Chi ha perso il 2016?
Arrivati alla fine, chi è stato il peggiore dell’anno sportivo?
- L’Inghilterra
Visto che parliamo dell’estate in cui il Regno Unito ha votato per la Brexit, diciamo che ovviamente l’uscita dagli Europei della nazionale inglese ha avuto una magnitudo di choc collettivo decisamente bassa. Contestualizzando l’eliminazione, però, siamo di fronte alla delusione perfetta di Euro16: una nazionale arrivata sul più classico treno dell’hype che deraglia già alla prima partita in uno scialbo pareggio contro una Russia alquanto mediocre, che passa il turno di puro talento e che poi si schianta in modo definitivo uscendo già agli ottavi contro l’Islanda. La versione giovane, talentuosa e ambiziosa della nazionale inglese pronta a stupire l’Europa che esce contro una squadra poi stritolata dalla Francia nel turno successivo. E lo fa nel modo peggiore: mostrandosi inadeguata dal punto di vista tattico e incapace di esprimere il proprio talento tecnico che tanto aveva fatto fantasticare in sede di pronostici. Novanta minuti che sono stati un breve riassunto della storia recente della nazionale inglese e in cui il CT Hodgson vede la propria carriera ad alti livelli arrivare al capolinea.
Di lui Emiliano Battazzi scriveva così: “Roy Hodgson aveva deciso di puntare sul blocco Tottenham (ben 5 titolari), sfruttando le capacità di Pochettino nel far crescere i giovani: ma poi anche un gruppo del genere va inserito in un contesto, e quello della Nazionale inglese era come una montagna di gelatina. I giovani si sono dissolti, il caos ha trionfato e il gol dell’unica vittoria (contro il Galles) sembra da manuale del rugby. L’uso di Rooney da mezzala-regista grida ancora vendetta, con le sue salide lavolpiane disperate e i suoi passaggi orizzontali già derisi da Mourinho. All’Inghilterra non mancava nulla a livello offensivo (qualità tra le linee, velocità, profondità, gol) ed è sembrato mancare tutto.”
(DVM)
- Paul Pogba
La redazione ha scelto che Pogba quest’anno deve far parte dei flop. Lo so, lo so, lo trovo scandaloso anche io. Ma da direttore di quella che considero un’utopia democratica non posso che accettare il giudizio del popolo e assumermi le mie responsabilità. Che consistono nello scrivere questo contributo come forma di compensazione per le parole di zucchero che gli abbiamo dedicato più volte nel corso dell’anno.
Si può definire flop un calciatore determinante nella vittoria del 5° Scudetto consecutivo della propria squadra, che arriva in finale di un Europeo e che poi viene pagato più di 100 milioni dalla stessa squadra che qualche anno prima lo aveva snobbato? Possiamo definirlo flop perché i primi mesi a Manchester si sono rivelati difficili (per chi non lo sono stati; e poi per lui meno che per altri se si guardano i numeri )?
Pogba può essere considerato uno dei flop del 2016 solo se gli si rimprovera di non essersi trasformato in qualcosa di diverso, magari proprio sulla base dei 100 milioni che è stato pagato, di non essersi trasformato in, che ne so, Steven Gerrard nel suo momento migliore.
Ecco, forse il motivo per cui personalmente mi sento di poter inserire Pogba nei flop è che quest’anno è diventato perfettamente chiaro, grazie a lui, che il valore di un calciatore non è più solo quello che è capace di esprimere in campo, e Pogba non è solo il simbolo dell’importanza del marketing calcistico, ma è l’emanazione stessa di una generazione talmente a suo agio con il capitalismo da non farsi neanche una domanda su quale sia il suo ruolo nel mondo. Pogba si esprime in campo e nelle pubblicità, Pogba con la maglia del Manchester – almeno per me – è una bellissima statua alla fine della comunicazione sincera tra sportivi e pubblico. Non è colpa sua, certo, ma anche le statue abbattute alla fine dei regimi non hanno fatto niente di male.
