Il menù sportivo del 2016 è stato particolarmente ricco. Al calendario tradizionale si sono aggiunti il campionato Europeo, la Copa América centenario e, soprattutto, le Olimpiadi. La redazione si è riunita per classificare gli atleti, le squadre e i concetti che hanno avuto il maggiore successo, in senso lato, durante l’anno.
Cominciamo!
- Il Chievo Verona
Nel 2016 Maran ha fatto 53 punti, quanto il Genoa dell’accoppiata Gasperini-Juric, due in meno della Fiorentina Sousa e due in più del Sassuolo di Di Francesco. Il Chievo ha superato lo stato primordiale della semplice sopravvivenza (nessuno può ragionevolmente pensare che il Chievo lotti davvero per non retrocedere, e già questo dice tanto) e ha iniziato a trovare le proprie motivazioni nella vittoria pura e semplice, cioè nel fare più punti possibile nell’arco di una stagione. In questo senso abbiamo deciso di inserirlo qui perché rappresenta un buon esempio dell’ammodernamento tattico del campionato di cui abbiamo parlato nel nostro ultimo longform.
Il Chievo non è composto da ragazzini ansiosi di mettersi in mostra e non ha nemmeno l’ambizione di diventare un club diverso, più vincente. I giocatori sono vecchi, considerati “finiti” ormai da anni, non hanno nulla da dimostrare a nessuno, e ogni domenica devono giocare in uno stadio avversario o in uno semivuoto, col campo spesso ghiacciato. Nel Chievo ogni sovrastruttura è assente: la squadra gioca ogni partita solo per dimostrare (forse anche a se stessa) di essere migliore dell’avversario. È lo sport, puro e semplice.
In un mondo che si basa sull’obsolescenza programmata, il Chievo brilla di luce propria.
(DS)
- Milos Teodosic
Fin da quando incantava i ragazzini di Valjevo nel campetto vicino al fiume, Milos Teodosic ha incarnato il ruolo del fenomeno destinato a vincere tutto. Ma le vestigia del predestinato possono essere talvolta molto pesanti da portare, specie quando le fisiologiche difficoltà dei massimi livelli ti costringono a bere dall’amaro calice della sconfitta. Quando queste sconfitte iniziano ad essere seriali in maniera preoccupante, allora il rischio che si corre è quello di essere definiti dei “perdenti di successo”, etichetta che per Teodosic ha iniziato ad essere usata in maniera insistente dopo le Final Four del 2012. Era il primo anno di Teodosic in maglia CSKA dopo il periodo con l’Olympiacos, che vinse una delle finali più incredibili della storia cestistica europea proprio contro i russi. Da lì un filotto di tre anni a bocca asciutta per il CSKA, fino alla splendida partita di Berlino di questo maggio. Una finale epica, quella con il Fener di Obradovic, che finalmente ha permesso al miglior playmaker europeo dell’ultimo decennio di togliersi un vero e proprio gorilla dalla spalla. Per non farsi mancare niente poi il percorso trionfale al pre-olimpico casalingo con la nazionale, culminato poi con l’argento a Rio contro gli alieni. Il 2016 è stato sicuramente l’anno della consacrazione di Teodosic.
(DB)
- Andrea Belotti
Belotti è una macchina agricola che percorre campi. Va dritto e segna, incapace di distrarsi per rumori che non sente o elementi fuori dal suo campo visivo. Va dritto e segna perché il campo non è finito. Lo ha sempre fatto, segnare: in tutte le squadre, a tutti i livelli. Eppure il 2016, l’anno dei suoi ventitré anni, ha segnato un’evoluzione. Perché l’ha consacrato in serie A e l’ha portato in nazionale maggiore, con la promessa di un futuro da centravanti importante. E perché, è vero, un attaccante non è soltanto i gol che segna, ma i numeri del “Gallo” sono spaventosi: 27 reti nell’anno solare, con 44 presenze, tra club e nazionale. Spaventosi, specie per uno che come dote principale si riconosce l’altruismo.
Forse però è uno sfasamento di percezione. Forse a evolvere, più che Andrea Belotti, è stato il contesto in cui lo hanno inserito. Più minuti, più fiducia, in squadre più attrezzate. Come se il 2016 fosse un appezzamento più spazioso dei precedenti, e la macchina agricola si sia limitata a percorrere questo terreno per intero.
