L’Africa, fra tutti i continenti, insegna questo:
che Dio e il Diavolo sono uno,
la maestà coeterna, non due increati ma un solo increato.
Karen Blixen, La mia Africa
Libreville, 1993
Il calcio è una religione, un credo su cui poggiare aspettative, speranze di rivalsa e di successi di una vita intera. È per questo motivo che il Presidente zambiano Frederick Chiluba, in carica dal 1991, quando viene raggiunto dalla tragica notizia del 27 aprile 1993, torna a Lusaka dalla sua visita ufficiale in Rwanda, appare in tv e chiede alla nazione «di rimanere calma, composta ed equilibrata» nel lutto. È appena successo l’inimmaginabile.
Sulle coste del Gabon, a 500 metri nel mar Atlantico, davanti alla capitale Libreville, un de Havilland Canada DHC-5 Buffalo dell’aeronautica militare zambiana si è inabissato. Partiva da Lusaka, Zambia, aveva fatto scalo a Brazzaville in Congo, si era poi nuovamente fermato in Gabon e infine era pronto all’ultimo decollo verso il terzo e ultimo scalo, Abidjan in Costa d’Avorio, prima di arrivare a Dakar in Senegal. Quell’aereo stava trasportando l’intera nazionale di calcio zambiano. Un incendio, la perdita di potenza di uno dei due motori, l’errore del pilota: non si salva nessuno. Muoiono diciotto calciatori, più altre sette persone tra equipaggio, giornalisti e staff.
Stavano andando in Senegal per giocare la prima partita della seconda fase di qualificazione al Mondiale 1994. Grandi speranze, fomentate dai risultati anche nelle qualificazioni della Coppa d’Africa, dove avevano ottenuto tre vittorie e un pareggio, con il viaggio in Tunisia quasi ipotecato. Il mister Godfrey Chitalu, che da calciatore deteneva il record di reti in una stagione (il 1972, non riconosciuto però dalla FIFA) con 107 goal, li aveva guidati tre giorni prima quella tragedia nel secco tre a zero alle Mauritius, tripletta di Kelvin Mutale.
Un intero movimento era stato annichilito. Nessuno credeva che lo Zambia ce la facesse anche solo a rigiocare una partita nei mesi successivi. E invece, incredibilmente, tutto riparte: la Danimarca offre il suo appoggio strutturale e un allenatore, Roald Poulsen. Si cerca nella nazione un gruppo di ragazzi da porre attorno ai pochi che si sono salvati: Charles Musonda, non convocato per il Senegal a causa di un infortunio e che nel 1996 accoglierà nella sua famiglia il piccolo Charles jr, oggi al Chelsea; e i fratelli Bwalya, Johnson e Kalusha, quest’ultimo salvo perché impegnato con il suo club, il PSV, e pronto a raggiungere i compagni direttamente in Senegal. Loro due sigleranno le reti della prima vittoria nel girone in vista di Usa 94 contro il Marocco all’Indipendence Stadium di Lusaka, poco lontano dal Cimitero degli eroi dove hanno sepolto i loro compagni. Quel Mondiale però non li vedrà protagonisti per un solo misero punto a scapito dei nordafricani. Al contrario, in Coppa d’Africa nel 1994 saranno la rivelazione, raggiungeranno la finale ma il goal del nigeriano Amuneke li fermerà a un passo da una vittoria che avrebbe avuto del mistico. Sembra tutto finito, ma è solo rimandato a un luogo più simbolico, a un’epica ancora da scrivere.
Libreville, 2012
Sono le 20.30 del 12 febbraio 2012. Tutto è pronto per la finale della Coppa d’Africa. Le squadre hanno fatto lentamente il loro ingresso sotto gli occhi dalle tribune dello Stade d’Angondjé di Pelé e Milla. In campo scendono, accompagnati da Sepp Blatter, i tre presidenti delle nazioni coinvolte in questa serata. Per le due finaliste, lo Zambia e la Costa d’Avorio, ci sono Michael Sata e Alassane Ouattara; il più orgoglioso e sorridente è però Ali Bongo Ondimba, che accoglie il capitolo finale di questa manifestazione nella perla appena costruita nella capitale Libreville: si chiama Stade d’Angondjé, se si vuole prendere come riferimento il distretto nella quale è stato edificato, o Stadio dell’amicizia sino-gabonese (tradotto all’italiana). I soldi per erigere questo “monumento” al calcio li ha investiti per intero la Cina, mentre il governo del Gabon ha pensato solamente alle infrastrutture attorno al complesso. Risuonano gli inni: l’Abidjanaise per gli ivoriani; Lumbanyeni Zambia, che tradotto dalla lingua bemba significa “Alzati e canta dello Zambia”.
Dopo il minuto di silenzio osservato prima del fischio d’inizio per ricordare le oltre 70 vittime degli scontri in Egitto a Port Said, la finale della Coppa d’Africa ha inizio.