(DM)
- Tyson Fury
Sembra passato molto più di un anno da quando Tyson Fury ha vinto il titolo mondiale dei pesi massimi nell’incontro tenutosi il 28 novembre del 2015 a Düsseldorf contro Wladimir Klitschko. Il fatto che fosse arrivato finalista tra le migliori personalità sportive dell’anno scelte dalla BBC sembra oggi quasi una farsa, visto tutto quello che gli è successo nel 2016. Qui una lista molto sintetica del tornado abbattutosi sulla vita sportiva di Fury:
- 8 aprile: viene ufficialmente annunciato il rematch contro Klitschko, dopo che la prima finale era stata annullata per inadempienze contrattuali.
- 28 aprile: Fury annuncia di volersi trasferire dall’Inghilterra agli Stati Uniti dopo il rematch, dove “le persone ammirano il successo”.
- 13 maggio: viene pubblicato un video in cui Fury fa commenti transfobici, razzisti e antisemiti. La CAA (The Campaign Against Antisemitism) chiede che venga squalificato a vita.
- 24 giugno: l’agenzia britannica anti-doping accusa Fury e suo cugino di aver assunto sostanze proibite.
- 23 settembre: il rematch con Klitschko viene posticipato una seconda volta.
- 30 settembre: Fury viene trovato positivo alla cocaina.
- 12 ottobre: Fury rinuncia ai suoi titoli per iniziare un percorso di disintossicazione, dichiara di essere diventato dipendente per curare la depressione.
- 13 ottobre: la British Boxing Board of Control decide di ritirare a Fury la licenza da pugile.
(DS)
- Il Valencia
Nell’anno solare 2016 il Valencia ha ottenuto solamente 34 punti in 36 giornate di campionato: un ritmo da retrocessione. Non c’è quasi niente che si possa davvero paragonare al disastro valenciano del 2016: come se Brexit e Trump fossero accaduti nello stesso posto. Un crollo che ci confonde, perché nasce da grandi premesse: nel maggio 2014 il club era stato salvato dalla bancarotta, grazie al magnate singaporiano Peter Lim. La pallina ha iniziato a rotolare sul piano inclinato con l’esonero di Nuno, a fine 2015, e il successivo ingaggio di Neville: il peggior allenatore dell’anno, senza dubbio alcuno. L’inglese è riuscito nell’impresa di umiliarsi, umiliare la squadra, distruggere la tifoseria e mettere in ridicolo anche il proprietario Lim, suo socio in affari.
A livello sportivo, i fallimenti del 2016 sono impressionanti: eliminazione agli ottavi di finale di Europa League al Mestalla per colpa di un gol di Aduriz a 15 minuti dalla fine, quando la rimonta sull’Athletic era stata completata; sconfitta nel derby contro il Levante, squadra messa persino peggio e infatti retrocessa da ultima in classifica; eliminazione dalla Coppa del Re in semifinale, dopo la sconfitta per 7-0 contro il Barça. L’incubo è proseguito anche senza partite: l’ennesimo mercato fatto di molti, troppi movimenti di giocatori, dovuti alla gestione dietro le quinte di Jorge Mendes; e la delusione di veder partire un idolo di casa, Paco Alcácer, cresciuto proprio nella cantera valenciana, verso Barcellona (insieme al campione d’Europa André Gomes). Con la cessione di Mustafi all’Arsenal, praticamente il Valencia è stato smembrato, e gli arrivi di Mangala, Garay, Nani e Munir non hanno suscitato grandi entusiasmi. Anche perché l’allenatore che aveva sostituito Neville pro-tempore, Pako Ayestarán, era stato confermato senza apparenti meriti.
Il bubbone è scoppiato subito: quattro sconfitte nelle prime quattro giornate di Liga, esonero dell’allenatore, rimpiazzato prima da Voro e poi da Cesare Prandelli, che per volare da Peter Lim a Singapore ha dovuto posticipare il suo esordio sulla panchina del Mestalla. Prandelli per ora ha raccolto 6 punti in 8 partite, e sembra anche molto preoccupato dalla situazione: le sue conferenze stampa stanno già diventando leggendarie e riecheggiano quelle del Trap a Monaco di Baviera. Da terz’ultima in classifica, la retrocessione, anche se folle, comincia ad essere una prospettiva con cui fare i conti. Il 2016 del Valencia ci ricorda il disastro di un club gestito da un agente, per quanto potente (forse il più potente), in cui gli interessi del club e dei tifosi arrivano per ultimi: un’umiliazione ingiusta per una squadra di così grande tradizione.