(TG)
- Almaz Ayana
Il volto nuovo del mezzofondo etiope è quello di una venticinquenne, Almaz Ayana. Rivale giurata di Genzebe Dibaba, l’anno scorso l’aveva battuta a sorpresa nei 5.000 ai Mondiali di Pechino. Sembrava un’impresa sporadica in un contesto che, già quest’anno, doveva vedere Dibaba riuscire a conquistare la doppietta 1.500-5.000. Non è andata così: da quella gara Ayana ha spiccato il volo. Ha iniziato puntando il primato mondiale dei 5.000, che è ancora in mano alla sorella maggiore di Dibaba, Tirunesh. Il 2 giugno, al Golden Gala di Roma, l’ha mancato di 1’’44: con 14’12’’59 ha fatto segnare la seconda miglior prestazione mondiale di tutti i tempi. L’impresa vera l’ha fatta a Rio. Gli organizzatori hanno piazzato la finale dei 10.000 donne in mattinata, in uno stadio semivuoto. Un’immagine che stride con lo spettacolo visto in pista. A impensierirla maggiormente dovevano essere la kenyana Vivian Cheruiyot e Tirunesh Dibaba, campionessa olimpica 2008 e 2012 su questa distanza (nel 2008 vinse anche i 5.000). Ayana non le ha neanche considerate. Il passaggio ai 5.000, in 14’46’’81, era un tempo in linea col primato mondiale, considerato inarrivabile, siglato nel 1993 dalla cinese Wang Junxia. Ad Ayana non bastava: ha accelerato ancora, seminando il vuoto. Mossa obbligata, per lei che è estremamente vulnerabile in volata. Uno strappo fortissimo nel sesto chilometro, poi la lotta per non cedere. Ha fermato il cronometro in 29’17’’45, 14 secondi meglio di Wang Junxia. Un balzo di 50 secondi rispetto al vecchio personale per lei, un salto in avanti di vent’anni per il mezzofondo femminile. Le altre non sono state a guardare: Cheruiyot ha chiuso seconda, a 75 centesimi dal vecchio primato. Dibaba, terza, ha demolito il suo vecchio personale. Pochi giorni dopo, Ayana ha provato a bissare, di nuovo partendo da lontano. Stavolta, complice la stanchezza, due avversarie l’hanno raggiunta e superata. Prima è arrivata Cheruiyot, al primo oro olimpico in carriera. In un anno che ha visto Kenya ed Etiopia tutt’altro che estranee alla bufera doping, Ayana dice che il suo doping è Gesù. Più che da crederci, c’è da sperarlo.
(RR)
- Gianluigi Donnarumma
La parola “consacrazione” va un po’ stretta al 2016 di Donnarumma, anno in cui è passato da essere il giovane portiere della Primavera rischiato da Mihajlovic a l’erede designato di Buffon. Pochi giorni fa In Bed With Maradona ha messo una sua foto come copertina della lista dei cento giovani più promettenti che compila ogni anno, mentre il Guardian l’ha piazzato 80esimo nella classifica dei cento migliori giocatori in assoluto del 2016 davanti a gente come Juan Mata, Gündogan e Robben.
Il 2016, oltre alla titolarità indiscussa in una delle più importanti squadre di Serie A, gli ha portato la prima convocazione in Nazionale maggiore e le attenzioni della Juventus. Donnarumma, insomma, non è più una prospettiva ma già una realtà.
- Gian Piero Gasperini
Di Gasperini si diceva che non fosse adatto ad allenare altre squadre diverse dal Genoa. In effetti, fino a quando lo scorso giugno “Gasp” non ha accettato la panchina dell’Atalanta, era difficile provare a smentire i detrattori. Le esperienze fallimentari prima all’Inter e poi al Palermo avevano dato l’impressione di un tecnico troppo rigido per poter lavorare in ambienti con cui non entra in totale simbiosi.
Per questo quando si è sparsa la voce della sua nomina ad allenatore dell’Atalanta in molti lo aspettavano al varco. Quando sembrava sull’orlo dell’esonero, con soli 4 punti raccolti in cinque partite, la “Dea” ha cominciato ad ingranare, giocando un calcio basato sull’intensità e le marcature a uomo, indipendentemente dalla formazione. In stagione l’Atalanta ha già steso il Napoli, l’Inter e la Roma ed attualmente è sesta a soli tre punti dal secondo posto occupato dai giallorossi. Una serie di risultati impronosticabile per una squadra che partiva per non retrocedere e a Natale ha già ipotecato la salvezza, impreziosita dalla valorizzazione delle tante giovani gemme che con Gasperini si stanno consacrando. Da Kessié a Caldara, da Conti a Gagliardini: giovani sulla bocca di tutti soprattutto grazie a Gasperini, uno dei pochi veri maestri del calcio italiano.
(FF)
- Il Red Bull Lipsia
Del progetto Red Bull nel calcio si è ormai tanto parlato, ma dal rumore di fondo si sta elevando sempre più forte quello del campo, dove il RB Lipsia, al di là dell’ultima sconfitta nello scontro diretto contro il Bayern Monaco, sta facendo meraviglie. Il 2016 del Red Bull Lipsia rappresenta il punto di arrivo di una filosofia di gioco impiantata e sviluppata nella galassia Red Bull da Roger Schimdt a Salisburgo, proseguita la scorsa stagione in Zweite Bundesliga a Lipsia dal direttore sportivo Ralf Rangnick, momentaneamente sceso dalla tribuna alla panchina, e completata quest’anno da Ralph Hasenhüttl.
