Chi è l’MVP del 2016-17?
James, Leonard, Harden, Westbrook e la corsa più incerta di sempre.
Russell Westbrook: un voto per la storia
di Davide Casadei
“Dieci, vent’anni da ora, come vi sentireste a non aver votato Russell Westbrook quando riscrisse la storia?”.
Le argomentazioni statistiche e narrative per decretare chi abbia avuto una stagione migliore stanno cadendo come idoli pagani. I media di tutto il mondo, messi alle strette dalle eccezioni che partita dopo partita si ufficializzano in regole costringono a tirare fuori la polverosa e vecchia pacificatrice universale: la Storia. Il voto per il Most Valuable Player è quasi sempre raccontare una storia, quella con la s minuscola. Derrick Rose nel 2011 era una fiaba di esplosioni al ferro; Charles Barkley che sottrae lo scettro a Jordan un breve racconto distopico con pretese da Orwell su parquet. Non accadde nulla di tutto ciò perché erano favole della buonanotte, e all’incontro con la Storia, quella pomposa in divisa con la S maiuscola che di solito si fa ai playoff, divennero piccole piccole per poi scomparire. Quella Storia la fanno sempre i vincitori che restano in piedi alla fine, riprendendo un cliché millenario: sono loro a decretare i termini della disfatta e dimostrarci, nel caso, quanto avessimo torto. Il potere temporale è interessante, ma l’eternità tende a non lasciare prigionieri.
Che spazio ha, nella prospettiva di un mondo futuro, l’epica di Russell Westbrook? La perdita di un compagno, il ritorno a casa, la sfida per risalire, gli avversari abbattuti gradino per gradino. Lasciare sul campo indifferentemente amici e avversari. Bruciare come una supernova per sfiorare la leggenda e tornare giù a farsi sbecchettare il fegato dai corvi come un Prometeo qualsiasi. È un qualcosa che potrebbe essere insegnato nelle scuole? Non ha pretese di moralità, non ha fini didattici né avrà un lieto fine accomodante, ma piuttosto una morte quasi certa contro il nemico più grande. È una storia di egoismi mascherata da gesti eroici vuoti di significato. Ti regalo un assist se di ritorno mi aiuti ad abbattere quella chimera in fondo alla grotta. Prenderò questo rimbalzo da solo in mezzo all’area e ti farai trovare pronto a correre come una gazzella quando scaglierò quel dardo infuocato. Tra questi 40 tiri presi una notte come un’altra nella ridente Orlando, Florida ci sono le mie dodici fatiche quindi fatti da parte, per una buona volta, fammi il favore.
La noiosa leggenda di morte, tasse e triple doppie del numero 0: una routine consolidata che ormai non affascina più nessuno. Westbrook ha reso banale persino il parlare dei suoi record individuali. Ogni discussione a riguardo è sterile, cerchiamo di intavolare conversazioni su qualcosa di meno superfluo come non so: le sue statistiche negli ultimi 5 minuti di partite punto a punto (OKC è +24.9 per 100 possessi con lui in campo in the clutch) o il fatto che quando non mette a segno il suo trademark i suoi sono una squadra da bassa Lottery (33-9 con tripla doppia, 13-25 senza).
Le ultime settimane sono state una volata infinita per vedere chi sarebbe riuscito a sporgere la testa più avanti sulla linea del traguardo. Quando Kawhi stoppò Harden a tabellone alla fine di una partita di regular season che odorava di playoff sembrava fatta: la macchina da guerra col 2 aveva scritto la sua candidatura sul Podoloff stampando l’enorme mano di titanio sul cuoio. Fino a quel momento in pochi avrebbero scommesso contro la sinfonia D’Antoniana guidata dal Barba, in sostanza uno Steve Nash-on-steroids. Dopo quel momento, invece, si è parlato quasi esclusivamente della disperata rincorsa ai mostri sacri. Ognuno di questi segmenti è esistito nel sistema nervoso di chi segue ossessivamente la NBA, ma sapreste darne un valore oggettivo?
