Cartoline da Rio
Cosa scriveremo sui libri di storia dell’atletica dopo Rio 2016.
Bartoletta, campionessa silenziosa
La 4×100 donne Usa ha vinto la medaglia d’oro in maniera rocambolesca: nelle batterie ha rischiato l’eliminazione, per colpa di un contatto fortuito tra Allyson Felix e un’atleta brasiliana; poi ha fatto ricorso e, dato che non c’erano corsie disponibili per ammetterla d’ufficio, le è stata data la possibilità di correre da sola per provare a fare un tempo migliore di quello della Cina, ultima delle ripescate.
Le americane si sono qualificate alla finale col miglior tempo, ma sono finite in prima corsia: la peggiore per le staffette. Hanno vinto con un tempo eccezionale: 41’’01, appena venti centesimi dal record mondiale.
Un record che appartiene agli Usa da quattro anni, dalla finale di Londra 2012. Due staffettiste di Rio erano presenti anche quattro anni fa a Londra: una è Allyson Felix, l’altra Tianna Madison. O meglio: a Londra si chiamava Madison, a Rio Bartoletta. In mezzo, un matrimonio che le ha fatto cambiare cognome. Bartoletta non è un’atleta che fa rumore, eppure è tra le più duttili e complete del panorama femminile: ha vinto due volte i campionati del mondo nel salto in lungo a dieci anni di distanza (2005 e 2015), ma è forte anche sui 100 metri. Non è solo una componente della staffetta, gareggia anche da sola: a Londra 2012 arrivò quarta.
A Rio è entrata nello stadio per tre gare: sui 100 è arrivata fino alla semifinale; nel salto in lungo ha vinto una gara emozionante fino all’ultimo. È passata in vantaggio al terzo salto, quando con 6,95 ha pareggiato la misura della serba Ivana Spanovic ma aveva una misura “di riserva” più alta. Al quinto giro di salti, l’americana Brittney Reese ha tentato il tutto per tutto. Reese, che meriterebbe una medaglia automaticamente solo per la sua espressività facciale in pedana, è la campionessa olimpica di Londra 2012 e ha vinto tre Mondiali consecutivi (2009, 2011 e 2013). L’anno scorso il titolo iridato le è stato sottratto proprio da Bartoletta: stavolta, per riprendersi il trono, ha saltato fino a 7,09 metri. Dopo di lei è stato il turno di Spanovic: la serba si è fermata a 7,08, mentre Bartoletta si è trovata improvvisamente in terza posizione. Ma quando è arrivato il suo turno, è riuscita a portarsi fino a 7,17 metri. Reese non si è data per vinta: è tornata in pedana per l’ultimo tentativo, ha preso la rincorsa ed è atterrata lontanissimo. Ma non abbastanza, visto che il risultato – 7,15 metri – l’ha condannata al secondo posto per due centimetri. Dopo di lei, anche Spanovic e Bartoletta sono tornate ancora sopra i sette metri. Ma ormai le posizioni erano acquisite. Bartoletta è rientrata per l’ultima volta allo stadio olimpico la notte delle staffette. E con una partenza perfetta ha dato il suo contributo all’unico oro Usa nelle gare di velocità pura. Il suo quinto oro tra Olimpiadi e Mondiali, un palmares di tutto rispetto per un’atleta mai sulla cresta dell’onda.
Marcia drammatica
Orfana di Alex Schwazer e degli atleti russi, la 50 km marcia ha offerto una gara emozionante e tesa fino all’ultimo metro. L’ha spuntata il campione mondiale in carica Matej Toth: lo slovacco è andato a recuperare negli ultimi chilometri l’australiano Jared Tallent, che era stato l’ultimo a tentare la fuga. Un attacco durato qualche chilometro, ma non abbastanza per mettersi fuori dalla portata di Toth. Tallent era arrivato secondo anche ai Mondiali dell’anno scorso ed era il campione olimpico in carica, anche se pure a Londra arrivò secondo: la medaglia gli è stata recapitata a marzo, dopo la squalifica del russo Sergey Kirdyapkin per doping.
Poche settimane dopo essersi riscoperto campione olimpico, Tallent è finito alle spalle di Schwazer ai Mondiali a squadre di Roma: un’altra vittoria in retroattiva per l’australiano, che in quell’occasione attaccò pesantemente l’altoatesino al rientro dalla squalifica per doping. Da notare, fra l’altro, che alle spalle di Schwazer a Pechino c’era sempre lui, Tallent. Quest’anno sperava di essere sul gradino più alto durante la premiazione ufficiale, ma non è andata così. Terzo e quarto sono arrivati il giapponese Hirooki Arai e il canadese Evan Dunfee, che hanno duellato fino alla fine per il bronzo. Poco dopo la fine della gara la giuria ha squalificato Arai per un contatto fortuito. Poi, gli stessi giudici sono tornati sui loro passi. Così Dunfee si è dovuto accontentare della medaglia di legno, nonostante per una parte di gara fosse stato lui a tentare la fuga. Ma a catalizzare l’attenzione è stata soprattutto la giornata drammatica di Yohann Diniz: il francese ha 38 anni ed è il primatista mondiale. Ha vinto tre volte i campionati europei, ma non ha mai finito in testa ai Mondiali o alle Olimpiadi. Stavolta è partito da lontanissimo, tentando la fuga. Ha guadagnato un notevole vantaggio, ma poi è entrato in crisi. Prima ha avuto un attacco di dissenteria, poi si è sentito male e si è fermato. È ripartito a fianco di Evan Dunfee, quando l’ha visto passare, ma è stato raggiunto dagli avversari e, mentre marciava con loro, al trentottesimo chilometro è crollato a terra semisvenuto.
