Il 25 gennaio uscirà per Edizioni SUR il libro "Chiuso per calcio" di Eduardo Galeano, un volume antologico in cui sono raccolti molti dei suoi scritti inediti e vecchi articoli a tema calcio, sport molto caro allo scrittore uruguaiano. Noi de L'Ultimo Uomo abbiamo curato l'edizione italiana del libro: la traduzione è stata fatta da Fabrizio Gabrielli, l'introduzione da Daniele Manusia, mentre alla fine del libro trovate un utile "Glossario" realizzato dalla nostra redazione, dove sono spiegati alcuni dei personaggi, eventi, fatti e termini usati da Galeano nel libro (e che nel testo sono evidenziati in grassetto).
Il libro potete preordinarlo qui, o sui vostri canali di acquisto preferiti. Di seguito pubblichiamo un estratto (con le corrispondenti voci alla fine).
Il Mondiale del ’98
India e Pakistan, che volevano sentirsi a casa nell’esclusivo club delle grandi potenze nucleari, realizzavano il sogno di avere una bomba propria. Le borse valori asiatiche erano a terra, e in Indonesia collassava la lunga dittatura di Suharto, che perdeva il potere ma non perdeva i sedici miliardi di dollari che il potere gli aveva concesso.
Il mondo si ammutoliva per la perdita di Frank Sinatra, detto «The Voice». Undici paesi europei si accordavano sulla messa in circolazione di una moneta unica, chiamata Euro. Fonti ben informate, da Miami, annunciavano l’imminente caduta di Fidel Castro, il crollo era questione di ore.
João Havelange abbandonava il trono del calcio mondiale e al suo posto si insediava il delfino, Joseph Blatter, massimo cortigiano del regno. In Argentina veniva incarcerato il generale Videla, che vent’anni prima aveva inaugurato, proprio con Havelange, in piena dittatura, un campionato mondiale di calcio. Nel 1998, in Francia iniziava un nuovo Mondiale.
Nonostante lo sciopero di Air France, che ha complicato abbastanza le cose, trentadue Nazionali si sono presentate al fiammante stadio di Saint-Denis per disputare l’ultimo Mondiale del secolo: quindici squadre dall’Europa, otto dalle Americhe, cinque dall’Africa, due dal Medio Oriente e due dall’Asia.
Clamori di trionfo, sussurri da veglia funebre: dopo un mese di sfide in stadi pienissimi la Francia, padrona di casa, e il Brasile, il favorito, hanno incrociato le spade per la finale. Il Brasile ha perso 3-0. Il croato Šuker guidava la tabella dei migliori marcatori del Mondiale, con sei reti, seguito da Batistuta, dell’Argentina, e Vieri, dell’Italia, entrambi con cinque.
Secondo uno studio scientifico pubblicato in quei giorni dal Daily Telegraph di Londra, i tifosi secernono, durante le partite, quasi tanto testosterone quanto i giocatori. Ma c’è da riconoscere che anche le multinazionali sudano la camicia come se fosse la maglia da gioco. Il Brasile non è riuscito a laurearsi campione per la quinta volta. L’Adidas sì. Dalla Coppa del ’54, che l’Adidas ha vinto quando ha vinto la Germania, questa è stata la quinta consacrazione di una Nazionale che rappresenta la marca dalle tre strisce. L’Adidas ha alzato, insieme alla Francia, il trofeo mondiale di oro zecchino; e ha conquistato, con Zinedine Zidane, il premio al miglior giocatore. L’azienda rivale, la Nike, si è dovuta accontentare del secondo e quarto posto ottenuti dalle sue Nazionali: il Brasile e l’Olanda; e Ronaldo, la stella della Nike, è arrivato infortunato alla finale. Un’azienda minore, la Lotto, ha sorpreso tutti con la stupefacente Croazia, che non aveva mai partecipato a una Coppa del Mondo e che contro ogni pronostico si è classificata terza.
In seguito, il prato di Saint-Denis è stato venduto a piccoli pezzi, come era successo, nel Mondiale precedente, con lo stadio di Los Angeles. L’autore di questo libro non vende panetti di prato di gioco, ma vorrebbe offrire, gratis, alcuni frammenti di calcio che hanno anche loro qualcosa a che vedere con questo campionato.