(EB)
- Genzebe Dibaba
Doveva essere la stagione della consacrazione, in cui diventare il volto più importante dell’atletica femminile. E invece, per Genzebe Dibaba, il 2016 è stato un anno nero. Sembrava iniziato bene, con una stagione indoor in cui aveva subito messo a segno un primato mondiale indoor (4’13’’31, battuto di quasi quattro secondi il 4’17’’14 della romena Dointa Melinte che resisteva da 26 anni) e un oro al coperto ai Mondiali di Portland nei 3.000. Poi è iniziata la stagione outdoor, da lì, sono iniziati i problemi. Il più grosso, di natura giudiziaria, non riguarda tanto lei quanto il suo allenatore, il somalo Jama Aden, arrestato a giugno in Catalogna perché in possesso di epo, steroidi e siringhe.
Dibaba ha gareggiato poco e, a Pechino, ha rinunciato fin dall’inizio al sogno di doppiare 1.500 e 5.000, impresa che le avrebbe permesso di entrare nella storia dalla porta principale, come la cugina Derartu Tulu e la sorella maggiore Tirunesh Dibaba. Ha deciso di concentrarsi solo sui 1.500 e ha comunque perso. In pista, a Rio, gli spettatori hanno visto il fantasma della Genzebe Dibaba ammirata nel 2015. L’etiope ha chiuso seconda, sconfitta dalla kenyana Faith Chepngetich Kipyegon. A fine stagione, al meeting di Rovereto, ha cercato di conquistare il record del miglio. Ha chiuso in 4’14’’30, a quasi due secondi dal suo obiettivo. È secondo miglior crono di sempre su questa distanza, ma non basta a risollevare un’annata nera. La Genzebe Dibaba del 2015 faceva un record mondiale dei 1.500 considerato impossibile, puntava i 5.000 e annunciava di volersi preparare anche per battere il primato degli 800, quell’1’53’’28 di Jarmila Kratochvilova che rappresenta il record più vecchio dell’atletica. Quella di un anno dopo ha rimesso un bel po’ di sogni nel cassetto, è finita sui giornali soprattutto per i fatti di cronaca legati al suo allenatore e guarda ancora dal basso verso l’alto sua sorella.
Tra le due Genzebe viste nell’ultimo biennio c’è uno spartiacque, almeno a livello simbolico: è quella finale dei 5.000 ai Mondiali di Pechino, in cui la nemica giurata Almaz Ayana l’ha colta di sorpresa e, attaccandola da lontano, l’ha sconfitta. Relegandola al ruolo di numero due.
(RR)
- Wayne Rooney
Siamo abituati a un disfacimento progressivo delle abilità prima fisiche, poi tecniche, di un calciatore che invecchia. Ma siamo anche abituati a spostare sempre più in là il limite temporale della fine di una carriera agonistica. Il decadimento delle prestazioni di Wayne Rooney invece è stato deciso e precoce. Wayne ha compiuto 31 anni appena a fine ottobre, ma già da un anno si ha la netta sensazione che le sue stagioni migliori siano ormai alle spalle. A Rooney manca ormai da tempo lo spunto, la brillantezza sotto porta che lo contraddistingueva. Via via ha arretrato il suo raggio d’azione, il centrocampo è diventato la sua comfort zone, prima per le necessità altrui (can you hear me, Louis?) poi per le sue.
Mourinho, stretto tra la morsa delle promesse che non avrebbe potuto mantenere (“Con me non sarà mai né un ‘8’ e nemmeno un ‘10’, Rooney sarà sempre numero 9”), è stato costretto a ridurlo al ruolo di capitano non-giocatore. E il record di segnature all-time di Bobby Charlton in maglia rossa, con un solo gol mancante per eguagliarlo, da traguardo di prestigio per Rooney si è trasformato in spada di Damocle. Il tempo a sua disposizione è ridottissimo: il 2017 potrebbe vederlo protagonista di un campionato meno competitivo, ma adeguato alle sue attuali possibilità.
