Nella conferenza prepartita Luis Enrique aveva descritto la cornice emotiva della sfida con un proverbio spagnolo: “hasta el rabo todo es toro”. In sostanza “fino alla coda è ancora tutto toro”, un detto che deriva dalla tauromachia e dall’attenzione speciale che un torero deve mantenere: il pericolo non è mai scampato fino a quando non si è usciti da tutta la figura del toro. Basta un istante, la più piccola disattenzione, per essere ancora colpiti.
L’allenatore del Barcellona, insomma, aveva paragonato la propria squadra al toro ferito, quasi morto, ma che può in ogni momento ritrovare un guizzo d’orgoglio per rivoluzionare la situazione. Quella di Luis Enrique era anche una promessa: il Barcellona non si sarebbe sentito battuto fino al fischio finale.
Ritorno alle origini
Dalla disfatta di Parigi di tre settimane fa sono cambiate tante cose al Barcellona. Luis Enrique ha prima ufficializzato il proprio addio a fine stagione, e poi dalle macerie ha disegnato l’abito tattico su cui il Barcellona è risorto nelle ultime settimane come una fenice dalle sue ceneri: il 3-4-3 con centrocampo a rombo (o “a diamante” nelle parole di Cruyff).
Il cambiamento di sistema aveva un duplice obiettivo: mettere una pezza ai difetti cronici che stavano compromettendo la stagione e ricostruire la fiducia su cui innalzare il proprio titanico tentativo di rimonta. Insomma, l’epica di ieri è partita da lontano, respirando a pieni polmoni il clima di fiducia ricostruito, un pezzo alla volta, nelle ultime settimane.
Il primo elemento su cui Luis Enrique ha fondato la fiducia (se non proprio la fede) nella possibile rimonta è stato piazzare le tende della sua squadra nella metà campo avversaria sin dal primo minuto. Nella migliore delle ipotesi sarebbe arrivato un gol dopo pochi minuti. Controllare il territorio per controllare la psicologia della gara, senza niente da perdere: la scelta tattica di Luis Enrique è stata in sostanza quella di andare all-in.
La prima partita con il nuovo modulo è stata quella contro l’Atlético del 26 febbraio. Per la prima volta si è visto un sistema fluido che riusciva, al tempo stesso, a dare ordine alle posizioni dei giocatori in campo, risolvendo anche i difetti sulla fascia destra (svuotata dall’accentramento di Messi e sempre attaccabile in uscita da un pressing alto). Il sistema ha avuto successo in Liga, e Luis Enrique ha pensato quindi di rilanciarlo, estremizzandolo, dandogli meno fluidità, cristallizzandolo.
Il Barcellona con il pallone disegna un 3-4-3 cruyffiano, con un centrocampo a rombo con Messi vertice alto e tre giocatori davanti a lui: le due ali, Neymar e Rafinha, e la punta Suárez. Una squadra del genere è schierata per attaccare tutta la partita e non si preoccupa d’altro, lasciando ai singoli giocatori il compito di vincere i duelli individuali difensivi.
L’idea principale è far partire Messi dal centro della trequarti invece di farcelo arrivare in un secondo momento. Rafinha assicura ampiezza sulla destra mentre le due mezzali, Iniesta e Rakitic, si occupano di presidiare i mezzi spazi e di avere quindi linee di passaggio su ogni fascia di campo.
Quando il toro abbassa la testa
Il Barcellona tira in porta con poca precisione: degli 8 tentativi del primo tempo appena 2 sono nello specchio. Eppure è sempre a ridosso dell’area a scambiarsi il pallone, le fasce sono sempre libere per le iniziative individuali, dribbling e cambi di gioco. Quando il Barcellona perde palla al centro, riesce subito a recuperarla per ricominciare a tessere la tela.
Il piano gara del PSG era di imbottigliare il Barcellona al centro, ma non va molto oltre. Non prova mai a ragionare proattivamente, a livello tattico ma anche psicologico, provando magari ad alzare un minimo la pressione o almeno eseguendo delle transizioni che abbiano un minimo di convinzione (facciamo un salto in avanti: nei momenti peggiori il PSG non ha neanche la lucidità sufficiente per perdere un po’ di tempo). Il Barcellona fa uscire la palla con un rombo alla base dalla difesa con Piqué e Busquets ai vertici e Umtiti e Mascherano ai lati. Anche in caso di perdita del pallone non abbassa nessuno degli altri giocatori: il rombo centrale si deve occupare anche delle transizioni negative.
E la passività del PSG non fa che portare acqua alla strategia iniziale di Luis Enrique: il rombo difensivo del Barça si accampa nella metà campo avversaria, accettando di difendere in avanti anche in parità numerica.
Con queste condizioni qualcosa doveva accadere, in un senso o nell’altro.
Non è chiaro quanto fosse l’idea di Emery, e quanto invece un difetto interpretativo dei giocatori, quella di impostare una gara così passiva.