I numeri che si sommano per dare cifre più tonde sono una ricerca costante nella pallacanestro. La perfezione dei 100 di Wilt è incrollabile; il 6-0 di Michael Jordan alle Finals è un sigillo. Ma forse nessun nome è più associabile a un numero, o meglio a una serie di numeri, di Oscar Robertson. Per noi è quello che ha fatto una tripla doppia di media ma, di fatto, non sappiamo davvero così tanto su di lui. Il 99% di noi non ha avuto l’occasione di vederlo giocare, fomentando la sua aura di intoccabilità. Vederlo assottigliarsi sempre più all’orizzonte è un’esperienza mistica. E se fosse capitato proprio alla nostra generazione – ultra connessa, priva di magia, incapace di stupirsi anche solo per un nanosecondo – di testimoniare l’irripetibile? Magari un conflitto mondiale spazzerà via la nostra civiltà in dieci anni anni togliendoci la possibilità di generare cinesi di 2.20 in grado di schiacciare in 1080.
Quindi ecco parte dei motivi per cui Russell Westbrook dovrebbe vincere l’MVP 2016-17, nonostante le vibrazioni di fondo dell’universo e le sovrastrutture mediatiche.
1. Perché si è presentato alla Oracle Arena con una veste arancione da fotografo al solo scopo di stuzzicare Durant, ed è stato – giuro – il suo outfit più sobrio in questa stagione.
2. Perché è riuscito a incanalare all’incirca trentasei narrative diverse tra cui mi piace citare: quello del leale che non abbandona la sua squadra; quello che accumula statistiche vuote; quello che vince le partite con i suoi enormi coglioni; quello che non coinvolge i compagni perché sono scarsi; quello che dovrebbe coinvolgere di più i compagni perché non sono poi così scarsi; quello che nel basket di una volta avrebbe fatto fatica perché sai mai; “il nuovo Kobe” – e qui alzo le mani perché si apre un loophole infinito in cui non voglio addentrarmi. In tutto questo Russell Westbrook trovava sempre tempo per ballare sulla panchina palleggiandosi in mezzo alle gambe sulle note di “Do What I Want” di Lil Uzi Vert. Ridendo come un bambino. Poi si alza, mette su la corazza da distruttore di mondi con quella cazzimma da John Wick e nel 60% dei casi circa vince le partite. Russell Westbrook mi rende felice.
3. Perchè si è presentato a un concerto dei Migos ad Oklahoma City e i Migos hanno modificato le lyrics di “Bad and Boujee” che è una canzone perfetta solo per rendere la sua entrata più spettacolare.
4. Perché il suo VORP (Value Over Replacement Player) ci dice che se mettessimo un giocatore normale al posto di Westbrook, OKC ne risentirebbe più di ogni altra squadra con un qualsiasi altro giocatore. Ma Westbrook c’è.
5. Perché tutti è da agosto che se lo aspettano un po’, dai, in fondo al cuore.
6. Perché Kendrick Lamar è dalla tua parte nella faida che loro ti hanno voluto creare. Kendrick Lamar è la perfezione incarnata. Quindi lo sei un po’ anche tu ora.
7. Perché con una tripla sulla sirena lanciata dalle Montagne Rocciose ha eliminato Denver dalla corsa playoff e io potrei garantire che sul volto di ogni tifoso Nuggets, operatore alla telecamera, su ogni buttafuori, cuore spezzato, cronista del Denver Post, sui color commentators, giocatori in campo si è formata una smorfia involontaria che non si vedeva da decenni: l’accettare serenamente cose al di fuori dal razionale.
Tranne il tizio con la camicia a quadri. Lui forse ha pensato al suicidio
Russell Westbrook. Colui che uccise metaforicamente la morte. La più metaforica scelta per l’MVP. La Storia non ne ha bisogno, ma è pronta ad accettarlo?
Il voto della redazione
Quindici membri della redazione basket de l’Ultimo Uomo hanno votato seguendo lo stesso criterio – cinque nomi, punteggi a scendere da 10, 7, 5, 3 e 1 punto – come hanno già fatto i media selezionati dalla NBA (tra cui anche, per la prima volta, due rappresentanti italiani come Flavio Tranquillo per SKY Sport e Davide Chinellato per La Gazzetta dello Sport). La nostra votazione interna ha dato questo risultato:
- Russell Westbrook: 136 punti
- James Harden: 94 punti
- Kawhi Leonard: 92 punti
- LeBron James: 53 punti
- Stephen Curry: 9 punti
- Isaiah Thomas: 5 punti
- John Wall: 1 punto