Lo stregone bianco
Fisico da playboy hollywoodiano, camicia bianca con gli ultimi due bottoni aperti fino a metà petto, jeans alla moda e capelli biondi e lunghi da sistemare rigorosamente anche durante le partite. In Africa Hervé Renard ha trovato la sua dimensione. Una carriera da modesto difensore in Francia, le modeste avventure in panchina, arrivando anche in Cina. Poi, l’occasione che gli cambia la vita: l’allenatore Claude Le Roy se lo porta come assistente nella nazionale ghanese. Vive per la prima volta il calcio africano e, da secondo, osserva il Ghana arrivare sul gradino più basso del podio nella Coppa d’Africa del 2008.
Nel 2008 lo Zambia gli offre il primo posto in panchina. Riesce a far qualificare la Nazionale Chipolopolo (ovvero i “proiettili di rame”) alla fase finale 2010 dopo 14 anni . Supera anche il primo turno, ma esce ai quarti contro la solita Nigeria. In Africa si inizia ad apprezzare il suo vero stile: in panchina non sta fermo un attimo, sprona i suoi calciatori con urla che rimbombano addirittura nei microfoni dei bordocampisti. Non ha un modulo di gioco preferito ma si adatta al materiale umano a disposizione. Il gruppo conta più del singolo: è un mantra che deve ripetersi, anche perché, se alleni lo Zambia o l’Angola (sei mesi nel 2010, poi lascia per problemi economici e burocratici) non hai calciatori che da soli possono indirizzare il corso delle partite.
Se l’Africa diventa il suo Continente, la sua patria è lo Zambia. Quando accetta l’offerta nel 2011 dell’US Alger, mette una clausola nel contratto: se venisse chiamato da una Nazionale, può rescindere il contratto. A novembre del 2011, i “Chipolopolo”, già qualificati alla CAN 2012, lo vogliono di nuovo sulla panchina per condurre la loro avventura in Gabon. Renard saluta l’Algeria, accetta l’offerta e si prepara a diventare lo stregone bianco.
Il percorso nella Coppa è netto: arrivano primi nel girone, pareggiando con la Libia e vincendo con il Senegal e soprattutto a Malabo contro i padroni di casa della Guinea Equatoriale. Sempre in Guinea, a Bata, giocano i quarti di finale contro il Sudan e la semifinale con il Ghana. In maniera totalmente inaspettata arrivano altre due vittorie, firmate Katongo e Mayuka.
La gioiosa macchina da guerra
La Costa d’Avorio sui terreni da gioco della Guinea Equatoriale e del Gabon in Coppa d’Africa è una vera e propria schiacciasassi, anche se destinata a un triste epilogo. Nelle qualificazioni annichiliscono la concorrenza di Rwanda, Burundi e Benin con sei vittorie su sei partite. Nella fase finale non sono da meno: vincono tutte le sfide del girone, come anche i quarti e la semifinale. Ad impressionare è soprattutto la solidità difensiva, visto che in tutto il torneo, il portiere Barry non ha mai dovuto raccogliere la palla in fondo la rete.
L’allenatore, Jean François Zahoui, è stato il primo calciatore africano a giocare in Italia. Ha militato con l’Ascoli di Costantino Rozzi (che lo acquista nel 1981 per 10 milioni di lire) che lo mette a stipendio con il minimo sindacale. L’allenatore è Carlo Mazzone che lo osserva, lo fa esordire, ma poi non crede fino in fondo nelle sue capacità. Così la sua esperienza italiana termina dopo un paio di stagioni e poche presenze. Si “vendicherà” dell’Italia nel 2010, quando esordisce sulla panchina della Costa d’Avorio. In un’amichevole a Londra, dove gli ivoriani battono gli azzurri di Prandelli per 1-0, con la rete di Kolo Touré.
L’ossatura della Costa d’Avorio che arriva alla finale di Libreville è impressionante. Si è soliti dire che per avere una squadra equilibrata e forte, bisogna avere una fascia centrale di livello: Barry in porta, Kolo in difesa, Yaya Touré affiancato da Zokora sulla linea mediana e Didier Drogba in attacco confermano la teoria. L’attaccante nato ad Abidjan è agli ultimi sei mesi nel Chelsea, dove il progetto Villas Boas sembra a un passo dal fallimento. La fortuna che sembra non accompagnarlo in “blues”, lo compensa invece con gli “Elefanti”. La squadra è forte ma vince alcune partite anche grazie alle follie degli avversari: si susseguono autogol, retropassaggi scellerati e papere dei difensori. Non può che essere l’anno della Costa d’Avorio, perché in finale non c’è il Ghana, dato per favorito, ma la sorpresa Zambia.