Di certo, la strategia senza palla era quella di rompere il vantaggio che il 3-4-3 del Barcellona riesce a generare al centro (con Messi più due mezzali di possesso come Iniesta e Rakitic). Emery deve aver pensato che due linee strette e compatte sarebbero state sufficienti per lasciar sfiatare il Barcellona sulle fasce, rendendolo inoffensivo, e sul ribaltamento di campo eventuale si poteva attaccare alle spalle dei due esterni con giocatori veloci e verticali come Draxler e Lucas Moura, bravi a mangiarsi il campo in conduzione. E poi, in caso il piano fosse riuscito, servire Cavani in area.
Va riconosciuto che la strategia di rendere difficile al Barcellona l’attacco dell’area ha funzionato: nonostante il netto vantaggio posizionale, la squadra di Luis Enrique, un po’ per foga e un po’ per l’ostruzione fisica del PSG, risulta molto impreciso nell’ultimo passaggio e nella fase di definizione.
La strategia di Emery poteva avere un senso strategico, ma psicologicamente ha somigliato a un autosabotaggio. Dopo il gol di Suarez i giocatori del PSG hanno giocato con addosso un panico crescente, che li faceva cadere in errori basilari, sia nelle letture che nelle esecuzioni. Forse il piano di Emery non ha fatto i conti con uno stadio da 98 mila posti: aveva sopravvalutato la capacità della squadra di poter reggere una gara di pura sofferenza contro il Barcellona, al Camp Nou.
Il rocambolesco gol di vantaggio di Luis Suárez, unito al fatto di poter disporre a piacimento del pallone, del poter controllare i ritmi, e di non avere una seria minaccia nelle rarissime situazioni di perdita, non ha fatto altro che alimentare la dinamica positiva del Barcellona.
Il PSG presidiava il centro della propria trequarti con gli uomini, ma non lo controllava. Se all’andata Verratti e Rabiot sembravano onnipotenti, ieri non sono stati lucidi e hanno perso tanti palloni sanguinosi; i centrali dietro di loro, Marquinhos e Thiago Silva, hanno faticato persino a spazzare l’area; Kurzawa era così nel panico che ha finito per mettere la palla nella propria porta, dando al Barcellona il vantaggio di andare negli spogliatoi, a metà gara, con la metà dell’impresa virtualmente compiuta.
Il confine tra un piano gara sbagliato e un’esecuzione sbagliata è in realtà molto labile. Un esempio: il meccanismo con cui Emery vuole far arrivare il pallone sulle fasce, partendo direttamente da un lancio del portiere che raggiunga Lucas molto largo, in una posizione teoricamente sguarnita vista la difesa a 3 pura del Barcellona. Sulla lavagnetta il meccanismo è giusto, ma l’atteggiamento troppo passivo e al contempo nervoso dei giocatori ne sabota la riuscita. I lanci di Trapp sono troppo imprecisi e Lucas diventa facile preda degli anticipi di Umtiti. Dove inizia lo sbaglio di Emery nel sottovalutare l’aspetto psicologico e dove, invece, iniziano a pesare l’incapacità dei giocatori a rispondere a un contesto avverso?
Il PSG conosce il difetto strutturale del sistema del Barça, ma l’esecuzione sbagliata dei suoi interpreti mandano tutto per aria.
In questo contesto spiccano, per volume di gioco, i due esterni del Barcellona. Se Rafinha però si limita a tentare dei cambi di gioco col mancino; Neymar diventa la vera stella della partita: sempre presente sugli scarichi non si limita ad associarsi, punta con continuità l’area ed è un vero spauracchio del povero Meunier, costretto a trattenere il respiro ogni qual volta viene puntato. Il rigore del 3-0 nasce proprio da un taglio aggressivo di Neymar su passaggio di Iniesta alle spalle del belga.
Lo schieramento schiacciato del PSG costringe i due esterni del Barça a stazionare larghi per provare ad allargare il, di per sé ampio, campo del Camp Nou, aprendo spazi per le due mezzali sulla trequarti. Come da manuale del 3-4-3 cruyffiano i due esterni ricevono talmente larghi da toccare quasi la linea laterale.
Non è stata la partita più luminosa di Messi. Eppure, oltre al gol su rigore, va sottolineato anche il suo lavoro oscuro, sia tattico che psicologico. Messi non ha partecipato come sperato, anche per via del contesto ostile creatogli da Emery, che gli ha impedito di ricevere a pochi metri dall’area con spazio. Messi ha allora lavorato per facilitare il compito dei compagni e per sfiancare gli avversari: si è mosso per attirare giocatori e portarli fuori posizione così da liberare spazi al centro, si è offerto in appoggio o anche solo come linea di passaggio nella zona più intasata del campo.
La sua morsa non ha lasciato un secondo liberi i giocatori del PSG: la sua sola presenza, in una zona di campo tanto sensibile, serve al Barcellona per rosicchiare attenzione al reparto avversario. Ogni volta Messi ha ricevuto con un minimo di spazio è partito con una conduzione lampo in verticale che ha portato gli avversari ad arrancare, al panico, a un fallo tattico.