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Immagine tratta da internet
NBA Dario Vismara 11 aprile 2016 6'

72-9!

I Golden State Warriors, vincendo a San Antonio, hanno pareggiato il record dei Bulls nel ‘96, facendo davvero la storia.

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Lo scorso 3 dicembre, quando ho parlato per la prima volta dei Golden State Warriors e del loro inizio di stagione da 20 vittorie e 0 sconfitte, scrivevo che “la narrativa che circonda questa squadra è diventata: ‘Ma non è che siamo davanti alla migliore di sempre?’”. A oltre quattro mesi di distanza ancora non sappiamo la risposta a questa domanda, ma sappiamo per certo che gli Warriors del 2015-16 appartengono all’élite della storia del gioco e hanno la possibilità, vincendo mercoledì notte in casa contro Memphis, di chiudere la regular season con il miglior record di sempre: 73 vittorie e 9 sconfitte.

 

Un risultato a cui non sarebbero probabilmente mai arrivati se non avessero avuto lo stimolo costante di un’altra squadra for the ages come i San Antonio Spurs di quest’anno. Senza il pungolo di tenere a distanza la miglior difesa della NBA, difficilmente gli Warriors avrebbero mantenuto il livello di concentrazione richiesto per raggiungere un risultato del genere — anche perché assicurarsi il fattore campo ai playoff diventava vitale, dato che gli Spurs non avevano mai perso in casa, con 39 vittorie filate. Fino a ieri sera.

 

Vincere all’AT&T Center — pur in una partita senza Tim Duncan e Boris Diaw — aveva quindi più di una motivazione per gli Warriors: pareggiare il record dei Bulls (mai nessun altro era andato oltre quota 70 vittorie); impedire agli avversari di chiudere imbattuti in casa (mai nessuno aveva chiuso con 41-0, solo i Celtics dell’1985-86 ne hanno persa solamente una, come possono fare gli Spurs vincendo mercoledì contro OKC); interrompere la striscia di vittorie consecutive in casa degli avversari (proteggendo allo stesso tempo la propria, che rimane la migliore di sempre a quota 54); e guadagnare un piccolo vantaggio mentale in vista dei playoff — forti anche del successo di giovedì scorso alla Oracle Arena, in cui avevano già evidenziato alcuni dei trend che si sono confermati nella gara di ieri notte.

 

La questione offensiva

Come sottolineato da Danny Leroux in una delle ultime puntate del Dunc’d On (un podcast che cambierà la vostra fruizione dei playoff, fidatevi), nei 10 quarti competitivi giocati tra Warriors e Spurs — quindi escludendo gli ultimi della prima e della terza partita, ormai di puro garbage time — il punteggio totale è di 261 a 222 per i primi, che hanno tirato dal campo col 48.2% contro il 42.3% degli avversari. È questo ultimo dato quello più deve preoccupare Gregg Popovich: se c’è una cosa che abbiamo imparato da queste quattro partite, è che gli Spurs non riescono a segnare in maniera efficiente contro Golden State.

 

Gli unici giocatori in grado di segnare contro la difesa degli Warriors sono LaMarcus Aldridge e Kawhi Leonard, ma per riuscirci hanno bisogno di una robusta dose di isolamenti che spesso si concludono in tiri dalla media distanza, notoriamente i meno efficienti nella distribuzione di un attacco. Tutto il resto del sistema offensivo dei neroargento, a partire dal meraviglioso movimento di uomini e palla che aveva contrassegnato il titolo del 2014, semplicemente non funziona contro questi Warriors, che sono in grado di negare ogni vantaggio cambiando in maniera telepatica su tutti i blocchi e forzando una palla persa nel 17% dei possessi, contro il normale 13.7 della stagione degli Spurs. In generale l’attacco di San Antonio, che è il terzo della lega a quota 108.5 punti su 100 possessi, nelle quattro contro Golden State è crollato al 94.8, con una percentuale effettiva che passa dal 52.7% al 45.8%.

 

Questi dati devono essere stati riportati anche a Popovich, che ha cercato di ovviare in due maniere. La prima: abbassare il più possibile il numero di possessi e giocarsela in una partita sugli 80 punti piuttosto che sui 100. La seconda: dare battaglia a rimbalzo offensivo pur facendo attenzione alla transizione avversaria. Fintanto che questi due espedienti hanno funzionato, gli Spurs sono rimasti in partita: ieri notte hanno chiuso il primo tempo con una proiezione sugli 88 possessi (in regular season Golden State viaggia oltre i 100) e il 37% di rimbalzi offensivi catturati, specialmente grazie a Kawhi Leonard (4 nel primo tempo, 6 alla fine), che hanno fruttato 11 punti da seconda opportunità in una partita andata al riposo sul 35 pari.

 
Kawhi Rebound
 

Il secondo tempo si è aperto subito con un parziale di 8-0 Spurs firmato da Tony Parker, che sembrava poter indirizzare in maniera definitiva la gara visto che gli ultimi due punti erano arrivati da una palla rubata da Danny Green in uscita dal timeout di Golden State. Solo che poi, come sempre accade nel terzo periodo, è arrivato Steph.