È rimasto inerte sul suolo per qualche secondo, mentre i commissari lo raggiungevano. Quando si è alzato inizialmente barcollava, poi è ripartito ed è riuscito a concludere la gara in ottava posizione. L’altra impresa di giornata l’ha firmata lo spagnolo Jesus Angel Garcia, prossimo ai 47 anni, ventesimo al traguardo.
Tutti insieme per l’ultima volta
La finale della staffetta 4×100 maschile ha permesso a Usain Bolt di raggiungere il nono oro olimpico, anche se probabilmente presto diventeranno otto a causa della positività all’antidoping di Nesta Carter, suo compagno a Pechino 2008. Ma quella finale è stata storica anche per un altro motivo: in pista c’era l’intero quintetto che ha fatto la storia dei 100 metri in questo secolo. Oltre a Bolt, era alla quarta e ultima Olimpiade il suo compagno Asafa Powell. Doveva diventare campione olimpico ad Atene 2004, ma il giorno della finale si scoprì che aveva i nervi troppo fragili e perse. Ad approfittarne fu un giovane americano di 22 anni: Justin Gatlin. Quattro anni dopo Gatlin non c’era più: squalificato per doping nel 2006 mentre si contendeva il record del mondo con Powell, non lo si sarebbe rivisto fino al 2010. Nel 2008 le speranze degli americani erano tutte sulle spalle di Tyson Gay, il campione mondiale in carica dei 100 e 200. Gay sembrava in ottima forma, ma si infortunò ai Trials e a Pechino uscì in semifinale. Vinse l’uomo che era arrivato alle sue spalle l’anno prima nei 200 metri, Usain Bolt, e l’atletica non fu più la stessa. L’anno successivo Gay corse forte come non mai: scese fino a un personale di 9’’69, nella finale di Berlino chiuse in 9’’71. Ma Bolt fermò il cronometro a 9’’58, staccandolo di un metro e mezzo. Fu lì che Gay capì che non avrebbe più avuto la possibilità di batterlo, che Bolt era andato troppo avanti. Il Tyson Gay squalificato per doping nel 2013 era già la versione in calando dell’atleta di qualche anno prima. Nel frattempo era esploso Yohan Blake, che aveva vinto i Mondiali del 2011 (gli unici sfuggiti a Bolt) e aveva provato senza successo a batterlo a Londra. L’ultimo a provarci davvero è stato Justin Gatlin: vale a dire, l’ultimo campione olimpico prima del Fulmine. È stato anche quello che ci è andato più vicino di tutti, l’anno scorso, ma gli è mancato l’ultimo centesimo di secondo. A Rio de Janeiro hanno gareggiato a livello individuale solo Bolt, Gatlin e Blake, primo, secondo e quarto: Powell e Gay sono rimasti fuori nei rispettivi Trials, sconfitti più dai loro anni che dalle nuove leve. La notte della staffetta, si sono trovati nello stesso stadio per l’ultima volta in un’Olimpiade e forse in carriera, se qualcuno di loro non sarà a Londra l’anno prossimo.
Tra loro, solo Bolt non ha mai avuto squalifiche per doping. A Powell, Gay e Blake è stato risparmiato il livore che viene riversato in ogni stadio nei confronti di Gatlin: l’unico recidivo, ma anche l’unico che ha fatto tremare l’eroe che tutti volevano veder vincere. A Rio de Janeiro gli Stati Uniti sono stati squalificati e ha vinto la Giamaica, come sempre dal 2008 a oggi. L’impresa l’ha fatta il Giappone: nessun extraterrestre tra i frazionisti, nessuno in grado di scendere sotto i 10 secondi. Ma hanno preparato la gara alla perfezione e hanno ottenuto un eccellente 37’’60. Per un paese senza tradizione nella velocità, ce n’era abbastanza per impazzire di gioia. Ma l’uomo più felice in pista, quella notte, era probabilmente Asafa Powell: doveva essere il più grande e non lo è mai stato, come unico orgoglio aveva l’oro nella 4×100 conquistato a Pechino con un’ultima frazione devastante. Quell’oro che gli verrà tolto a breve. Lui ha raccolto la sua ultima possibilità e ha accettato di partire in prima frazione (non era mai successo), perché non è più quello di otto anni fa. Ha corso perfettamente la sua curva, ha consegnato il testimone a Yohan Blake e ha aspettato che Bolt venisse a consegnargli l’oro che gli spettava.