(AG)
- La nazionale italiana di atletica
L’importante è partecipare.
E dopo aver analizzato gli aspetti positivi, passiamo a quelli negativi del 2016 dell’atletica italiana. Al 21 giugno i colori azzurri potevano sperare in due medaglie pregiate (diciamo anche tre) da conquistare ai Giochi di Rio. La squalifica di Alex Schwazer prima e l’infortunio di Gianmarco Tamberi poi le hanno azzerate nel giro di venti giorni. Ci siamo ritrovati così a bocca asciutta, come al Mondiale cinese dello scorso anno. A scanso di equivoci vanno considerati deficitari anche i medaglieri dei Mondiali indor di Portland (con l’unica soddisfazione del solito Tamberi) e il nono posto nel medagliere degli Europei di Amsterdam.
Zero titoli a Rio, come non accadeva da Melbourne 1956, dopo un bronzo striminzito a Londra, vuol dire fallimento di un intero movimento che, cosa forse più grave, non dà segnali di riscossa. In un paese che ha ormai privatizzato quasi tutto (sulla carta), l’atletica rimane in mano allo Stato, delegata ai corpi militari che non sanno creare un sistema vincente. Il centro federale rimane uno, quello di Formia, ma poi i nostri atleti si allenano su 38 campi diversi sparsi in 12 regioni. Molto spesso sono in mano ad allenatori scelti da loro stessi, quasi sempre i genitori. Un modo di lavorare che non per forza rappresenta una scelta sbagliata, ma che rappresenta plasticamente la mancanza di progettualità, e in ogni caso l’esempio della gestione scellerata del talento Andrew Howe grida ancora vendetta.
Doveva essere l’inizio di una splendida carriera, ne è stato lo zenit.
Più in generale non funziona una gestione delle risorse umane e di capitali priva di razionalità. Sulla strada per Rio sono stati dilapidati quasi 3 milioni di euro di fondi pubblici (fonte Corriere della Sera) per stage tra il Sudafrica e la California, mentre a Gemona si è costruito Van Niekerk e Lignano Sabbiadoro ha fatto volare i giamaicani. I soldi insomma c’erano e si sono spesi, ma i risultati non sono arrivati.
Ora ripartiamo per il prossimo quadriennio, tutti sulle spalle di Gimbo che sogna ogni notte Tokyo, ma Tokyo è lontanissima anche se sei un aspirante fuoriclasse di 24 anni. Ripartiamo da qualche ottimo giovane, ma soprattutto ripartiamo da Alfio Giomi. Il presidente federale che ha governato lo sfacelo del quadriennio passato e che è stato rieletto con oltre il 60% dei voti.
(GC)
- Roger Federer
La carriera di Roger Federer ha avuto una coda lunga. Non c’è stato un momento drammatico, una grave sconfitta, un terribile infortunio, che ne ha decretato alla fine. Non assomiglia a un inverno improvviso ma a un lungo autunno in cui pezzi della sua straordinarietà divina si staccano da lui come foglie dagli alberi, lasciandolo un po’ più nudo e terreno. Una parabola stagnante triste ma non priva di momenti di luce purissimi. Su cui ha più volte scritto Brian Phillips, e che nel 2016 ha conosciuto una flessione più netta e riconoscibile.
Ad inizio anno la programmazione appariva più spoglia del solito, a sancire l’inizio della coscienza della propria limitatezza, e alla fine è stata praticamente ridotta all’osso dai problemi fisici. Nel 2015 lo svizzero aveva raggiunto una luminosissima sintesi hegeliana del suo gioco offensivo, espressa soprattutto nella partita contro Murray a Wimbledon. Nel 2016 l’oscurità ha quasi completamente sovrastato i pochi, remoti momenti di luce, mettendoci di fronte alla sua mortalità. Agli Australian Open ha perso in semifinale contro Djokovic, portando il bilancio 23 a 22 in favore del serbo. Il suo ritiro al Roland Garros è stato il primo da un Grande Slam dopo 65 partecipazioni consecutive. Per la prima volta dal 2000 si è presentato a Wimbledon senza aver vinto un titolo. Il ritiro dalle Olimpiadi si porta dietro il ritiro dal resto della stagione, chiusa con zero titoli vinti.