 

Scarica Steph

Dei 30 punti di media di questa stagione, Steph Curry ne segna quasi un terzo (9.8) nel solo terzo periodo, con il secondo, Kevin Durant, che si ferma a 8.4. E quello di ieri notte è stato il 30esimo quarto con almeno 15 punti in questa stagione, di gran lunga primo anche in questa classifica. Ma non è tanto il “cosa” ha fatto Steph, ma il “come”: Curry nel terzo periodo ha preso una partita in bilico e l’ha ribaltata come un calzino, dando il via con due triple consecutive al 12-0 di parziale che ha cambiato l’inerzia della gara.

 

Questa tripla che porta a +4 è uno dei motivi per cui è così difficile giocare contro Golden State: pur avendolo invitato a penetrare, il caos provocato dal suo movimento gli permette di mandare in rotazione la difesa di San Antonio e poi, dopo due passaggi, ricevere il pallone per una comoda tripla smarcata (colpa anche della mancata comunicazione tra Aldridge e Anderson).

 

Curry, memore della partita di metà marzo, ha accettato di essere “mandato dentro” dalla difesa di San Antonio e l’ha punita con una serie impressionante di floater appoggiati al vetro (che segna con continuità da tutto l’anno, ma su cui deve aver lavorato con particolare attenzione dopo quella partita), o con penetrazioni senza alcun paura dei contatti tipo questa:

 
Curry Rim
 

Una volta entrato in ritmo, Curry semplicemente non si può fermare (6/10 dal campo, 3/5 da tre) e inizia a segnare qualsiasi cosa, anche a gioco fermo tipo questa:

 

Curry 3 not count

 

O questa:

 
Curry 3 half court
 

Anche quando non contano, canestri del genere galvanizzano gli Warriors, in grado di mantenere il vantaggio a inizio quarto periodo nonostante il riposo di Steph. In particolare, l’inizio di ultimo quarto di Harrison Barnes, in cui ha segnato 8 dei 10 punti della squadra, è di particolare interesse: fino a quel momento gli Spurs lo avevano sfidato al tiro, mettendo LaMarcus Aldridge in marcatura su di lui, con un atteggiamento stile “Sirene con Ulisse”, come a dire: “Hai un vantaggio, dai, vieni a sfruttarlo, attacca il lungo dal palleggio e gioca in isolamento”. È un accorgimento tattico che risale già al primo scontro tra le due squadre nei playoff del 2013 quando Popovich, piuttosto che far tirare Curry e Thompson, sfidò il rookie Barnes a segnarne 20. Al tempo Mark Jackson cascò in pieno nella trappola, ordinando alla squadra di sfruttare continuamente il mismatch ricavandone solo un’eliminazione ai playoff, ma il coaching staff di Golden State è troppo intelligente — e conosce troppo bene Popovich, tanto che nel post gara Kerr ha detto “Io gioco ancora a dama, ma Popovich è da un po’ che gioca a scacchi” — e ha resistito alla tentazione continuando a giocare la sua pallacanestro, ricavandone poi i frutti a inizio ultimo periodo. Tanto poi è tornato Steph a mettere le ultime olive nel Martini.

 

Ad esempio con questo canestro assurdo, arrivato dopo una quasi-violazione di 5 secondi e una quasi-infrazione di metà campo, che ha definitivamente chiuso la gara. Subire canestri di questo tipo è scoraggiante anche per una squadra come gli Spurs.

 

Nel secondo tempo San Antonio non è più riuscita a fare quello che aveva fatto così bene nel primo: i possessi si sono alzati a quota 94.5 e i rimbalzi offensivi sono stati solo 5 contro i 13 dei primi 24 minuti, e si sono lentamente lasciati ingolosire dalle conclusioni dalla media distanza, chiudendo con 6/19 nelle cosiddette “long 2s”. La buona notizia per gli Spurs è che non sempre tireranno così male da fuori — 3/17 da tre, 35% nei tiri non contestati — e che con Duncan ma soprattutto Diaw, vero game changer nella vittoria di metà marzo, le cose potrebbero e dovrebbero migliorare. Ma è pacifico dire che queste quattro partite di regular season hanno fornito un quadro piuttosto chiaro in vista dei playoff, ovverosia che Golden State è avanti di qualche pezzo nella grande scacchiera di questo scontro così entusiasmante e che Popovich avrà bisogno di parecchio lavoro per colmare il gap tattico che le separa, soprattutto per trovare modi efficaci di segnare contro una difesa che li fa precipitare a livelli Sixers.

 

Dall’altra parte, gli Warriors non devono commettere l’errore di pensare di avere già il titolo in tasca. Perché è vero che hanno vinto 72 e possibilmente 73 partite in regular season, ma nei playoff non si potranno concedere le distrazioni che hanno portato alle sconfitte con Celtics e Timberwolves in casa giusto settimana scorsa. Gli stessi Bulls del 1995-96 avevano coniato il motto “72-10 don’t mean a thing without a ring”, mettendoselo anche sulle magliette pre-gara. Gli Warriors potranno anche sostituire quel 72-10 con il loro 73-9, ma il ragionamento che li deve accompagnare in vista dei playoff — e dell’auspicabile serie di finale di conference contro gli Spurs — è lo stesso.
 

 

Tags : golden state warriorsgregg popovichsan antonio spursstephen curry

Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).

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