i ragazzi stranieri? Avete delle strutture apposite?
Che ne pensi del gradino che separa la Primavera e il professionismo?
S.B.: «Il problema è capire quando è pronto un giocatore. Alcune indagini indicano in 100 partite tra i professionisti la soglia di maturità di un calciatore. Cioè una media di circa 25-30 partite l’anno. Se così fosse, dovremmo considerare la sua maturazione completa tra i 19 e i 22 anni. In Italia attualmente stiamo chiedendo a un giocatore di 19 anni di essere pronto subito».
Quindi non abolireste le squadre Primavera per le squadre B?
Attualmente i nostri ragazzi escono dalla Primavera e vanno a cercare spazio in contesti adeguati a completare il loro apprendistato, in Serie B ad esempio. Però così non garantisco una continuità metodologica nel processo formativo, per almeno altri 2 anni, cosa che invece otterrei con una squadra B a disposizione».
G.V.: «Le squadre B non sono la panacea di tutti i mali del calcio italiano, ma costituirebbero un miglioramento importante, tutti i paesi europei stanno andando in questa direzione. Confrontarsi con giocatori che hanno esperienze diverse, oltre che qualità fisiche e atletiche superiori, per i giovani è fondamentale. Così come la possibilità di rimanere in sede e di allenarsi in settimana con la prima squadra. Addirittura puoi pensare di ritagliare spazi ai giovani nella squadra A, cosa che non puoi fare quando hai il giocatore fuori in prestito.
Non di meno, gli stimoli formativi sono totalmente diversi. Immagina un prestito in una squadra di Serie B, che lotta per non retrocedere: fare il difensore in una squadra con questi obiettivi, che quindi ha solo l’interesse di difendere la propria area, è molto differente dal farlo in una squadra che occupa la metà campo avversaria per la maggior parte del tempo».
S.B.: «La riforma che ha introdotto le retrocessioni nel campionato Primavera, allo scopo di rendere le partite più competitive, rischia di rivelarsi controproducente. Le società non vogliono perdere prestigio, tenderanno a giocare per il risultato, e ai propri calciatori toglieranno opportunità formative. Se la lotta diventa serrata, ci sta che le società chiedano agli allenatori di non schierare i più giovani. Giocare per non retrocedere è diverso dal giocare per vincere il titolo, si rischia di far danni.
Il coordinatore tecnico dell’Espanyol mi ha fatto riflettere sul fatto che 6 giocatori della loro squadra B sono entrati in prima squadra, nonostante la formazione B fosse retrocessa l’anno prima. Anche se il risultato sportivo è stato scadente, all’Espanyol hanno comunque raggiunto il loro obiettivo formativo».
Ti stai prefissando un obiettivo del genere anche per la Juventus? Vedremo una prima squadra di “canterani” in futuro?
Bravissimi i nostri #U13, approdati ai Quarti di Finale de #LaLigaPromises a Tenerife! 👏👏👏#JuventusYouth 🏳🏴 pic.twitter.com/GhyqkygpA0
— JuventusFC Youth (@JuventusFCYouth) 27 dicembre 2017
Ultima domanda: girate l’Europa con le vostre squadre, c’è un modello di lavoro o un aspetto che in Italia trascuriamo e che voi giudicate vincente?
Quando parlo con gli altri allenatori, in occasione dei tornei che affrontiamo all’estero, mi accorgo che tra di loro dicono cose molto diverse, ma tutti credono in ciò che fanno e sono disposti ad aspettare anni per vedere i risultati dei loro programmi. Percorrono una strada definita, chiara, e lo fanno fino in fondo. In Italia abbiamo troppa fretta».
S.B.: «All’estero hanno una visione progettuale che in Italia non vedo. Oggi riusciamo a immaginare la nazionale da portare al Mondiale 2026? Perchè ho l’impressione che in altre nazioni lavorino già considerando archi temporali così lunghi. Il movimento italiano sembra più focalizzato al risultato immediato, nel tipo di lavoro che si fa e nelle valutazioni.
Il ruolo del coordinatore, o ”Head of Coaches”, è fondamentale e in Europa è diffuso ovunque. È il mezzo attraverso il quale i club garantiscono l’omogeneità dei loro programmi su tutte le squadre giovanili, stagione dopo stagione. In Europa si pensa in maniera collettiva. Qui in Italia, per differenze culturali o per difficoltà organizzative, lo spazio di azione dell’individuo-allenatore è molto più ampio.
Già il fatto che non esista un corso da coordinatore tecnico, organizzato a Coverciano, dice molto della considerazione che questa figura ha nel nostro sistema calcio. Eppure la prima mossa di Sacchi, quando arrivò a Club Italia, fu di assumere il ruolo di coordinatore delle squadre nazionali. Non è un caso, visto che Sacchi ha avuto esperienze in Spagna nell’Atletico Madrid e nel Real Madrid, sicuramente avrà mutuato questo tipo di figura da quella cultura.
Le dinamiche del mio lavoro sono entusiasmanti, perché il club stabilisce gli obiettivi e io connetto tutte le figure tra loro affinché lavorino allo stesso modo, secondo le stesse linee guida, di allenamento e di gioco, con lo stesso obiettivo finale. Questa unità d’intenti non esiste nel sistema italiano, mentre qui alla Juventus c’è».