Potrebbe però non essere finita. Se da una parte il corpo del Re è sempre più fragile, dall’altra la sua sopravvivenza nel circuito è garantita dalla sovrannaturale naturalezza dei suoi movimenti in campo, una dote che non perderà mai e che gli consente di economizzare al massimo le energie fisiche. Per questo ha dichiarato che al ritiro non ci pensa nemmeno, che è ancora “affamato”, e per questo tutti continuano ad aspettare il suo definitivo, struggente canto del cigno. Lo aspettavamo a Wimbledon 2016, dove ha giocato un grande torneo, pur senza andare oltre i propri attuali limiti, lo aspetteremo soprattutto a Wimbledon 2017, dove si pensa possa finalmente sfruttare un calo di tensione di Novak Djokovic. Nella cornice di annate di transizione, il pubblico del tennis si augura che ci possa ancora essere spazio per un tributo finale al tennista.
(EA)
- Sam Allardyce
Quella di Allardyce è stata la panchina più breve e disastrosa nella storia della nazionale inglese. Big Sam è rimasto in carica per appena 67 giorni, un periodo di tempo comunque sufficiente per:
- Sporcare l’immagine della Premier League con accuse di corruzione.
- Far sprofondare in una crisi ancora più profonda la nazionale inglese, che già veniva da un Europeo disastroso.
- Vincere a stento la prima partita di qualificazione ai Mondiali del 2018 contro la Slovacchia, la sua unica partita ufficiale da allenatore dell’Inghilterra.
Per sua fortuna, la federazione inglese ha gestito magistralmente il caso e adesso quello che poteva essere il più grande scandalo della storia del calcio inglese sembra rientrato. La nazionale ha trovato il suo erede in Southgate e anche lo stesso Allardyce sembra addirittura già pronto a tornare in pista, visto che, a quanto pare, sembra essere lui l’allenatore scelto dal Crystal Palace per sostituire Alan Pardew. Forse una punizione un po’ troppo mite dalla storia per Big Sam, visto il disastro che aveva lasciato in dote.
(DS)
- Federica Pellegrini
Non è semplice parlare di flop di fronte ad una nuotatrice che a 28 anni ha disputato la sua quarta Olimpiade, giungendo ai piedi del podio nella gara che l’ha resa la Divina delle piscine e della quale ancora detiene il record mondiale. Eppure Federica Pellegrini in questo 2016 ha fallito.
Ha fallito perché ha fatto la sua gara migliore al Trofeo Sette Colli, poco più di un mese prima dei Giochi. Secondo miglior crono stagionale sulle quattro vasche (1’54’’55) e addirittura record italiano sui 100 stile libero (53’’18). Ha fallito perché poi a Rio, nella finale è andata mezzo secondo più piano, risultando più lenta persino rispetto alla batteria. Segno che il suo corpo aveva ancora qualcosa da dare, ma è stata la testa a non funzionare a dovere.
La lettura della gara, prima ancora che la gara, è stata deficitaria.
Probabilmente anche l’annuncio di voler arrivare a Tokyo 2020 si rivelerà un errore, perché parliamo di una nuotatrice che ha vissuto i suoi anni migliori a cavallo tra il 2008 e il 2009, nei quali ha trionfato a Olimpiadi e Mondiali e fatto segnare i suoi record più grandi. Poi il mondo del nuoto è andato avanti, la narrazione italiana di esso no. Oggi le coetanee di Federica fanno altro da tempo, e coloro che stanno in vasca al suo fianco molto probabilmente tenevano il suo poster appeso in camera. Tirare a campare non si addice a chi ha visto l’Olimpo.
Ormai siamo fermi al racconto dei suoi amorazzi, delle sue ospitate nel mondo dello spettacolo televisivo, ai red carpet, alle sue passioni per scarpe e vestiti, alle copertine dei rotocalchi. Pellegrini dovrebbe finalmente scegliere tra l’immortalità che le imprese sportive regalano e il continuo presente di quella risacca umana che è il gossip.
(GC)