Stelle
I calciatori più famosi sono prodotti che vendono prodotti. Ai tempi di Pelé, il giocatore giocava; ed era tutto – o quasi tutto – qua. Ai tempi di Maradona, già con la televisione e la pubblicità massiva in piena auge, le cose erano cambiate. Maradona ha guadagnato molto, e molto ha pagato: ha guadagnato con le gambe, e pagato con l’anima.
A quattordici anni, Ronaldo era un mulatto povero dei sobborghi di Rio de Janeiro, che aveva denti da coniglio e gambe da gran goleador, ma che non poteva giocare nel Flamengo perché i soldi non gli bastavano per pagarsi l’autobus. A ventidue anni, Ronaldo già fatturava mille dollari l’ora, incluse le ore in cui dormiva. Sopraffatto dal fervore popolare e dalle pressioni economiche, obbligato a brillare e a vincere sempre, Ronaldo ha sofferto una crisi di nervi, con violente convulsioni, qualche ora prima della partita finale del Mondiale ’98. Si dice che sia stata la Nike a imporgli di giocare nella partita con la Francia. Il fatto è che ha giocato, ma non ha giocato; e non ha potuto mettere in mostra come avrebbe dovuto le virtù del nuovo modello di scarpini, le r-9, che la Nike stava lanciando sul mercato per mezzo dei suoi piedi.
Prezzi
Alla fine del secolo, i giornalisti specializzati parlano sempre meno delle abilità dei giocatori e sempre più delle loro quotazioni. I dirigenti, i procuratori, i consulenti e altri pezzi grossi occupano uno spazio sempre crescente nelle cronache calcistiche. Fino a qualche anno fa, i passaggi si riferivano al viaggio della palla da un giocatore all’altro; ora, i passaggi alludono più al viaggio del giocatore da un club all’altro, o da un paese all’altro. Quanto rendono i calciatori famosi in proporzione all’investimento? Gli specialisti ci bombardano con il vocabolario dei nostri tempi: offerta, acquisto, opzione d’acquisto, vendita, cessione in prestito, valutazione, svalutazione. Nel Mondiale ’98, gli schermi della televisione universale sono stati invasi ed eclissati dall’emozione collettiva, la più collettiva delle emozioni; ma sono stati anche vetrine per un’esibizione commerciale. Ci sono state ascese e crolli nella borsa delle gambe.
Piededopera
Joseph Blatter, nuovo monarca del calcio, ha concesso un’intervista alla rivista brasiliana Placar alla fine del 1995, quando era ancora il braccio destro di Havelange. Il giornalista gli ha chiesto la sua opinione sul sindacato internazionale dei giocatori, che stava prendendo forma:
«La fifa non parla con i giocatori», ha risposto Blatter. «I giocatori sono impiegati dei club».
Mentre questo burocrata secerneva tutto il suo disprezzo, spuntava fuori una buona notizia per gli atleti, e per tutti noi che crediamo nella libertà del lavoro e nei diritti umani. La Corte di Giustizia, la più alta autorità giuridica in Europa, che ha sede in Lussemburgo, si è pronunciata a favore dell’istanza sollevata dal calciatore belga Jean-Marc Bosman, e nella sua sentenza ha stabilito che i giocatori europei devono rimanere liberi, una volta risolti i contratti che li legano ai club.
In seguito, la cosiddetta Legge Pelé, promulgata in Brasile, è stata anch’essa un passo importante verso il superamento dei vincoli di servitù feudale: in molti paesi, i giocatori fanno parte del patrimonio dei club, che nella maggior parte dei casi sono aziende travestite da «enti senza scopo di lucro».
Alla vigilia del Mondiale ’98, il direttore tecnico Pacho Maturana ha detto la sua: «Nessuno tiene conto dei calciatori».