Primo tempo
Le formazioni sono quelle attese alla vigilia. Lo Zambia schiera un solido 4-4-2 con pochi fronzoli. Mweene è la certezza in porta, determinante nella semifinale contro il Ghana dove ha parato un rigore a Gyan dopo otto minuti. Davanti a lui, da destra a sinistra Nkausu, Sunzu, Himoonde e Musonda. Alla leggerezza degli esterni è contrapposto il vigore fisico dei centrali. Così è anche sulla mediana, dove Chansa e Sinkala formano la cerniera centrale, con il primo maggiormente impegnato nella gestione del pallone, mentre a destra agisce Lungu con compiti di copertura, e a sinistra il folletto Kalaba. Lui deve puntare l’uomo e saltarlo, avvicinandosi il più possibile alle due punte, Cristopher Katongo, capitano e uomo di maggiore qualità, e Mayuka, il punto di riferimento offensivo attorno al quale deve ruotare la squadra.
La Costa d’Avorio di Zahoui invece si schiera con un 4-3-3 molto flessibile. La linea difensiva è composta da Gosso a destra, al centro Bamba e K.Touré, mentre Tiéné spinge sulla sinistra. Zokora e Tioté formano il duo di centrocampo che affianca Yaya Touré. Libero da incombenze difensive, il centrocampista del Manchester City ha il compito di tenere il pallone e di accompagnare la manovra offensiva sulla stessa linea di Drogba. Sulla sinistra la qualità di Kalou e sulla destra la velocità di Gervinho completano il quadro.
L’organizzazione messa in campo da Renard è rigorosa sia in fase di attacco sia in quella di difesa. La prima palla goal creata, non a caso, viene da una situazione di calcio d’angolo, che si ripeterà altre volte nel corso della partita. Kalaba batte da destra, imprimendo forza al pallone ma tenendolo comunque basso sul terreno di gioco, così da poter raggiungere Katongo, che si stacca dal primo palo. Il tocco con l’interno del capitano zambiano ha l’obiettivo di servire un pallone invitante e pericoloso nel cuore dell’area di rigore. Tutto funziona alla perfezione perchè la sfera corre sul terreno, umido di pioggia, terminando sul destro di Sinkala. Il tiro resta un po’ “strozzato” tra erba e piede, ma Barry è comunque costretto, dopo due minuti, all’intervento salva-risultato.
L’intensità messa in campo dallo Zambia sorprende la Costa d’Avorio, che si ritrova a passarsi la palla orizzontalmente senza nessuna pericolosità. Gli ivoriani non aprono il campo, giocano soprattutto sulla direttrice centrale, finendo di fatto nelle maglie difensive zambiane. Nkausu e Musonda infatti si posiziano molto vicini ai due centrali di difesa, mentre Chansa e Sinkala si abbassano a coprire i passaggi facili su Drogba. Ci sarebbero in teoria grossi spazi sugli esterni per gli inserimenti di Gosso e Tiéné o per le sgroppate di Gervinho. Ma i terzini ivoriani nella prima frazione rimangono quasi sempre bloccati, mentre Gervais e Kalou tendono sempre verso il centro.
La posizione di Yaya Touré è l’unica a dar fastidio alla difesa dello Zambia. Il centrocampista ivoriano si trova alle volte davanti a Drogba, che viene incontro per spizzare i palloni lunghi per il taglio centrale degli esterni e l’inserimento alle sue spalle proprio di Touré. Il limite di questo movimento è che si gioca ancora una volta su quella porzione di campo centrale molto ben controllata dallo Zambia. Drogba non viene marcato a uomo, ma lasciato da Sunzu e Himoonde ai centrocampisti quando si abbassa, così da non scoprire mai gli ultimi trenta metri.
Per tutto il primo tempo lo Zambia rinuncia alla fase offensiva. Pensa a difendersi e lo fa già con gli attaccanti: Mayuka e Katongo pressano alti e in particolare sui terzini, cercando di evitare una facile uscita del pallone verso la mediana. Li spingono a lanciare e confidano nella forza fisica di Sunzu e Himoonde. Le grandi difficoltà per la squadra di Renard arrivano quando la Costa d’Avorio la costringe costantemente negli ultimi venti metri. La squadra resta stretta con Chansa e Sinkala che occupano il centro dell’area, mentre Lungu e Kalaba tendono ad accentarsi. Al trentesimo minuto, quando Tiéné e Gosso si affacciano per la prima volta nella metà campo avversaria. L’azione parte da sinistra, attraversa tutta l’area di rigore per terminare sui piedi del terzino ivoriano che ha tutto il tempo e la solitudine necessaria per far compiere alla palla il percorso inverso. La linea difensiva dello Zambia è in pratica sul limite dell’area piccola, mentre il dischetto viene abbandonato, in questo caso, a Touré che riceve il tacco di Drogba. Solo pochissimi centimetri dividono la Costa d’Avorio dal vantaggio.
Il primo tempo termina con un pareggio non particolarmente spettacolare. Nessuno si espone, la solidità dello Zambia ha mostrato una crepa sulle fasce ma gli ivoriani non hanno saputo sfruttarla.