Erik Spoelstra è uno dei coach più apprezzati all’interno del circuito NBA per la sua capacità di adattare le sue squadre a seconda del materiale umano a disposizione. La sua infinita conoscenza lo ha portato a conquistare due titoli di campione del mondo e ad abbattere tutti i dubbi e i pregiudizi che si sono accumulati sul suo conto nel momento in cui Pat Riley ha deciso di metterlo a capo della squadra.
La carriera di Spoelstra però non inizia da allenatore, ma da video-coordinator – una delle figure più nascoste ma allo stesso tempo più importanti all’interno di un front office NBA. Una tribù di piccoli faccendieri che nel loro piccolo ufficio studiano tutti i movimenti di squadre e giocatori per poter fornire agli allenatori quadri il più possibile completi ad allenatori e staff tecnici sui prossimi avversari o situazioni all’interno della squadra stessa. L’avvento di un nuovo approccio statistico avvenuto negli ultimi anni ha elevato ancora di più la loro rilevanza e lentamente hanno iniziato ad entrare anche nella routine di preparazione alla partita dei giocatori. Non è un segreto la fissazione di Kobe Bryant nello studiare i movimenti suoi e degli avversari prima di ogni partita, per migliorare difetti e cercare di carpire più informazioni possibili.
Non tutti i giocatori sono affascinati da questa pratica, ma per un Russell Westbrook che ammette di non guardare mai i video degli avversari, c’è un C.J. McCollum che grazie allo studio su schermo ha studiato per anni come migliorare il proprio gioco, dandosi una possibilità che probabilmente senza umiltà e un personale senso critico non avrebbe mai avuto. Il lavoro sui suoi difetti, la ricerca continua di un modo per nasconderli e per mettere in risalto aspetti del gioco più “suoi” ha permesso alla guardia dei Blazers di ottenere un ruolo da titolare NBA e il premio di Giocatore Più Migliorato nella scorsa stagione. Guardando, studiando e imparando, con la grande intelligenza ed etica lavorativa che lo contraddistingue da sempre.
Underdog
Il percorso cestistico di C.J. McCollum non parte come quello della maggior parte dei giocatori NBA. La corporatura che lo accompagna nei suoi primi anni di liceo non lo aiuta affatto a farsi un nome all’interno del circuito liceale dell’Ohio – alla GlenOak gli occhi sono per il compagno di squadra Kosta Koufos, non certo per questo piccolo peperino che non arriva a toccare il metro e sessanta e con un fisico che può reggere al massimo qualche soffio di vento.
La maturazione del corpo arriva negli anni successivi, così come il premio di Gatorade Player Of The Year nello stato, ma i college migliori si sono mossi per accaparrarsi ben altri prospetti. È il 2009 e dal liceo arriva un’infornata di talenti particolarmente massiccia di cui fanno parte tra gli altri DeMarcus Cousins, John Wall e Derrick Favors. C.J. non è neanche tra i primi 100 nomi della lista di ESPN, anzi riesce a malapena ad entrare nella top-100 del suo ruolo, classificandosi solo al numero 91. Nessuna top-school decide di mettersi sulle tracce del ragazzo così la sua scelta cade su Lehigh, una scuola che non ha nessun precedente cestistico di rilievo così come tutta la Conference, la Patriot League, che negli ultimi 26 anni ha dato alla NBA solo l’ammiraglio David Robinson, Mike Muscala e Adonal Foyle – oltre a McCollum ovviamente, che sceglie di rimanere vicino casa anche per il valore accademico della scuola. Metti caso che vada male.
L’impatto con i Mountain Hawks è devastante: fin dal primo giorno prende il comando della squadra grazie un talento e una competitività decisamente di un altro livello rispetto agli altri compagni di squadra. Nel suo anno da freshman conquista il premio di POY della Conference e il suo nome inizia a girare per tutto lo stato e arriva anche alle orecchie dei Front Office NBA. Ma la vera consacrazione al grande pubblico arriverà due anni più tardi.
Nel 2012 Lehigh riesce a strappare il biglietto per il torneo NCAA grazie alla vittoria sulla Bucknell di Mike Muscala (lui e McCollum si divideranno equamente i quattro premi di POY della Patriot League della loro carriera collegiale) e con il modesto seed #15 incrocia il cammino della Duke di Coach K. Per di più al Coliseum di Greensboro, a poco più di 50 miglia dal campus di Durham, che manco a dirlo diventa una succursale del Cameron Indoor.
L’ennesima riedizione della lotta tra Davide e Golia è servita su un piatto d’argento e McCollum non se la fa scappare: 30 punti mandando pazza la difesa – seppur modesta – dei Blue Devils e upset portato a termine nel solito mix di stupore ed esaltazione che solo il Marzo collegiale può garantire.
Mason Plumlee, suo compagno di squadra ai Blazers, ha avuto l’occasione di conoscerlo da vicino prima degli altri. Forse un po’ troppo da vicino.
Per vederlo in NBA però bisogna aspettare ancora una stagione, perchè nonostante la grande prova alla Big Dance e gli occhi degli appassionati addosso, C.J. decide di rimanere un altro anno a Lehigh per portare a termine gli studi. Una decisione che rischia di compromettere il suo passaggio NBA nel momento in cui si rompe il piede alla prima partita della sua stagione da senior. Fortunatamente però il Draft 2013 si rivela veramente povero di talento e viene scelto comunque all’interno della Lottery da parte di Portland, che giusto l’anno prima si era affidata a un altro talento proveniente dalle mid-major school, ovvero Damian Lillard.
Dynamic Duo
La convivenza con Lillard in un primo momento sembra tutt’altro che facile: sono entrambi giocatori con punti nelle mani e caratteristiche fisiche simili che amano agire sul perimetro – tanto che il ruolo ritagliato per McCollum sembrava essere quello del cambio del Rookie dell’Anno 2013.
C.J. accumula due stagioni partendo dalla panchina, finché i Blazers non si trovano travolti dalla offseason 2015, che ha visto partire in blocco il trio di veterani composti da LaMarcus Aldridge, Wes Matthews e Nicolas Batum, spingendo la dirigenza a dover cambiare assetto alla squadra e promuovendo C.J. in quintetto sin dall’inizio della stagione, confortata dalle buone prove fornite ai playoff.
Nonostante i numerosi dubbi e la scarsa reputazione di cui godevano i Blazers all’inizio della stagione 201516, il progetto – grazie anche alla mano di coach Terry Stotts, ovviamente – si è rivelato vincente. Fin dalla prima gara il prodotto di Canton ha dimostrato di essere il complemento perfetto per Lillard (offensivamente, perchè difensivamente siamo ancora al work in progress, ma ci torniamo poi), messo in un sistema che gli permette di aprire il campo sia per se stesso che per il compagno di reparto, con il resto della squadra a completa disposizione dei due per metterli nelle migliori condizioni di segnare.
In una NBA sempre più perimetrale, Lillard sembrava aver trovato in McCollum quello che per Curry è stato Klay Thompson – un giocatore capace di attirare l’attenzione difensiva solamente con la sua presenza, allargando gli spazi giocando senza palla e permettergli una dimensione da tiratore sugli scarichi grazie alla capacità di attaccare dal palleggio. Il risultato parla da solo: una stagione da underdog chiusa con il 5° record a Ovest e una Semifinale di Conference conclusa solamente al cospetto dei Golden State Warriors da 73 vittorie.