E questa continua a essere una verità grande come una casa, e vasta come il mondo, anche se si sta conquistando, finalmente, la libertà di contrattazione. Quanto più alto è il livello del calcio professionistico, tanto più abbondanti sono gli obblighi dei calciatori, sempre più numerosi rispetto ai loro diritti: l’accettazione delle decisioni prese dall’esterno, la disciplina militare, gli allenamenti estenuanti, i viaggi incessanti, le partite che si giocano un giorno sì e l’altro pure, l’obbligo di rendere ogni volta di più...
Quando Winston Churchill è arrivato, tutto disinvolto, ai novant’anni d’età, un giornalista gli ha chiesto quale fosse il segreto della sua buona salute. Churchill ha risposto:
«Lo sport. Non l’ho mai praticato».
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Nel mondo di oggi, tutto ciò che si muove e tutto ciò che sta fermo trasmette un qualche messaggio commerciale. Ogni giocatore di calcio è un cartellone pubblicitario ambulante, però la fifa non permette che i giocatori portino messaggi di solidarietà sociale. Enorme idiozia, sono espressamente proibiti. Julio Grondona, presidente della Federcalcio argentina, lo ha ricordato e lo ha fatto ricordare nel 1997, quando alcuni calciatori volevano esprimere sul campo il loro appoggio alle rivendicazioni dei maestri e dei professori, che guadagnano stipendi da fame perenne. Poco prima la fifa aveva inflitto una multa al giocatore inglese Robbie Fowler per il crimine di aver portato sulla maglia una frase con cui dimostrava il proprio supporto allo sciopero degli operai portuali.
Origini
Molti dei più grandi campioni del calcio hanno subito insulti razzisti per essere neri o mulatti: in campo hanno trovato un’alternativa al crimine, al quale sono nati condannati per una semplice media statistica, e così si sono potuti elevare alla categoria di simboli dell’illusione collettiva. Una recente inchiesta, realizzata in Brasile, mostra che su tre calciatori professionisti due non hanno terminato le scuole primarie. Molti di loro, la metà, hanno la pelle nera o sono mulatti. Nonostante l’invasione della classe media a cui si assiste in questi ultimi anni sui campi, la realtà attuale del calcio brasiliano non è poi così distante da quella dei tempi di Pelé, che da piccolo rubava noccioline alla stazione dei treni.
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Glossario
Havelange, João.
Primo e finora unico presidente non europeo della fifa, dopo di lui il calcio è diventato ciò che conosciamo oggi. Figlio di un mercante d’armi belga emigrato in Brasile, Havelange da giovane sognava di fare l’atleta. Nel 1936 ha partecipato da nuotatore alle Olimpiadi di Berlino, nel 1951 come pallanuotista ha vinto una medaglia d’argento ai Giochi Panamericani. È salito sul massimo scranno della fifa nel 1974 nonostante partisse di molto sfavorito rispetto al presidente uscente, Stanley Rous. Decisiva una campagna elettorale, se così si può chiamare, che lo ho portato in ottantasei paesi diversi, soprattutto africani, caraibici e asiatici, spesso accompagnato da Pelé. Di lì la promessa, poi effettivamente mantenuta, di superare l’eurocentrismo del calcio attraverso degli aiuti allo sviluppo per le federazioni più piccole e periferiche. Il calcio poteva avere le sue tradizioni, ma per l’elezione del presidente della fifa ogni federazione conta un voto. Se vi sembra un sistema molto vicino alla corruzione è effettivamente così, Joseph Blatter che aprì suo malgrado questo vaso di Pandora ne sa qualcosa. Havelange ha reso la fifa un attore diplomatico rilevante, avvicinandosi all’Unione Sovietica e assecondando le istanze terzomondiste con l’espulsione della Federazione sudafricana in piena lotta all’apartheid. Con lui il calcio è diventato uno sport davvero globale e altamente commercializzato, a partire dalla lunga e proficua relazione tra la fifa e la Coca-Cola, da quel momento sponsor fisso dei Mondiali. Sua anche l’idea, poi recuperata a più riprese dai suoi successori, di aumentare il numero di squadre partecipanti alla Coppa del Mondo (inizialmente da 16 a 24). Havelange era quella che viene comunemente chiamata una vecchia volpe, e nella sua terza età ci assomigliava pure. Lascerà lo scettro della fifa solo nel 1998, diventando il secondo presidente più longevo dopo il leggendario Jules Rimet. Poche settimane prima della fine del suo mandato gli è stato chiesto se si sentiva l’uomo più potente del mondo, e invece di indignarsi o di schermirsi lui ha risposto: «Sono stato in Russia due volte, invitato dal presidente Él’cin, in Italia ho incontrato tre volte papa Giovanni Paolo ii. Quando mi reco in Arabia Saudita, re Fahd mi accoglie in modo splendido. Pensa che un capo dello stato dedicherebbe tutto questo tempo a chiunque? È rispetto. Loro detengono il loro potere e io ho il mio: il potere del calcio, che è il più grande potere che esista». Havelange è morto nel 2016 a più di cento anni. Forse è vero, come si dice, che il nuoto faccia molto bene. [D.S.]