Il Red Bull Lipsia gioca sempre meglio, i calciatori hanno acquisito sempre maggiore sicurezza tecnica senza perdere in intensità, le manovre sono diventate più ricercate e raffinate pur mantenendo lo stesso grado di dinamicità. Giocatori come Forsberg, Werner, Naby Keita stanno crescendo a diventando qualcosa in più che calciatori “da sistema” e l’estremismo tattico del RB Lipsia sta fornendo parecchi spunti di riflessione per l’evoluzione strategica del gioco. Che rimane uno sport bellissimo grazie soprattutto alle sue tantissime diversità.
(FB)
- Angelique Kerber
Il 2015 di Angelique Kerber è stato il suo solito anno: delusioni (molte) e soddisfazioni (poche), chiuso con quell’incredibile beffa delle Finals di Singapore, dove le bastava vincere un set contro la già eliminata Safarova per arrivare in semifinale e dove invece perse senza mai entrare in partita. La carriera di Angelique sembra segnata: un’onesta top 10 che magari prima o poi si prenderà una bella soddisfazione. Kerber ha iniziato il 2016 esattamente come sempre: a Brisbane perde un set contro Camila Giorgi, poi la travolge e arriva in finale, dove perde contro Azarenka vincendo a malapena quattro game. Quando cominciano gli Australian Open nessuno bada alla tedesca. Del resto ha superato il primo turno annullando un match point a Misaki Doi. Poi c’è il match contro Vika Azarenka, la classica partita della svolta. Angelique si inventa una partita in cui non solo non sbaglia praticamente mai, resistendo al solito pressing della bielorussa, ma riesce a contrattaccare come mai si era visto fare. La bielorussa cede e la Kerber può superare la Konta, raggiungere la sua prima finale Slam e presentarsi al cospetto della solita Serena Williams. Ad Angelique riesce la stessa perfetta partita dei quarti di finale, Serena si arrende e sembra che si realizzi la profezia: prima o poi la soddisfazione per Kerber sarebbe arrivata. Il cemento statunitense mette le cose di nuovo al loro posto. Angelique torna a perdere abbastanza presto. Però Angelique non si fa travolgere più.
(CG)
- Mike Trout e la vittoria definitiva delle statistiche nel baseball
La stagione 2016 nel baseball americano ha segnato la vittoria dell’approccio data-driven e dei suoi sostenitori. Secondo Ryan Jazayerli il successo dei Cubs nelle World Series ha posto fine alla Great Analitycs War, sancendo per sempre il trionfo dell’uso di dati e algoritmi nella costruzione e nella gestione di una squadra. Un fatto simile è successo anche nella corsa al titolo di Most Valuable Player dell’American League, nella quale ha trionfato Mike Trout, esterno centro degli Anheim Angels. Il perché è facile: Trout ha vinto il titolo di miglior giocatore nonostante la sua squadra sia miseramente naufragata, chiudendo la stagione regolare al quarto posto della AL West con un record di 74 vittorie e 88 sconfitte, distante ben 21 partite dalla capolista Texas che si è messa in tasca il biglietto per disputare i playoff.
Un successo inaspettato che lo stesso Trout ha definito “surreal”. Per Trout hanno pesato i numeri: .315 di media battuta, 29 fuoricampo, 30 basi rubate. Trout è stato il numero uno dell’Mlb per punti segnati (123), basi ball (116) e percentuale di arrivo in base (.441). Ma le cifre che fanno più impressione sono quelle riguardo la War: 10,6 vittorie in più per la sua squadra quando lui è in campo secondo la formula di Baseball Reference (9,6 secondo la formula usata da Fangraph).
Negli ultimi cinque anni, che peraltro coincidono con la sua intera carriera, Trout non è mai sceso dal secondo gradino del podio nella corsa al titolo di Mvp (2012, 2013, 2015), vincendo nel 2014 quando però era impossibile non dargli il titolo: gli Angels quell’anno centrarono i playoff. Trout è un fenomeno vivente del baseball nonostante la sua squadra non vinca. Un dato di fatto ormai accettato anche da chi storceva il naso di fronte a tali argomenti. Non può che continuare a migliorare anche nelle stagioni a venire.
(NP)
- La Juventus
Se non fossimo così abituati al dominio bianconero sul calcio italiano forse la loro posizione sarebbe stata un tantino più alta. Soprattutto se la grande doppia prestazione contro il Bayern in Champions si fosse concretizzata nel passaggio del turno.
Fa quasi impressione ricordare che ad inizio 2016 la Juventus ha dovuto cedere al Napoli il titolo di campione d’inverno, soprattutto per l’irrisoria facilità con cui poi la squadra ha vinto il campionato con più di 90 punti, registrando il miglior girone di ritorno della storia della Serie A. La Juventus è la squadra con la miglior media punti in Europa nell’anno solare 2016, in estate ha realizzato un capolavoro finanziario con l’operazione Pogba e tolto a Roma e Napoli, le due principali inseguitrici, i loro due migliori giocatori. Il sole sull’impero sembra poter non tramontare mai.
(EA)