Chi è l’MVP del 2016-17?
James, Leonard, Harden, Westbrook e la corsa più incerta di sempre.
Pedalando con James Harden
di Dario Vismara
Più passa il tempo, e più la corsa al titolo di MVP assomiglia a un logorante corsa a tappe in cui ogni settimana rappresenta un nuovo traguardo da tagliare per primi, in modo da guadagnare secondi sulla concorrenza. Basta una singola partita o una singola giocata da condivisione sui social per spostare continuamente l’attenzione su uno o su un altro candidato:
Russell Westbrook ha fatto una tripla doppia ai 50 e ha segnato gli ultimi 14 punti di squadra? È lui l’MVP!
Kawhi Leonard ha segnato e difeso contro qualsiasi cosa si muovesse ritoccando continuamente il suo massimo in carriera? Allora è lui l’MVP!
Guarda, LeBron James ha trascinato di nuovo i suoi compagni con un plus-minus di +30: MVP! MVP! MVP!
(Si aggiungono all’elenco a vario titolo anche Isaiah Thomas, Kevin Durant, Steph Curry e John Wall).
Ogni scatto, ogni prestazione mostruosa, ogni risultato assurdo ci ha portati a modificare le nostre preferenze per il premio con un micro-managing che neanche Rick Carlisle con i suoi cambi di quintetti ogni due minuti. In tutto questo, però, c’è stata una costante: James Harden dal primo all’ultimo giorno di questa regular season è stato un metronomo, mantenendosi sempre ad alti livelli di eccellenza sera dopo sera dopo sera, trascinando una squadra media (41-41 lo scorso anno) ad avere il terzo miglior record della NBA. Dalle discussioni per l’MVP lui non è mai realmente uscito, è sempre rimasto nel gruppetto di testa tenendo a lungo il passo.
Il modo di giocare del Barba è quasi ipnotico per la sua ripetitività che in qualche modo non riesce mai a risultare prevedibile: la sua gamma di soluzioni nel pick and roll centrale — penetrazione al ferro o palla alzata al bloccante, tripla dall’angolo per un compagno o scarico per un tiratore piazzato due metri fuori dalla linea da tre punti, step back dopo il cambio del lungo o fallo subito quando il piccolo prova a passare sopra il blocco, tripla dal palleggio o Euro-Step in mezzo all’area — lo ha reso un’arma illegale, specialmente in un sistema creato apposta per esaltare le sue qualità come quello di Mike D’Antoni.
Proprio l’incontro con l’ex capo-allenatore di Phoenix ha fatto svoltare la carriera di entrambi: prima di questa stagione Harden era sì il giocatore in grado di portare i Rockets alle finali di conference nel 2015, ma anche quello che in Gara-6 contro i Clippers era rimasto ad osservare disinteressato mentre i suoi compagni realizzavano una delle rimonte più improbabili della storia recente della NBA. Soprattutto, il Barba era quello che per tutta la scorsa annata ha giocato da separato in casa con Dwight Howard e di riflesso col resto della squadra, per una delle franchigie più disfunzionali che si siano viste recentemente. Quando ha incontrato D’Antoni, invece, il suo gioco e i suoi numeri hanno avuto una reazione simile a quella di Scattino quando beve il caffè in Cappuccetto Rosso e gli Insoliti Sospetti.
Per i due o tre che non lo avessero mai visto.
Oggi James Harden è “An Offense Onto Himself”, il primo giocatore di sempre in grado di creare una statistica del tutto nuova (e che probabilmente sentiremo citare nei prossimi anni) come il “25+25”. Mai nella storia era successo che un giocatore segnasse almeno 25 punti per conto proprio e altrettanti ne facesse segnare ai suoi compagni (361 triple assistite, quasi 100 sopra il record storico di Steve Nash). Una centralità offensiva che assomiglia più a quella di un quarterback del football americano che non a una guardia di una squadra di pallacanestro, pur importante che sia. Harden — concentrandosi finalmente solo sulla sua carriera, sul suo fisico e sulla sua leadership, lasciando da parte le Kardashian — ha reso migliore tutto quello che gli sta attorno facendo sembrare dei giocatori forti anche dei semi-reietti come Ryan Anderson e Eric Gordon, che prima di questa stagione sembravano più adatti a riempire le infermerie piuttosto che le corsie laterali.
Chiarita la gerarchia in spogliatoio con l’addio di Howard e incassata la fiducia di proprietà e dirigenza con un’estensione contrattuale in estate, Harden ha ripagato gli Houston Rockets con una stagione for the ages. Per dire: le sue 21 triple doppie sarebbero il record degli ultimi 20 anni, se solo il suo ex compagno con il numero 0 non fosse andato in “Modalità Big O”. Allo stesso modo, i suoi 29.3 punti e 11.3 assist a partita gli sarebbero valsi il primo posto in entrambe le categorie come solo Tiny Archibald nella storia della lega (sempre se non esistessero i 31.9 di Westbrook). Sempre rimanendo in orbita Archibald, la stella dei Rockets è solo a qualche decimo di punto di distanza dal record di 56.8 punti creati a partita dell’Hall of Famer (quando però i possessi, pur non a livello Robertsoniani, erano comunque più alti degli attuali).
Proprio nella capacità di essere dominante tanto in proprio quanto al servizio dei compagni sta la grandezza di Harden, che mette le difese davanti a una scelta impossibile: lasciarlo in uno contro uno significa condannarsi a fare un giro nella Camera delle Torture di uno degli attaccanti più completi del panorama mondiale; raddoppiarlo anche solo per un breve secondo significa lasciare spazio a un tiratore mortifero dall’arco o un alley-oop a zero centrimetri dal ferro. Un enigma tecnico-tattico a cui la stragrande maggioranza delle squadre non ha trovato rimedio, permettendo ai Rockets di veleggiare a 113.6 punti su 100 possessi con il Barba in campo a dirigere l’orchestra di sottomani, tiri liberi & triple.
Le ultime settimane di Harden però hanno beccato la brutta congiunzione di un minimo calo delle sue prestazioni (complice anche un polso malconcio) proprio nel momento in cui Westbrook si è alzato sui pedali per andare a prendere il fantasma di Oscar Robertson e trascinarsi dietro tutta OKC, nonché le attenzioni del resto del mondo. Uno scatto che ha scomposto un po’ tutta Houston, che si è affannata in tutti i modi per elencare i record statistici della sua superstar, ma soprattutto per far notare quanto il record di squadra veda chiaramente superiori i Rockets rispetto ai Thunder al punto da lanciarsi in tweet arditi come questo citando Drake (“Triple Doubles Are Just A Number”, detto dalla squadra col giocatore che ne ha fatte 21, è un po’ un controsenso) o come quelli del GM Daryl Morey in strenua difesa del suo numero 13. (Senza considerare che poi, se proprio si volesse spostare il discorso sulle vittorie di squadra, Kawhi Leonard ne avrebbe comunque di più.)
Un tentativo un po’ bambinesco e non esattamente elegante, ma comprensibile e coerente con il modus operandi generale della franchigia. In un’annata normale (che ne so, il 2011 di Derrick Rose?) la stagione di Harden sarebbe tranquillamente valsa un premio di MVP: il fatto che potrebbe non succedere in questa ci dice solo quanto sia stata avvincente ed equilibrata questa lunga corsa a tappe che si avvia verso il traguardo finale.