Saint-Denis, stadio.
Punta di diamante della candidatura della Francia ai Mondiali del 1998, uno degli impianti più avveniristici del suo tempo, ancora oggi uno dei migliori stadi d’Europa. Lo Stade de France, costruito alla fine del 1995 nel comune parigino di Saint-Denis, viene chiamato «il disco volante» per via dell’enorme disco di copertura che lo incorona, che da solo pesa una volta e mezzo la Tour Eiffel. C’è chi voleva intitolarlo a de Gaulle, chi a Platini, alla fine proprio quest’ultimo suggerì di non fare torto a nessuno e dedicarlo alla Francia. Al suo interno la Nazionale francese ha vissuto sia la più grande vittoria (il Mondiale del 1998) che la più grande sconfitta (l’Europeo del 2016) della sua storia successiva. Se siete tra quelli che credono che il nome abbia un ruolo nell’indirizzare il destino di cose e persone forse non ne rimarrete sorpresi. [D.S.]
Maradona, Diego Armando.
«El pibe de oro», a metà tra uomo e Dio, ha avuto una vita lunga e tortuosa ma è riuscito comunque a condensare il suo mito in tre minuti, quando contro l’Inghilterra ha prima segnato con la mano («La mano de Dios») e poi segnato «Il gol del secolo». [E.A.]
Bosman, Jean-Marc.
Se avete sentito il nome di JeanMarc Bosman probabilmente non è per via delle sue prestazioni sportive. Giovane di belle speranze del calcio belga – chiamato Bobby in onore di Bobby Charlton – gioca cinque stagioni altalenanti allo Standard Liegi a metà anni Ottanta e passa al Royal Liegi. Nel 1990 gli scade il contratto e Bosman valuta l’idea di trasferirsi al Dunkerque in Francia, che gli avrebbe corrisposto un salario tre volte più alto. Il Royal Liegi, però, chiede un indennizzo spropositato rispetto al valore del giocatore (375 mila euro, più di cinque volte quanto l’aveva pagato). Per quanto strano possa sembrare oggi, all’epoca le società interessate a tesserare un calciatore erano obbligate a versare una cifra a chi deteneva il cartellino del giocatore anche quando il suo contratto era scaduto. Bosman rifiuta la proposta di rinnovo di contratto del Royal Liegi, a suo dire ridicola, e finisce fuori squadra, senza tutele e senza la possibilità di trovarsi una nuova sistemazione perché il suo cartellino è ancora di proprietà della squadra. Messo alle spalle al muro Bosman fa una cosa che cambierà per sempre il calcio: denuncia il Royal Liegi e la uefa alla Corte Europea di Giustizia. Questa mossa gli mette contro non solo la società belga, ma anche tutto il mondo del calcio, che non vede di buon occhio la sua battaglia. Da quel momento la sua vita scorre su un doppio binario: da una parte cerca di continuare una carriera nel calcio (con scarsi risultati), dall’altra aspetta la risposta del tribunale, che arriva il 15 dicembre 1995. La sentenza della Corte Europea di Giustizia sul caso n. c-415/93, conosciuta come «Sentenza Bosman» dichiara che, in base al «Trattato di Roma», un calciatore è assimilabile a un qualsiasi altro lavoratore e che, pertanto, ha diritto alla libera circolazione nei paesi europei alla fine del contratto che lo lega a una società sportiva. È una sentenza che cambia per sempre il calcio. Di questo cambiamento hanno giovato i calciatori di tutto il mondo, che oggi sono liberi di scegliere la squadra che vogliono alla scadenza del loro contratto (e quindi di avere molto più potere contrattuale), ma non lo stesso Bosman: «Ho commesso molti errori e non ho problemi a riconoscerlo», ha detto in un’intervista del 2020, «ma la cosa che non riesco a mandare giù è il fatto di essere stato abbandonato dal mondo del calcio [...] Dovrebbero stendermi tappeti rossi, invece i giovani nemmeno sanno chi sono, e gli altri fingono di non saperlo. C’è chi mi accusa di aver distrutto il calcio, ma non è vero, l’ho solo reso più ricco. Con il risultato che loro guadagnano milioni e io vivo in povertà». [M.DO.]
Maturana, Francisco, detto «Pacho».
Allenatore della Colombia che è arrivata agli ottavi del Mondiale nel 1990 e che è stata tragicamente eliminata da USA ’94 in seguito a un autogol di Andrés Escobar, solo omonimo del narcotrafficante colombiano, ucciso poco dopo in un bar malfamato in circostanze poco chiare. Il gioco di Pacho Maturana era chiamato «toque-toque», antenato del catalano «tiki-taka» e cugino del calcio di Arrigo Sacchi, con cui si è scontrato nella finale di Coppa Intercontinentale 1989 tra Milan e Atlético di Medellín (che quello stesso anno aveva vinto la Copa Libertadores, la prima volta per un club colombiano). Le squadre di Maturana avevano uno stile lento ma capace di brucianti verticalizzazioni, basato sulla tecnica di giocatori come Carlos Valderrama, Leonel Álvarez e Gabriel «Barrabas» Gómez e la velocità di solisti come Faustino Asprilla e Adolfo «El Tren» Valencia, in cui caratteri lontani tra loro collaboravano con un alto livello di organizzazione, in cui anche le personalità più istrioniche, come quella di René Higuita, trovavano il loro senso nel collettivo. «Tutti associavano la Colombia alla droga e a Pablo Escobar. E ci faceva soffrire, perché non siamo tutti cattivi come si pensa», ha detto Maturana. «Poi hanno iniziato ad associarla a Higuita, a Valderrama, ad Asprilla, a Rincón, al calcio». Ovvero: la Colombia di Maturana ha dato ai colombiani qualcosa di cui andare orgogliosi, nel momento più buio della storia del loro paese. [D.M.]
Grondona, Julio.
Presidente della Federazione argentina, accusato varie volte di illeciti e varie volte scagionato. Molto odiato per le sue schizofreniche prese di posizione su Diego Armando Maradona. «El pibe de oro» disse che Grondona fece dopare a loro insaputa i calciatori argentini prima dello spareggio con l’Australia per la qualificazione a USA ’94. La forma di questa sostanza dopante fu descritta così da Maradona: «Un caffè veloce». I controlli anti-doping non ci furono prima di quella sfida. A riguardo Grondona si è difeso: «Maradona non c’era nelle qualificazioni e arrivava da un processo di recupero per un problema di doping chissà se, per sbaglio, per paura che potesse accadere qualcosa, ho fatto in modo che nell’ultima partita non ci fossero controlli antidoping, perché arrivavano giocatori che non erano nel mio paese e non si poteva sapere cosa avevano preso o cosa avevano smesso di prendere». [E.A.]
Fowler, Robbie.
L’amore dei tifosi del Liverpool nei suoi confronti si può spiegare col soprannome che gli avevano dedicato, l’unico sopra il quale non c’è davvero nulla, ovvero «God» (Dio). È l’ottavo miglior marcatore della storia della Premier League, ha segnato 163 reti, anche se in molti ne ricordano soprattutto una, quella dopo la quale si mise carponi mimando di tirare la riga di fondo come fosse cocaina. Ha investito la maggior parte dei suoi soldi in proprietà immobiliari, tanto da guadagnarsi il coro dei tifosi: «Viviamo tutti in una casa di Robbie Fowler». [E.A.]